ROMANELLI, Pietro
– Nacque a Roma il 20 dicembre 1889 dall’ingegner Gustavo, funzionario statale, e da Teresa Tuccimei, nobile di Sezze.
Allievo dei corsi di Ettore De Ruggiero, Julius Beloch, Emanuel Löwy e Orazio Marucchi all’Università La Sapienza di Roma, si laureò con quest’ultimo nel 1911 discutendo una tesi sui quartieri giudaici dell’antica Roma, da cui ricavò in seguito due articoli apparsi sul Bollettino dell’Associazione archeologica romana (II (1912), 2, pp. 132-139) e, in lingua inglese, sul Palestine Exploration Fund (XLVI (1914), pp. 134-140).
Se dal legame con il suo relatore, a sua volta discepolo di Giovanni Battista De Rossi, derivò una costante attenzione ai monumenti cristiani, furono il fertile ambiente dell’Ateneo capitolino e l’innovativa proposta educativa degli altri ‘maestri’ ad avviarlo verso una pratica della ricerca antichistica sufficientemente svincolata dalla tradizione antiquaria tardo-ottocentesca, ovvero capace di spaziare in campi diversi (epigrafia, topografia, storia amministrativa), posti però in dinamica relazione tra loro.
Dopo un anno di insegnamento al liceo ginnasio Terenzio Mamiani di Roma, nella primavera-estate del 1913, in qualità di allievo della Scuola italiana di archeologia compì una missione esplorativa nella Turchia asiatica assieme a Roberto Paribeni: la missione abbinava agli interessi scientifici una finalità più propriamente politico-diplomatica, quale quella di assicurare – sotto copertura – all’Italia una sfera d’influenza in Asia Minore in previsione dell’imminente collasso dell’Impero ottomano.
Anche se dichiaratamente legata al Lumpenimperialismus nazionale, la trasferta nel Levante mediterraneo (un ampio resoconto sulla quale, stilato a quattro mani con Paribeni, apparve nel XXIII volume dei Monumenti Antichi dell’Accademia dei Lincei (1914, coll. 6-274) con il titolo Studî e ricerche archeologiche nell’Anatolia meridionale) fu comunque utile per «effettuare una prima ricognizione dei siti archeologici del Paese e per prenotare quelli che sembrassero meritare un più accurato studio o anche una esplorazione sistematica col [successivo] sussidio di lavori di scavo» (p. 6).
All’inizio del 1915 Romanelli entrò per concorso nell’amministrazione statale delle Antichità e Belle arti con il ruolo di ispettore (r.d. 7 gennaio), passando subito dopo a disposizione del ministero delle Colonie per i servizi archeologici istituiti in Libia dopo la guerra italo-turca (d.m. 31 marzo 1915). Nel Paese nordafricano rimase solo sei mesi, abbastanza tuttavia per stabilire un primo contatto con il mondo provinciale romano e prendere confidenza con il patrimonio archeologico tripolino, prima di rientrare in patria e riprendere il suo posto nel ruolo organico del personale dei Monumenti quale addetto al Museo nazionale romano.
Nella primavera del 1918 (d.m. 18 aprile) venne nominato soprintendente ai Monumenti e agli scavi della Tripolitania in sostituzione di Salvatore Aurigemma, carica che mantenne sino all’agosto del 1923 con un approccio organico alle direttive ideologiche del regime fascista.
Sono questi gli anni in cui i risultati dell’attività di tutela e di documentazione dei beni archeologici locali impostata in precedenza e ora svolta con slancio e continuità, si colorano di quella retorica romanocentrica volta ad assimilare – propagandisticamente – le missioni civilizzatrici della ‘prima’ e della ‘terza’ Roma nel continente africano. In questo quadro di felice convergenza tra passato e presente, nel quale la civiltà romana veniva assunta ad archetipo mitico-storico cui rapportarsi in patria e fuori, si pone l’attività di ricerca programmata da Romanelli che, manifestando un interesse marginale per il periodo postclassico della ‘nuova’ colonia, diede avvio allo scavo della città imperiale per eccellenza: Leptis Magna, alla quale dedicò una monografia descrittiva nel 1925, ancora oggi valida per il suo ricco apparato documentario.
