PIFFETTI, Pietro
PIFFETTI, Pietro. – Nacque a Torino il 17 agosto 1701, primogenito di Giuseppe Maria, oste, e di Secondina Margherita Damaggio (Cifani - Monetti, 2000, p. 226).
Mancano notizie certe sulla prima formazione dell’artista. La vocazione di Piffetti verso l’ebanisteria dovette essere incoraggiata, da un lato, dalla notevole crescita di qualità delle botteghe torinesi e dal costituirsi di una vera e propria tradizione – in parte frutto di un’accorta politica sabauda (S. Ghisotti - C.E. Spantigati, Mestieri preziosi alla corte dei Savoia, in La reggia di Venaria e i Savoia. Arte, magnificenza e storia di una corte europea [catal.], a cura di E. Castelnuovo, Torino 2007, I, pp. 295-321) –, dall’altro da una continuità professionale interna alla famiglia: il nonno paterno, Pietro, fu «maestro di bosco» (Gonzàlez-Palacios, in Ferraris, 1992, p. 13; si rimanda al medesimo testo, e in particolare al Regesto alle pp. 197-219, per le notizie biografiche su Piffetti, ove non diversamente indicato), il padre esercitò il mestiere di minusiere, poi abbandonato per aprire un’osteria (Cifani - Monetti, 2005, p. 23), ed ebanista divenne anche il fratellastro Francesco.
Il 10 ottobre 1722 si unì in matrimonio con Lucia Margherita, figlia del minusiere Giuseppe Burzio (per il quale si confronti Antonetto, 2010, II, p. 269). Alcune testimonianze retrospettive permettono di ipotizzare che, non lontano da questa data, aprì una propria bottega di ebanista (Id., 2001, p. 51; Cifani - Monetti, 2005, pp. 24 s.).
Suscita ancora molte difficoltà la ricostruzione della produzione giovanile di Piffetti. La si è cercata in pezzi ancorati – sia nella struttura sia nei materiali – alla tradizione piemontese. Un’enigmatica mazzarina (coll. priv.), che ostenta sul piano una ‘firma’ di Piffetti e in un’iscrizione interna a un cassetto ascrive invece la paternità all’ebanista Ludovico De Rossi, è stata interpretata con prudenza come opera di collaborazione (Antonetto, 2001; Id., 2010, I, pp. 56-58, n. 1): tuttavia, essa si inserisce bene nella serie stilistica del singolo De Rossi. Un’altra mazzarina (Torino, Museo civico di arte antica, inv. 412), sorella nella struttura ma di ben più alta qualità negli intarsi, potrebbe costituire una primizia di Piffetti (Antonetto, 2010, I, pp. 268-270, n. 73).
Nel novembre 1730 Piffetti risiedeva a Roma, ma non sono chiare le circostanze, la durata e gli scopi del soggiorno. Poiché in tale occasione eseguì il piedistallo di una croce, la cassa di un orologio e dei tavoli per Carlo Vincenzo Ferrero, marchese d’Ormea (non rintracciati), ci si è chiesti se il potente ministro di Vittorio Amedeo II avesse conosciuto l’ebanista già a Torino e non fosse stato dunque lui il regista del viaggio.
La diversità degli stimoli assorbiti da Piffetti è rivelatrice della centralità di Roma per la storia del mobile italiano del Settecento: con la mediazione dell’ebanista Pierre Daneau, parigino attivo a Roma, egli fece sua la tradizione seicentesca della tarsia lignea floreale alla fiamminga, cui si ispirarono i piani di quattro tavoli parietali (Torino, Intesa Sanpaolo; Londra, Victoria and Albert Museum; Torino, Museo civico di arte antica, inv. nn. 1348/L e 1349/L; González-Palacios, 1991, pp. 161-163 nn. 92-93; Id. in P.P..., 2013, pp. 20-23); dalla civiltà formale ‘berniniana’ riprese invece la concezione fortemente plastica dei supporti, evidente nei medesimi tavoli (Id., in Un capolavoro…, 2010, pp. 8 s.). È da approfondire l’ipotesi di lavoro secondo cui proprio Roma fu il centro intermediario ove Piffetti poté conoscere geografie artistiche lontane, come la produzione ‘anglo-indiana’ di Vizagapatam, i cui forti contrasti cromatici e materiali ricordano suggestivamente quelli del torinese (Id., in P. P..., 2013, pp. 19 s.).
Fu il marchese d’Ormea a imprimere una svolta nella carriera di Piffetti, suggerendo nel novembre 1730 a Carlo Emanuele III, da poco divenuto re di Sardegna, di richiamare l’ebanista a corte. All’inizio del 1731 Piffetti lasciò definitivamente Roma; il 13 luglio ottenne una patente regia.
