PALEOCAPA, Pietro
PALEOCAPA, Pietro. – Nacque a Nese, oggi Alzano Lombardo (Bergamo), il 9 novembre 1788 da Mario di Pietro e da Cecilia Biadasio Imberti.
I Paleocapa, nobili di Creta, dopo la guerra di Candia si trasferirono a Tine (Tinos), ultimo possedimento della Repubblica di Venezia nelle Cicladi. Dopo il trattato di Passarowitz (1718) e la fine della presenza veneziana in Peloponneso, un ramo della famiglia rimase nell’arcipelago a esercitare le funzioni di console della Serenissima, mentre un altro ramo si spostò in Dalmazia, intraprendendo con il bisnonno Angelo la carriera di cancelliere nello ‘Stato da mar’. Mario Paleocapa (1742-1817) nacque a Zara e i suoi fratelli a Corfù, sedi di servizio del genitore Pietro. Mario fu il primo a spostarsi nello ‘Stato da terra’, fra Brescia, Bergamo – in una pausa di queste cancellerie nacque Pietro, nella villa che la famiglia della madre possedeva a Nese – e Palmanova, dai primi anni Ottanta al 1797. Dopo la caduta della Serenissima, Mario venne reimpiegato dal primo governo austriaco come giudice del tribunale di prima istanza, incarico confermatogli nel napoleonico Regno d’Italia, alla corte d’appello di Venezia e poi di Brescia.
L’infanzia di Paleocapa si svolse pertanto fra la Lombardia veneta e la fortezza di Palmanova, dalla quale fuggì con la famiglia e il provveditore generale Odoardo Collalto all’arrivo dei francesi il 7 maggio 1797. Dopo il trattato di Campoformido del 17 ottobre successivo, Paleocapa seguì le sorti dei suoi concittadini, divenendo dapprima suddito austriaco e quindi italico. Avviato, secondo la tradizione familiare, agli studi giuridici a Padova, che seguì assieme a lezioni di matematica, Pietro abbandonò l’università nel 1808 per passare alla Scuola militare per l’artiglieria e il genio di Modena, riformata in una chiave tecnico-matematica a lui più congeniale, risultando primo al concorso di ammissione. Fra i due interessi, egli scelse quello per il genio civile e militare, che fu alla base della sua formazione di ingegnere, pur non laureato, come molti suoi coetanei.
Uscito nel 1812 col grado di tenente, si occupò delle fortificazioni di Peschiera e di Osoppo, prima di essere inviato in Germania, nell’ambito della nuova offensiva tedesca di Napoleone I. Partecipò, nel secondo corpo d’armata guidato dal generale Henri-Gatien Bertrand, alla vittoriosa battaglia di Bautzen (21 maggio 1813). Accerchiato e fatto prigioniero nel successivo combattimento di Dennewitz (6 settembre 1813), venne internato in Pomerania; rientrò a Brescia dopo Lipsia (19 ottobre 1813) per riprendere a occuparsi del forte Mandella, a Peschiera.
Col ritorno degli austriaci, Paleocapa fu tra i pochi ufficiali ai quali venne offerta la possibilità di passare nell’esercito asburgico. Ma egli rifiutò, forse per ragioni di coerenza, più probabilmente per poter restare vicino al vecchio genitore, ormai infermo. Proprio questo motivo fu infatti alla base della sua richiesta, inoltrata al governo austriaco il 30 novembre 1816, di essere assunto nell’imperial-regio corpo degli ingegneri di acque e strade.
Nell’istanza Paleocapa sottolineava d’essere «l’unico figlio maschio e l’unico sostegno perciò della vecchiezza di un padre cadente» (Arch. di Stato di Venezia, Governo austriaco, b. 996). Oltre a Pietro vi erano due sorelle, Marianna (poi madre di Gustavo Bucchia, ingegnere e senatore) e Carlotta. Per quel motivo aveva abbandonato la carriera militare e si era rivolto al governo, convinto «che in nessun’altra carriera civile egli potrebbe [...] riuscire plausibilmente quanto in quella degli ingegneri d’acque e strade» (ibid.). Il 4 marzo 1817 il governo approvava la proposta di assunzione di Paleocapa come ingegnere supplente con assegno giornaliero di 4605 lire, dopo aver preso le consuete informazioni, tra cui quelle di polizia, che lo descrivevano così: «d’età d’anni 29 […] giovane di qualche talento, di condotta regolare tanto sotto i rapporti morali che riguardo i politici e gode finalmente di una vantaggiosa opinione» (Ibid., Presidio di Governo, b. 723, 4 gennaio 1817).