Tornato definitivamente in Italia e di nuovo assegnato alla Soprintendenza alle antichità di Roma (d.m. 30 giugno 1925), non abbandonò mai l’interesse per la Tripolitania e, più in generale, lo studio dell’Africa romana nei suoi riflessi latamente culturali e storico-artistici: materia di cui fu il più autorevole esperto italiano del suo tempo, insegnandola ininterrottamente all’Università di Roma dal 1925 al 1960, e che occupò più della metà della sua produzione scientifica, nell’ambito della quale spiccano le due opere di sintesi Storia delle province romane dell’Africa (Roma 1959) e Topografia e archeologia dell’Africa romana (Torino 1970).
Tuttavia, se nei primi apporti scientifici «ricostruzione storica e politica» sono in Romanelli «intimamente intrecciate», e dunque «l’interpretazione che presiede alla [sua] ricerca è univocamente romano-centrica» (M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, Roma 2001, p. 43), quasi del tutto priva del tono celebrativo della romanità appare invece la sua produzione successiva, specie quella degli anni della seconda guerra mondiale, laddove compare una più serena valutazione dell’apporto punico e libico alla costruzione dell’identità dell’Africa settentrionale a occidente della Grande Sirte (pp. 117 s.).
Nel 1926, in aggiunta alle mansioni consuetudinarie, Romanelli fu designato commissario riordinatore del Museo archeologico provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce, incarico che lo indusse ad allargare i suoi orizzonti dottrinali, occupandosi delle problematiche connesse con la valorizzazione del patrimonio artistico (considerato bene universale) attraverso lo sviluppo delle attività museali.
Della fruttuosa rivisitazione delle collezioni d’arte di quell’istituto rendono chiara testimonianza i due fascicoli del Corpus Vasorum Antiquorum. Italia (4, 6, 1928-1930) da lui curati e la Guida scientifica del Museo edita nel 1932 assieme a Mario Bernardini.
Nel 1931 assunse la direzione del Museo nazionale di Tarquinia, promuovendo per primo diverse campagne di scavo estensivo nell’area dell’abitato della città antica (1934-46) di cui diede conto nelle Notizie degli Scavi del 1948 (s. 8, II, pp. 193-270). Frutto di queste fortunate indagini furono, tra l’altro, l’individuazione dei resti monumentali della cinta muraria della metropoli tarquiniese, la rivelazione di notevoli tracce del relativo impianto urbanistico e, non ultimo, la completa rimessa in luce (e combinato restauro) del basamento del tempio conosciuto con il nome di Ara della Regina, da cui proviene il famoso altorilievo frontonale con due cavalli alati, capolavoro della coroplastica etrusca, recuperato in frammenti nel settembre del 1938 (Gruppo fittile rinvenuto a Tarquinia, in Le Arti, I (1938-1939), 5, pp. 436-441).
All’importante città dell’Etruria marittima, e in particolare alle sue vaste necropoli, così come ai pregevoli reperti mobili da queste provenienti, musealizzati nel quattrocentesco palazzo Vitelleschi, Romanelli dedicò una pratica guida (Tarquinia. La necropoli e il Museo, Roma 1940, 1951, 1954, 1957; nel 1959 e 1960 in inglese). Come un vero e proprio omaggio all’arte figurativa preromana si configura inoltre l’edizione da lui predisposta delle pitture di soggetto naturalistico della celeberrima tomba della caccia e della pesca (Le pitture della tomba della caccia e della pesca, Roma 1937, 1938).
Dopo questo interludio etrusco, la ‘città eterna’ tornò a essere tra i suoi interessi preminenti. Nei primi anni Trenta Romanelli fu uno dei più attivi collaboratori di Giulio Quirino Giglioli nell’allestimento della grande Mostra augustea della romanità, tenutasi a Roma per celebrare lo storico anniversario della nascita di Augusto (1937-38), dalla quale derivò in seguito il Museo della civiltà romana, inaugurato il 21 aprile 1955 e di cui fu direttore onorario dal 1957.
Dal 1938 al 1946 fu ispettore centrale tecnico per l’archeologia presso la Direzione generale delle Antichità e belle arti e in tale ruolo, negli oscuri anni del conflitto mondiale si occupò della protezione e della salvaguardia dei monumenti e delle collezioni d’arte italiani. Risalgono a questa stagione il volume sulla Cirenaica romana (1943), le opere sulle colonne Antonina e Traiana (1942) e l’elaborazione, assieme a Giuseppe Botti, del catalogo delle sculture del Museo gregoriano egizio (1951).