Secondo un modello già sviluppato nelle corti e in particolare in Francia, Piffetti fu incaricato non solo di produrre nuove opere, ma anche e soprattutto di «mantenere in buon stato e decente tutti li […] mobili [della Corona] esistenti e che saranno tanto in questa città che ne luoghi di piacere»: fu proprio la responsabilità della manutenzione ordinaria del mobilio a giustificare uno stipendio annuo di cinquecento lire, comprensivo dell’acquisto dei materiali principali, «l’avorio, l’ebano ed altri legni, l’ottone e ogni altra cosa necessaria per detto effetto, ad esclusione soltanto dell’argento, pietre preziose, ed il cristallo di rocha». I mobili prodotti ex novo da Piffetti per la casa reale vennero invece pagati a parte.
La permanenza dell’artista al servizio dei Savoia dal 1731 sino alla morte testimonia del costante favore goduto da Piffetti alla corte di Torino; per la famiglia reale realizzò non solo imponenti mobili di apparato, ma anche raffinati calamai, scatole, sputacchiere, ventagli, spolette, pedine per scacchiere. Allo stato attuale degli studi, non è invece possibile stabilire in quali proporzioni egli abbia lavorato per altri committenti, specialmente al di fuori dai confini sabaudi; un’occasione per intessere rapporti con potenziali clienti gli venne dalla frequentazione (almeno dal 1735) dell’Arciconfraternita torinese dello Spirito Santo, a cui appartenevano esponenti dell’aristocrazia e della borghesia cittadina (Cifani - Monetti, 2005, pp. 26-29). Qui dovette, ad esempio, conoscere il maresciallo Bernhard Otto, barone di Rehbinder, per le cui nozze con Cristina di Piossasco (1739) eseguì il tavolino oggi alla Fondazione Camillo Cavour di Santena.
Le prime creazioni (1731-34) di Piffettiscaturirono dal grande cantiere architettonico di decorazione degli appartamenti del re e della regina Polissena d’Assia-Rheinfels - Rotenburg al primo piano del padiglione nord-est del Palazzo Reale di Torino (il Regio Gabinetto per il segreto maneggio degli affari di Stato, oggi Gabinetto di toeletta della regina; il pregadio del re, poi della regina, e l’antistante Gabinetto; il pregadio della regina, divenuto di re Carlo Alberto); più tardi (1736-37) si occupò degli ambienti decorati per la venuta della nuova regina, Elisabetta Teresa di Lorena (Gabinetto del pregadio della regina, oggi di re Carlo Alberto).
La natura stessa del cantiere condusse Piffetti a lavorare a stretto contatto con gli architetti del re e in particolare con Filippo Juvarra, di cui si conosce un progetto per il Regio Gabinetto (Biella, Fondazione Sella, fondo Maggia, inv. n. 548), inclusivo di uno dei due tavoli parietali con scansie (in loco): nel disegno del mobile, la parte dell’architetto risiedette nel fissare la struttura e gli equilibri proporzionali. Il problema della responsabilità progettuale solleva un nodo centrale per l’esegesi dell’intera produzione di Piffetti, in parte ancora da mettere a fuoco. Non solo, infatti, il suo corpus è disseminato di un numero di opere ‘firmate’ sorprendentemente alto per un ebanista, ma le iscrizioni spesso rivendicano per il solo Piffetti la paternità dell’invenzione e dell’esecuzione (attraverso formule lessicali desunte perlopiù dal campo dell’incisione, «[…] invenit, delineavit, fecit et sculpsit […]» si legge sul paliotto del 1747, infra).
Nel 1738 firmò il cassettone a ribalta con scansie (Torino, Museo di arti decorative, Fondazione Accorsi-Ometto), non documentato, ma forse approntato in occasione di un matrimonio della casa Savoia. Se continuò a lavorare per il Palazzo Reale, fu inoltre sollecitato per le residenze extra-urbane, quali la reggia di Venaria o la Villa della regina: qui realizzò l’intero arredo del Gabinetto della libreria (post 1734-ante 1755), dalle sputacchiere (Nichelino, palazzina di caccia di Stupinigi), agli sgabelli (Torino, Palazzo Reale), ai tavolini sino al rivestimento parietale con biblioteche (Roma, palazzo del Quirinale).
Nel 1747 dovette essergli commissionato il paliotto per l’altare della cappella Paolina del palazzo del Quirinale (Città del Vaticano, Sacrario Apostolico della cappella Sistina), offerto a Benedetto XIV da Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze, elemosiniere di Carlo Emanuele III, nominato cardinale nell’aprile di quell’anno. Una testimonianza contemporanea lascia intuire che, al momento dell’installazione dell’opera, Piffetti si recò a Roma. Di ritorno a Torino, eseguì un nucleo di opere eterogenee per funzione e destinazione, ma accomunate da medesime scelte formali: tra il 1748 e il 1751 i due inginocchiatoi per i duchi di Savoia, Vittorio Amedeo e Maria Antonia Ferdinanda di Borbone (uno a Palazzo Reale, l’altro alla palazzina di caccia di Stupinigi); nel 1749 un secondo paliotto, destinato all’altar maggiore della chiesa di S. Filippo a Torino (ora nel locale Museo internazionale delle arti applicate oggi, MIAAO); allo stesso periodo va ricondotto lo scrigno su piedistallo del Victoria and Albert Museum, non datato.