Tra i suoi primi incarichi, nel 1818, ci fu il tentativo di metter mano al complesso e fragile sistema idraulico del Veneto, in particolare nel Polesine, dove progettò un nuovo argine tra Po Grande, Po di Goro e Po della Gnocca, il faro per il porto di Malamocco, una delle bocche della laguna veneta, e la costruzione di un’opera idraulica alla Polesella (Rampa Gussona), poi lasciata perché destinato ad altro incarico. Infatti, nel 1820 Paleocapa chiedeva di ottenere il posto vacante di ingegnere di prima classe ricevendo invece la designazione come ingegnere perito nella commissione per il censo, presieduta da Francesco Mengotti, che aveva il compito di formare il catasto del Lombardo-Veneto. Paleocapa si prodigò per congiungere la teoria censuaria alle applicazioni pratiche, elaborando rapporti e stimolando dibattiti; stese anche un piano censuario e un sistema che, pur approvato dalla commissione aulica di Vienna – dove Paleocapa si recò in missione dall’ottobre 1825 al giugno 1828 – venne tralasciato a favore di un altro la cui applicazione si dilungò per vent’anni.
Fu quello un periodo di non intenso lavoro per Paleocapa. È lo stesso ingegnere a ricordarlo all’amico e collega Angelo Zendrini, sottolineando come il suo animo «pigro e indolente» avrebbe avuto bisogno di «un pungolo esterno che ti sforzi ad agire, e di questo io manco pure dacché ho l’onore d’essere impiegato presso l’imperial regia beata Giunta del censo» (Arch. di Stato di Venezia, Misc. manoscritti, b. 157, 16 luglio 1823). Paleocapa colmò tale fase di minore operosità con letture, anche letterarie, studi e aggiornamenti, come quelli che lo condussero a progettare un ponte sospeso sull’Adige, tra Boara Pisani e Boara Polesine, sull’esempio di manufatti americani e inglesi. Il progetto non venne realizzato, a causa di ritardi dello stesso Paleocapa trattenuto dalla missione viennese, e dai dubbi dell’amministrazione.
Nel marzo 1830 rientrò a Venezia, nominato ingegnere capo della direzione generale delle Pubbliche Costruzioni, salendo successivamente fino al rango di aggiunto alla direzione (1833) e di direttore (1840), nonostante fin dal 1832 si manifestasse una grave malattia agli occhi che lo avrebbe portato alla cecità. Fu questo il periodo di maggior impegno professionale di Paleocapa, diviso tra opere idrauliche e studio delle ferrovie.
Rispetto alle prime, egli si trovò a dover risolvere numerosi problemi legati al dissesto dei fiumi e della laguna, lasciati insoluti dalla scomparsa della Repubblica veneta e dalla fine della gestione unitaria del Magistrato alle acque. L’ampia fase bellica d’inizio Ottocento aveva, infatti aggravato tali questioni per l’assenza di una decisione che preservasse non solo l’ex Dominante, ma anche il territorio limitrofo, messo a repentaglio dal bacino di scolo dei fiumi circostanti. Per ottenere un consulto autorevole Paleocapa andò in missione da Vittorio Fossombroni, ministro degli Affari esteri del Granducato di Toscana, massimo idraulico del tempo. Allora, come oggi, la questione consisteva nel trovare un giusto equilibrio fra le contrastanti esigenze della Terraferma e della laguna: nel 1821 il Consiglio aulico delle fabbriche, mostrando ignoranza della materia, decise invece di riammettere la foce dei fiumi in laguna, modificando un’impostazione secolare. Fu merito di un’azione di lobbismo, sostenuta da possidenti dell’antico patriziato dogale, e del progetto ‘Fossombroni-Paleocapa’, se le idee della commissione viennese vennero superate. Nel 1839 dopo le ennesime esondazioni, si cercò di porre ordine nei bacini di Sile, Brenta, Bacchiglione e Adige (in particolare nelle Valli veronesi) e di intervenire nei porti di Malamocco e Chioggia. Fu la rottura degli argini del Brenta a Dolo a convincere il viceré Ranieri d’Asburgo a dare immediata esecuzione a un primo stralcio, che riportava una parte del corso del Brenta nella laguna di Chioggia, mentre il resto del progetto venne approvato nel 1842, con precisa scansione temporale e di spesa. La decisione di deviare nuovamente il Brenta nelle lagune contraddiceva un costume che aveva privilegiato la difesa della Dominante. Con la perdita del ruolo di capitale, Venezia era posta sullo stesso piano degli altri capoluoghi e le sue esigenze considerate al pari di quelle della Terraferma. Gli effetti della nuova impostazione si manifestarono anche in quel caso: a fronte della soddisfazione delle aree a monte del fiume per l’indubbio risanamento delle campagne, Chioggia accolse con forti polemiche e molte preoccupazioni la rettifica, temendo, come accadde, che la zona subisse un interramento, con conseguenze sia nelle attività economiche della città con la riduzione della pesca a favore dell’agricoltura, sia dell’ecosistema. Le pressioni del Municipio e della comunità isolana non vennero recepite: tuttavia oltre cinquant’anni dopo (1896) si dovette nuovamente intervenire per riportare il Brenta a sud della laguna, a Brondolo, dove sfocia tuttora.
