PANFILO, Pietro
PANFILO, Pietro. – Nacque presumibilmente nel primo decennio del Cinquecento.
La famiglia, originaria di Gubbio, si era distinta già nel Quattrocento nell’esercizio di uffici pubblici e nel dare vita a più illustri rami della famiglia romana Pamphili. Il padre, Federico, svolse la professione di medico fisico e prestò servizio anche alla corte d’Urbino, curando Elisabetta Gonzaga, moglie di Guidubaldo della Rovere.
Nel 1523 Pietro e suo fratello Gerolamo vennero segnalati a Pietro Bembo per essere assunti al suo servizio. Pietro negli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento figura con il titolo di siniscalco (maestro di casa) al servizio di Eleonora Gonzaga, figlia primogenita di Isabella d’Este, a Urbino dal 1510 come consorte del duca Francesco Maria della Rovere. La fiducia di cui godeva si riflette nelle incombenze che svolse anche al di fuori del ducato per conto di Eleonora, come dimostrano i suoi soggiorni a Mantova nel 1532 e poi fra il 1534 e il 1535 – quando fu impegnato in prolungate trattative per ottenere il pagamento della dote di Eleonora che non risultava ancora saldata – e a Venezia (settembre 1536).
Quella di Mantova fu una missione difficile, in quanto Federico II Gonzaga reagì in maniera impetuosa alla richiesta e anzi – scrisse Panfilo – «saltò in collera che pareva pazzo» (17 luglio 1534, in Archivio di Stato di Firenze, Urbino, 1. G.268, c. 22r). A Mantova doveva aver conosciuto Lelio Capilupi, uomo di lettere al servizio di casa Gonzaga: una maliziosa lettera da Roma del 1546 di Capilupi a Panfilo esponeva in dettaglio una sua avventura amorosa con una cortigiana napoletana al termine della quale affermava che, se Panfilo fosse stato presente, l’avrebbe potuta «convertir con le vostre prediche, come scrivete, a far piacere gratis» [cit. in Berra, 1930-32, p. 368].
Nel corso degli anni Trenta Panfilo tenne un’importante corrispondenza con Bembo nella quale gli scambi di favori si alternavano alle informazioni su Padova e su Urbino e alla spedizione di libri trasmessi anche a comuni amici, come Federico Fregoso, arcivescovo di Salerno sino al 1533, ma anche vescovo di Gubbio. Questi nel carteggio intrattenuto con Eleonora Gonzaga fra 1531 e 1532 le aveva proposto alcune meditazioni spirituali suggerendole la lettura delle prediche di Savonarola e delle proprie tenute a Gubbio, molto apprezzate da Panfilo. Anche per conto della stessa Gonzaga, Panfilo poi tenne contatti epistolari con Caterina Cibo duchessa di Camerino, esule a Firenze dal 1535, nel corso dei quali la aggiornava altresì sui movimenti e sull’attività di Fregoso.
Il rapporto intenso con Bembo è confermato da oltre una ventina di lettere (solo una parte di quelle effettivamente scritte) da lui indirizzate a Panfilo fra il 1530 e il 1546. Restano invece soltanto due missive di Panfilo a Bembo. In una di esse si rallegrava per la nomina cardinalizia avvenuta nel 1539, che non solo provava l’integrità morale del prelato, ma alimentava anche le speranze di un prossimo rinnovamento religioso: «gli è forza che nostro S.re Idio, como misericordioso et giusto giudice et como quello ch’ha cura de noi altri, che smorzi le simulationi et l’ippochresie, et che facci una fiata relucere la verità fra noi» (Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. Lat. 5694, c. 128r); anzi tale auspicio si sarebbe potuto meglio realizzare se Bembo fosse asceso al trono di Pietro. Parole certo non neutre e di maniera, che dimostravano un rapporto confidenziale e la consapevolezza che il destinatario doveva condividere le opinioni critiche dello scrivente verso il conformismo e le doppiezze della vita religiosa del suo tempo, e dunque l’attenzione a una riforma della Chiesa e alle sue «necessarie implicazioni dottrinali» (Biferali - Firpo, 2007, p. 163).