Nel 1946 ebbe inizio quella che Massimo Pallottino definisce «la sua grande stagione archeologica» (Pietro Romanelli, in Musei e Gallerie d’Italia, XXVI (1982), p. 9), coincidente con la reggenza delle soprintendenze di Ostia (fino al 1952) e del Foro romano-Palatino (fino al 1960), oltre che, per un breve periodo, di quella del Lazio. Da allora la sua attenzione si rivolse in particolare al periodo delle origini dell’Urbe e alle correlate testimonianze archeologiche, incoraggiando, anche con il concorso di studiosi stranieri, quelle ricerche sulla città romulea che all’inizio del Novecento erano state prerogativa di Giacomo Boni.
A Roma i lavori condotti sotto la direzione del suo ufficio riguardarono una serie di interventi conservativi su strutture sopraterra dell’area archeologica centrale ed esplorazioni condotte in profondità nel cuore stesso dell’antico tessuto cittadino, prontamente illustrate in sede scientifica. A Ostia la continuazione del programma di ricerca precedentemente impostato da Guido Calza contemplò invece l’ampliamento del locale museo archeologico, la creazione ex novo, in collaborazione con il Comune di Roma, del museo della via Ostiense presso Porta S. Paolo, e l’avvio della ricca serie di pubblicazioni sugli scavi effettuati nell’area dell’importante colonia romana alle foci del Tevere.
Collocato a riposo dal 1° gennaio 1956 per raggiunti limiti di età, terminò effettivamente la sua quarantacinquennale carriera di funzionario dello Stato solo quattro anni più tardi (1° ottobre 1960), con il ruolo di ispettore centrale di I classe per le Antichità e belle arti. Ciò non gli impedì di rimanere scientificamente attivo per molti altri anni ancora come membro e/o presidente di istituti italiani e internazionali miranti alla diffusione della cultura classica e umanistica sotto diverse forme.
Morì a Roma il 3 agosto 1981, compianto dalla moglie, Claudia Comelli, e dai tre figli: Maria (nata il 2 marzo 1921), Anna (nata il 13 maggio 1923) e Francesco (nato il 13 marzo 1931).
Un elenco completo dei suoi scritti è contenuto nella miscellanea offertagli da colleghi, discepoli e amici al compimento del novantesimo anno d’età: In Africa e a Roma. Scripta minora selecta, Roma 1981, pp. XI-XXVI.
Fonti e Bibl.: Sulla carriera e sull’attività scientifica di Romanelli si veda la relativa voce di U. Pappalardo, in Dizionario biografico dei soprintendenti archeologi (1904-1974), a cura di J. Papadopoulos - S. Bruni, Bologna 2012, pp. 667-669, con bibliografia precedente, da integrare con: A. Di Vita, Leggendo “Topografia e archeologia dell’Africa romana” di P. R.: considerazioni, note, segnalazioni, in Quaderni di archeologia della Libya, 1975, n. 7, pp. 165-187; Biografie e bibliografie degli accademici lincei, Roma 1976, pp. 1231-1236; L. Moretti, Ricordo di un maestro, in Archeologia, n.s., XX (1981), 22, p. 3; L’archeologia italiana nel Mediterraneo fino alla seconda guerra mondiale, a cura di V. La Rosa, Catania 1986, ad ind. (in partic. pp. 204-214); M. Petricioli, Archeologia e Mare Nostrum. Le missioni archeologiche nella politica mediterranea dell’Italia (1898-1943), Roma 1990, ad ind.; G. Salmeri, L’antiquaria italiana dell’Ottocento, in Lo studio storico del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento, a cura di L. Polverini, Napoli 1993, pp. 297 s.; F. Scriba, Augustus im Schwarzhemd? Die “Mostra Augustea della Romanità” in Rom 1937/38, Frankfurt am Main-Berlin 1995, pp. 76 s.; M. Barbanera, L’archeologia degli italiani, Roma 1998, ad ind.; La pubblicazione delle scoperte archeologiche in Italia. Tavola rotonda. Roma, 11 dicembre 1997, Roma 1998, p. 51; È. Gran-Aymerich, Dictionnaire biographique d’archéologie: 1798-1945, Paris 2001, pp. 594 s.