A partire dal 1838 era stata avviata anche la costruzione della diga di Malamocco, tesa a migliorare l’ingresso nel porto. Era questa, da sempre, la principale via di comunicazione tra l’Adriatico e la laguna, cui già si erano rivolte le attenzioni di un’apposita commissione avviata per volere di Napoleone I fra 1811 e 1813. Questi progetti prevedevano la costruzione di due grandi dighe di 1600 metri, «l’una al nord, per impedire il progredimento delle sabbie, l’altra al sud, perché la corrente dovuta all’alterato flusso e riflusso, stretta tra le stesse, solcasse lo scranno che le sabbie avevano già steso davanti al porto, e, tenendo purgato il porto, conservasse allo stesso la dovuta profondità» (Turazza, 1869, ora in Marangoni, 2011, p. 200). Paleocapa, invece, ne progettò e costruì una sola, la diga nord, in pietra d’Istria come i murazzi – le difese a mare costruite dalla Serenissima e restaurate dal governo austriaco – e protesa per 2500 metri, mentre solo nel 1847 progettò la diga sud, realizzata dopo la sua partenza. Grazie al gioco delle correnti, infatti, la ‘gran diga’ aveva formato un lungo e dritto canale che, tagliato lo scanno, apriva e apre – pur modificata dalle dighe mobili Mose – un ingresso ampio e sicuro per le rinnovate aspirazioni del porto veneziano.
Gli studi e le osservazioni – che trovarono spazio nell’introduzione di Paleocapa alle Considerazioni sopra il sistema idraulico dei paesi veneti di Fossombroni (Firenze 1847) e in altre memorie – tornarono utili a Pietro alcuni anni dopo, allorquando nel 1855 fu nominato presidente della commissione scientifica preposta allo scavo dell’istmo di Suez. La nomina provava, da un lato, il raggiungimento di una fama internazionale da parte di Paleocapa, se, come parve, la scelta si dovette all’artefice principale Ferdinand de Lesseps; dall’altro, confermava l’esistenza di un costume e di una cultura tecnologica radicata nel mondo asburgico e più largamente in Europa, in cui la figura di Paleocapa aveva fatto scuola e trovava speculari figure, dall’amico Luigi Torelli a Luigi Negrelli che lo affiancarono nei lavori della commissione. Con Negrelli poi condivise anche un collaboratore, l’ingegner Gedeone Scotini che Paleocapa aveva posto a dirigere il ‘piano Fossombroni’, istituendo un apposito ufficio a Padova, dal quale questi venne trasferito nel 1854 per seguire l’attuazione del progetto ferroviario Verona-Bolzano, opera di Negrelli; trasferimento che dette luogo a polemiche perché il progetto originario «perse tutte le garanzie di una sua corretta realizzazione» (Casetta, 2002, p. 9). Ulteriore dimostrazione della fama di Paleocapa venne dalle missioni operate nell’Impero asburgico, in particolare in Ungheria, per la sistemazione del Danubio nei pressi di Budapest (1842), del Tibisco e degli altri fiumi della Transilvania (1845-1846) e per la definizione del braccio principale del delta del Danubio, identificato nel canale di S. Giorgio (SfântuGheorghe), preferito al ramo di Chilia fino ad allora considerato più importante.
L’altro interesse preminente di Paleocapa fu quello per le ferrovie, di cui fin dalle sue prime visite in Austria e Boemia colse il valore per lo sviluppo economico, la diffusione delle idee e il movimento di persone. Prediligendo l’aspetto tecnico prima di quello politico fu portato a optare sempre per il percorso più razionale, anche a costo di intervenire scavando gallerie o rimuovendo ostacoli naturali, come nel caso del ponte ferroviario translagunare (1841-1846) che violò per la prima volta l’insularità di Venezia. Paleocapa tradusse tali convinzioni sulla carta già nella Ferrovia ferdinandea Milano-Venezia, anche suggerendo, con molta probabilità, un suo vecchio compagno di studi a Modena, Giovanni Milani, per il ruolo di ingegnere capo.