Da una lettera di Marcantonio Flaminio scritta a Panfilo da Verona il 9 agosto 1537 emerge il suo ruolo d’intermediario tra Flaminio e Fregoso: al suo corrispondente l’umanista rivelava di non apprezzare tanto il potere mondano e le ricchezze terrene quanto «una grata et honesta conversatione» che si accompagnasse alla «lettione et meditatione delle cose christiane», alla lettura del Nuovo Testamento e delle opere di Agostino che suggeriva a Panfilo (in Marcantonio Flaminio, Lettere, a cura di A. Pastore, Roma 1978, p. 50). Tra gli altri contatti rilevanti con uomini che furono oggetto dell’attenzione costante dell’Inquisizione vi fu quello con Antonio Brucioli.
Nell’edizione del 1537 del II e del III libro dei Dialogi della naturale philosophia di Brucioli Panfilo figura fra i partecipanti a tre colloqui, mentre il suo nome manca in quella stampata nel 1526. È presumibile un contatto diretto fra i due, forse avvenuto nel 1536 a Venezia, dove risiedeva Brucioli e dove Panfilo si recò proprio in quell’anno con Eleonora Gonzaga e con Costanza, sorella di Fregoso; i Dialogi della metaphisicale philosophia, stampati nel 1538, furono dedicati alla Gonzaga della quale Brucioli elogiava i «santi et pii costumi et la benigna pietà et charità christiane» (Dialogi..., Venezia, Zanetti, 1538, c. A.iir).
L’impegno cortigiano prolungato e attivo a fianco della duchessa di Mantova è attestato dalla presenza di Panfilo nel territorio del ducato, fra Urbino, Pesaro e Fossombrone, nel corso degli anni Quaranta, anche se nel 1547 si trovava a Roma per visitare il cardinal Alessandro Farnese e la sorella Vittoria, nuova sposa di Guidubaldo II, vedovo di Giulia da Varano.
La forte attenzione ai temi del dibattito religioso e la condivisione di orientamenti eterodossi emersero con forza in una denuncia anonima pervenuta nelle mani del S. Uffizio che definiva Panfilo un «pubblico et notorio lutherano» (Archivio di Stato di Firenze, Carte Cervini, 46, c. 169rv). L’accusa si inseriva bene nel clima di rigoroso controllo auspicato da Guidubaldo II della Rovere contro il dissenso e l’eterodossia (Buschbell, 1910, p. 315).
Stando alla denuncia non firmata ma circostanziata si rendeva noto che Panfilo ora abitava a Roma «incontro a Peruschi» (Archivio di Stato di Firenze, Carte Cervini, 46, c. 169r-v; palazzo Peruschi non era distante dal Pantheon) e che la propaganda da lui svolta toccava addirittura le campagne di Fossombrone, ove «ogni villano così raggionava e raggiona dell’epistole di san Paolo, de l’opre, de confessioni et di pregare per morti, tutte disprezzando». Panfilo non agiva da solo ma di concerto con Bartolomeo della Pergola e Niccolò da Mondavio, entrambi francescani qualificati come «marci heretici». Il più noto Bartolomeo aveva abiurato nel 1544 a Modena nelle mani dell’inquisitore, ma due anni più tardi si trovava nel convento di Pergola, località del ducato dove proprio in quegli anni erano attestate critiche alle forme del culto romano. Inoltre Panfilo poteva contare sull’aiuto di un suo discepolo, tale don Cecco, che «benché ignorante» faceva circolare le opinioni del maestro, contro la pratica delle elemosine a favore delle chiese e la devozione verso i santi, le immagini sacre e la Madonna di Loreto «opra del diavolo».