Sono opere contrassegnate dalla sperimentazione di rapporti materiali e cromatici nuovi, nelle quali le impiallacciature di legni rari cedono spesso il passo alla madreperla e all’avorio inciso e colorato per ottenere effetti di costante vibrazione luminosa.
Tra il 1756 e il 1762 Piffetti lavorò a più riprese per la palazzina di caccia di Stupinigi, in particolare per l’esecuzione dei tre pregadio degli appartamenti del re, della regina e di Benedetto Maurizio di Savoia, duca del Chiablese (in loco), forse tutti su disegno dell’architetto Benedetto Alfieri. Per il secondo appartamento del palazzo torinese del duca del Chiablese eseguì invece la scrivania a ribalta con corpo soprastante (oggi in coll. privata).
In queste ultime opere, Piffetti ridusse gli effetti di pezzatura cromatica degli intarsi a vantaggio di ampie campiture impiallacciate, ove sfruttò le possibilità espressive delle venature del legno e talora della radica di noce.
Morì a Torino il 20 maggio 1777.
Alla sua scomparsa, un numero importante di mobili di pregio si trovava ancora nella bottega, alcuni dei quali vennero messi in palio il 18 marzo 1780 a una lotteria, voluta dall’erede universale, il nipote Giuseppe Panto (Cifani - Monetti, 2005, pp. 30, 33, 46 s. nota 53).
Fonti e Bibl.: per un catalogo ragionato delle opere e un regesto documentario, si rinvia a G. Ferraris, P. P. e gli ebanisti a Torino: 1670-1838, a cura di A. González-Palacios con la collab. di R. Valeriani, Torino 1992.
C. Rovere, Descrizione del Reale Palazzo di Torino, Torino 1858, passim; D.C. Finocchietti, Della scultura e tarsia in legno dagli antichi tempi ad oggi, Firenze 1873, pp. 185-187; IV Esposizione nazionale di belle arti. Catalogo degli oggetti componenti la mostra di arte antica (catal.), Torino 1880, pp. 36-38; L’arte antica alla IV Esposizione nazionale di belle arti in Torino nel 1880. Riproduzioni in fototipia con indicazioni illustrative, Torino 1881, pp. 7, 16, 17, 19, tavv. IV, LVIII, LXIV-LXV, LXXIV-LXXV; A. Telluccini, P. P. ebanista ed intarsiatore del secolo XVIII, in Bollettino della Società piemontese di archeologia e belle arti, V (1921), pp. 56-71; A. Midana, L’arte del legno in Piemonte nel Sei e nel Settecento, Torino s.d. [1924], passim; Il Settecento italiano. Catalogo generale della mostra e delle sezioni (catal.), Venezia 1929, pp. 144-147; Mostra del Barocco piemontese (catal., 1963), III, Mobili e intagli..., a cura di V. Viale, Torino 1964, pp. 12-24; A. González-Palacios, Gli stili dei mobili, Milano 1966, pp. 129-136; L. Mallé, P. P. (c. 1700-1777) ebanista e intarsiatore di corte a Torino, in Cronache economiche, 305-306 (1968), pp. 3-15; M. Trionfi Honorati, Ipotesi per il P. e il decorativismo del tardo Seicento, in Antichità viva, XVI (1977), 1, pp. 38-47; R. Antonetto, Minusieri ed ebanisti del Piemonte. Storia e immagini del mobile piemontese 1638-1844, Torino 1985, pp. 274-343; A. González-Palacios, Genio e difficoltà del P., in Id., Il tempio del gusto. Le arti decorative in Italia fra classicismi e barocco. Il granducato di Toscana e gli stati settentrionali, Milano 1986, pp. 382-385; Id., in Fasto romano: dipinti, sculture, arredi dai palazzi di Roma (catal.), a cura di Id., Roma 1991, pp. 161-163 nn. 92-93, pp. 166 s. n. 101; Id., Il patrimonio artistico del Quirinale. I mobili italiani, Milano 1996, pp. 98-149; A. Cifani - F. Monetti, Un capolavoro inedito dall’Eremo camaldolese di Torino: nuovi contributi artistici e documentari sull’ebanista P. P., in Arte cristiana, LXXXVIII (2000), pp. 221-226; R. Antonetto, Ipotesi su una sconosciuta opera giovanile di P. P., in Studi piemontesi, XXX (2001), pp. 47-58; E. Colle, Il mobile rococò in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1738 al 1775, Milano 2003, pp. 436-445; A. Cifani - F. Monetti, Fonti iconografico-letterarie e metodologia di lavoro dell’ebanista torinese P. P.... in Bollettino d’arte, CXXXI (2005), pp. 23-52; F. Corrado - P. San Martino, P.: l’arte, il lavoro, in Studi piemontesi, XXXIV (2005), pp. 313-326; R. Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, I, Torino-Londra-Venezia-New York 2010, pp. 129-282; Un capolavoro di P. P., Torino-Londra-Venezia-New York 2010; P. P.: il re degli ebanisti, l’ebanista del Re (catal., Torino 2013-2014), Cinisello Balsamo 2013.