Fu senz’altro nei lavori preparatori della ferrovia, tra 1840 e 1841, che ebbe modo di conoscere Daniele Manin, allora avvocato di quella parte degli azionisti che si riconosceva nel cosiddetto ‘partito di Treviglio’, sostenuto anche da Paleocapa contro l’altra opinione che voleva far salire la ferrovia verso la città di Bergamo, considerata non propizia per una strada ferrata perché sita in terreni ricchi di risorgive e soprattutto, dal suo punto di vista, causa di un percorso meno diretto. Da qui probabilmente originò la nomina che Manin operò dopo l’insurrezione e la proclamazione della Repubblica il 22 marzo 1848, quando affidò a Paleocapa il ministero delle Costruzioni pubbliche e, qualche giorno più tardi, gli Interni. La sua adesione al governo rivoluzionario poteva stupire, considerando il carattere moderato dell’uomo, in linea con la sua dimensione di tecnico metodico, definito dai rapporti di polizia «irreprensibile», tutt’al più «affezionato al passato ordine di cose» (Arch. di Stato di Venezia, Presidio di Governo, b. 723, 5 aprile 1833); definizione questa che doveva esser letta nel duplice riferimento al governo napoleonico, in cui Paleocapa si era formato, e alla Repubblica veneta, verso cui invece anche per la sua origine greca aveva da sempre mostrato devozione. Viceversa tale partecipazione andava intesa nella volontà di dare continuità alle istituzioni ed espressione a una società civile – veneta e, più in grande, nazionale – cui Paleocapa apparteneva. Monarchico, accettò la neonata Repubblica in forza delle scelte moderate fatte da Manin. Uomo d’ordine, si schierò con i Savoia votando per l’adesione al Regno dell’Alta Italia, il 4 luglio 1848, ed entrando in questo modo a far parte del governo di Jacopo Castelli – altro avvocato e amico, anch’egli impegnato nella Ferrovia ferdinandea a favore del ‘partito di Bergamo’ – che doveva gestire la fusione, dopo le dimissioni di Manin. Nella nuova compagine governativa Paleocapa assunse ancora il dicastero delle Costruzioni pubbliche, unito all’Istruzione. Ma furono incarichi di breve durata: già il 7 luglio fu inviato a Torino, con Giuseppe Reali, per definire l’annessione, poi vanificata dall’armistizio Salasco (9 agosto 1848).
Finita l’ambasceria, Paleocapa rimase in Piemonte per continuare a sostenere la causa veneziana. Dopo esser stato coinvolto già il 27 luglio 1848 nel governo di Gabrio Casati – fu ministro dei Lavori pubblici per un paio di settimane: il governo si dimise, infatti, dopo l’armistizio il 15 agosto – Paleocapa restò defilato, accettando solo l’incarico di ispettore onorario del Genio, fino al 3 novembre 1849, quando il presidente del Consiglio Massimo d’Azeglio lo pose nuovamente alla guida dei Lavori pubblici, che tenne ininterrottamente anche con Cavour, presentando una settantina di progetti di legge, fino al 18 novembre 1857.
Nel periodo piemontese postquarantottesco, mentre iniziava una brillante carriera politica oltre che ministeriale, che lo vide deputato al Parlamento subalpino (1848-54) e quindi senatore del Regno sabaudo (1854) e d’Italia, Paleocapa rinunciò – senza opposizione delle autorità imperiali – alla cittadinanza austriaca (1849) e fu nominato socio di numerose accademie. Dopo esser stato eletto socio dell’Ateneo veneto (1833), della Società aretina (1835) e dell’Istituto veneto (1839), divenne così membro della Società italiana delle scienze detta dei XL (1860), dell’Accademia d’agricoltura (1865) e dell’Accademia delle scienze (1867) di Torino; cavaliere della Corona di ferro, sotto l’Austria, fu insignito di tutti gli ordini della monarchia sabauda – da quello dei Ss. Maurizio e Lazzaro alla Corona d’Italia, al collare dell’Annunziata – e perfino della Legion d’onore francese.