La gravità delle imputazioni si rifletté nella preoccupata missiva che i cardinali indirizzarono al collega Marcello Cervini il 22 agosto 1551 invitandolo a indagare con diligenza e segretezza su chi appariva essere un «infestissimus et nequissimus hæresiarca» (ibid.) che a Fossombrone e nelle zone circostanti aveva svolto una campagna di propaganda con la parola, con testi a stampa, e con l’aiuto di predicatori (Pastore, 1982, p. 662). Meno di un mese dopo Cervini rassicurava i cardinali del suo interessamento: ignorava la «ratio vitae» di Panfilo e le sue opinioni, ma aveva spedito il suo segretario da Gubbio a Fossombrone per informazioni più precise e accurate e allegava alla sua missiva i risultati dell’indagine in loco (ibid., p. 663).
Malgrado il peso delle accuse, non risulta che sia stato aperto un formale procedimento inquisitoriale contro Panfilo (cfr. Quaranta, 2010, p. 369) il quale evidentemente poteva contare sulla protezione della corte urbinate e specialmente su quella di Vittoria Farnese, che era intervenuta anche a favore di altri indiziati e sospetti di eresia ed era in grado di esercitare la sua influenza su Cervini. Tuttavia, due lettere del luglio 1552 dirette a Caterina Cibo rivelano che Panfilo aveva dovuto fronteggiare l’offensiva del S. Uffizio («ha hauto gran fastidii et è stato tanto travagliato da l’Inquisitione che ha hauto che far di potersi giustificare de esser huomo da bene»; cit. in Biferali - Firpo, 2007, p. 164); in ogni caso, per prudenza, non aveva scritto alla Cibo e aveva lasciato la sua abitazione a un servitore, ritirandosi in un luogo più sicuro e isolato. Una probabile allusione agli echi della vicenda inquisitoriale si può cogliere in una lettera del 1557 di Lelio Capilupi, con cui rassicurava l’amico che a Mantova «io non havea conosciuta sinistra opinione contro di voi» (cit. in Berra, 1930-32, p. 369).
Dopo la morte della sua protettrice Panfilo trasferì la sua residenza a Roma (salvo un periodo in cui rientrò a Gubbio fra il luglio 1556 e l’ottobre 1557 e un probabile soggiorno a Venezia alla fine del 1557), esercitando le mansioni di abbreviatore presso la curia pontificia, come emerge da due lettere del 1552 e del 1556. Evidentemente le indagini sulla denuncia delle credenze ereticali di Panfilo e sulla sua attività di propaganda non erano trapelate negli uffici della curia ovvero le protezioni di cui egli si avvaleva, che traspaiono dal numero di alti prelati, vescovi e cardinali di cui era corrispondente, avevano potuto neutralizzare i sospetti circolanti nel ducato d’Urbino sulla sua ortodossia. Tali lettere indirizzate a Panfilo non toccavano materie sensibili ma talora offrono indizi e sulla sua attività e sulle sue opinioni.
Per esempio alcune missive del vescovo di Senigallia Marco Vigeri della Rovere, relative agli anni fra 1550 e 1557 mostrano – al di là delle espressioni di cortesia e degli aggiornamenti sulle pratiche d’ufficio – un rapporto meno formale e più significativo: più volte ritorna il riferimento alla volontà riformatrice del prelato su tematiche evidentemente non estranee al suo corrispondente, quali il controllo sulle pratiche di stregoneria, la sorveglianza sulle monache troppo «inspirate» e la speranza di un mutamento religioso in tempi brevi («quanto più si travaglian le sorti del mondo, tanto più s’aproxima la luce della desiderata renovatione», 1554, Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. Lat. 5802, cc. 55r-56r).
Tanto i contatti con la città natale quanto l’attenzione ai temi del dibattito religioso, anche se ormai privi di espliciti connotati eterodossi, trovano una significativa conferma nella dedica a Panfilo della traduzione italiana delle opere di Cassiano (Venezia, Michele Tramezzino, 1563) a opera di fra Benedetto Buffi, eremitano a S. Girolamo di Pascelupo (Gubbio), nella quale lo esortava a trascurare «l’ambizione del mondo» impegnandosi a favore di una «vita quieta spirituale et santa».