Durante il suo periodo di governo, Paleocapa, forte dell’aspirazione all’Unità d’Italia, contribuì all’ampio processo di rinnovamento dello Stato di Sardegna per farne un regno moderno in ottica europea. In questa chiave si succedettero molti interventi volti a migliorare la rete viaria collegata a quella di navigazione e ferroviaria, per favorire la più ampia circolazione di merci e di genti in un ambito nazionale e internazionale. Tra questi, in particolare, la linea Genova-Novi, con la costruzione della galleria dei Giovi (1854) e il traforo del Fréjus, il primo sotto le Alpi, iniziato nel 1857 e inaugurato dopo la sua morte (1871). Persa progressivamente la vista, si dimise dal dicastero dei Lavori pubblici nel 1857, ma Cavour e Vittorio Emanuele II lo vollero ministro senza portafoglio fino alle dimissioni del governo dopo l’armistizio di Villafranca (19 luglio 1859). La sua azione continuò pertanto a dispetto della cecità: divenne presidente delle Ferrovie dell’Alta Italia (1863) e contribuì a stilare la legislazione sui lavori pubblici del 1865, in vigore, con successive modifiche, fino alla Repubblica italiana.
Severo e intransigente anche con se stesso, declinò l’offerta del re di formare un nuovo governo dopo le dimissioni di Bettino Ricasoli nell’aprile 1867: preferì dedicare le ultime energie a Venezia unita all’Italia, in qualità di presidente della commissione di studio per il miglioramento dei porti e delle lagune.
In quella veste intervenne di persona – sostenuto dall’amico Torelli, primo prefetto della città – nel dibattito attorno alla natura del porto, che egli intendeva soprattutto di transito, nonché sull’identificazione del miglior luogo per la costruzione della stazione marittima, collegata al ponte ferroviario, e nel risanamento dei siti storici, suggerendo, poche settimane prima di morire, la creazione del bacino Orseolo, dietro piazza S. Marco, e riuscendo a vincere le resistenze locali.
Morì a Torino il 13 febbraio 1869.
Opere: oltre ai testi citati, si segnala l’ampia la produzione di consulti, inventariata da L. Torelli, Elenco generale degli scritti editi ed inediti dell’illustre P. P., Venezia 1871. Inoltre: Memorie di idraulica pratica, Venezia 1859; Del viaggio medio percorso dalla terra che si trae dalle cave e si trasporta nei rilevati. Istruzione stesa per norma degli ingegneri veneti nell’anno 1823 dall’ingegnere P. P. ad ora per la prima volta pubblicata con appendice sull’effetto utile della forza dell’uomo applicata ai lavori di scavo e di riparto, ibid. 1869; Memoria idraulica sulla regolamentazione dei fiumi Brenta e Bacchiglione. 1843. Manoscritto, a cura di P. Casetta, Roma 2002.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Governo austriacoII dominazione, bb. 996, 6702, 6799; Miscellanea atti diversi manoscritti, b. 157 (Archivio Paleocapa); Ibid., Presidio di Governo, b. 723; Ibid., Ufficio del genio civile, Disegni, s. A/10; s. A/27-1; Ibid., Direzione delle pubbliche costruzioni, b. 570; Ibid., Presidenza della luogotenenza delle province venete, b. 5; Venezia, Arch. storico della Camera di commercio, b. 401; Roma, Museo centrale del Risorgimento, Archivio, bb. 5, f. 100; 369, ff. 35, 43; 829, ff. 19, 21, 22, 23, 24, 25. Inoltre: necr., D. Turazza, Commemorazione di P. P. letta al R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti nell’adunanza 20 giugno 1869, Venezia 1869, ora in Commemorazioni di soci effettivi 1843-2010, I, a cura di M. Marangoni, Venezia 2011, pp. 195-206; G. Colabich, P. P. uomo di stato ed economista (con suoi scritti inediti di materia censuaria), Padova 1924; Gli italiani e il Canale di Suez: lettere inedite di P. P., L. Torelli, E. Gioia, a cura di A. Monti, Roma 1937, ad nomen; G. Di Prima, L’opera politica e tecnica di P. P. alla luce di un epistolario inedito, Milano 1940; G. Belotti, P. P., Bergamo 1953; Contributi su P. P. 1788-1869, a cura di M.F. Tiepolo, Venezia 1988; P. P. e la grande ingegneria dell’Ottocento, Bergamo 1989; Ingegneria e politica nell’Italia dell’Ottocento: P. P., Venezia 1990; A. Bernardello, La prima ferrovia fra Venezia e Milano. Storia della imperial-regia privilegiata strada ferrata ferdinandea lombardo-veneta (1835-1852), Venezia 1996, ad indicem; P. Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Torino 2007, pp. 64, 71, 90, 93, 123-125, 142, 165, 175, 208, 211, 235, 277, 288, 291, 294, 300, 331 s., 359, 374; Camera dei deputati, Portale storico, ad nomen (http://storia.camera. it/deputato/pietro-paleocapa-17881111#nav).