L’11 agosto 1569 Panfilo dettò le sue ultime volontà nel testamento rogato dal notaio romano Bernardino Conti (poi modificato da un codicillo nel 1573): indicò come eredi i fratelli Gerolamo e Cristoforo (questi aveva svolto ruoli giudiziari nei tribunali rotali di vari Stati italiani) e, in caso di loro morte, i figli del primo: Federico (che fu gonfaloniere a Gubbio nel 1586), Giulio e Ottaviano; destinò poi 50 scudi a una sorella, 150 a un altro nipote e ai servitori alcuni lasciti più modesti, oltre a una veste da lutto; ordinò inoltre la distribuzione di somme di denaro a enti religiosi e assistenziali di Roma e della sua patria; infine dispose la sepoltura del suo corpo nella chiesa di S. Lorenzo nel sepolcro di Pamphilio Pamphili (identificabile con uno dei Conservatori della città, già scrivano alla Penitenzieria) «de nocte et absque alia pompa funebri» (Archivio di Stato di Roma, Notarile, notaio Bernardino Conti, 11 agosto 1569): dunque con un rituale improntato a semplicità, ma senza rinunciare alle consuete elemosine.
La data della morte non è nota ma è comunque successiva al 20 giugno 1574, quando in una lettera a Panfilo si segnalava la non buona condizione di salute del destinatario.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Bibl. apost. Vaticana [BAV], Barb. Lat. 5692, cc. 67r-72v; Barb. Lat. 5694, cc. 128r, 138rv; Barb. Lat. 5802, in part. cc. 55r-56r; Arch. di Stato di Firenze, Carte Cervini, Urbino, 1. G. 268, c. 22r; Arch. di Stato di Roma, Notarile, notaio Bernardino Conti, testamento 11 agosto 1569 e codicillo 29 ottobre 1573; Arch. di Stato di Pesaro, notaio Gio. Niccolò Piccinni di Fossombrone, procura del 28 luglio 1544; Delle lettere di M. Pietro Bembo, III, Venezia, G. Scotto, 1552, pp. 269-288; V. Cian, Pietro Bembo e Isabella d’Este Gonzaga. Note e documenti, in Giornale storico della letteratura italiana, IX (1887), p. 130; G. Buschbell, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI. Jahrhunderts, Paderborn 1910, pp. 209 s.; L. Berra, Cinque lettere inedite di Lelio Capilupi, in Archivio della R. Società romana di storia patria, 1930-32, nn. 53-54, pp. 366-373; A. Pastore, P. P. cortegiano ed eresiarca (1505 ca. - 1574?), in Rivista storica italiana, XCIV (1982), pp. 635-663 (anche per la bibliografia precedente); O. Moroni, Carlo Gualteruzzi e i corrispondenti (1500-1577), Città del Vaticano 1984, pp. 129, 276; S. Caponetto, Motivi di riforma religiosa e Inquisizione nel ducato di Urbino nella prima metà del Cinquecento, in Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1985-86, nn. 37-38, pp. 77-93, specialmente p. 79; A. Olivieri, Riforma ed eresia a Vicenza nel Cinquecento, Roma 1992, pp. 230 s., 242; W.V. Hudon, Marcello Cervini and ecclesiastical government in Tridentine Italy, Northern Illinois 1992, p. 139; B. Borello Du patriciat urbain à la Chaire de Saint Pierre: les Pamphiljs du XV au XVIII siècle, Thèse de doctorat nouveau régime Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 2000; Id., Strategie di insediamento in città: i Pamphilj a Roma nel primo Cinquecento, in La nobiltà romana in età moderna. Profili istituzionali e pratiche sociali, a cura di M.A. Visceglia, Roma 2001, pp. 31-61; Id., Alleanze matrimoniali e mobilità sociale e geografica. Il caso dei Pamphilj (XV-XVII secolo), in Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Italie et Mèditerranée, t. 115, 2003/1, pp. 345-366; M. Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2006, p. 28; F. Biferali - M. Firpo, Battista Franco «pittore viniziano» nella cultura artistica e nella vita religiosa del Cinquecento, Pisa 2007, pp. 162-166; C. Quaranta, Marcello II Cervini (1501-1555). Riforma della Chiesa, concilio, Inquisizione, Bologna 2010, pp. 368 s.