METASTASIO, Pietro
Poeta, nato a Roma il 3 gennaio 1698, morto a Vienna il 12 aprile 1782.
La vita nel periodo italiano. - Figlio di Felice Trapassi, d'Assisi, già soldato del papa e poi negoziante, e di Francesca Galastri, bolognese, fu messo in tenera età a imparare l'arte dell'orefice. Egli si dava invece a cantare e a improvvisare; e la felice precocità, insieme con la bellezza della persona, attrasse la curiosità di G. V. Gravina, che lo volle, decenne, presso di sé e lo avviò a studî severi; poi lo prese in casa, lo adottò come figlio e gli grecizzò il cognome in Metastasio. Di più gl'ingiunse di abbandonare quell'abitudine d'improvvisar versi su qualunque soggetto, che gli procurava applausi e popolarità, ma anche lo condannava a disperdere le sue promettentissime energie creative. Avendo dovuto il Gravina tornare a Scalea in Calabria, condusse seco il fanciullo e lo affidò al stesso suo maestro Gregorio Caloprese, il quale gl'insegnò la filosofia cartesiana, che non fu senza efficacia sulla sua formazione intellettuale. Tornato a Roma, il M. vestì l'abito talare e ricevette gli ordini minori; attese agli studî della giurisprudenza, ma senza soffocare la propria tendenza naturale alla poesia. Nel 1717 furono stampate a Napoli le prime Poesie di P. Metastasio, che comprendevano il Giustino, tragedia composta a quattordici anni, il Convito degli Dei, idillio epico in ottave; il Ratto d'Europa, idillio mitologico in versi sdruccioli, la Morte di Catone e l'Origine delle leggi, capitoli in terza rima, e un'ode Sopra il Santissimo Natale.
Il 6 gennaio 1711 moriva il Gravina, lasciando al M. la sua libreria, un capitale di circa quindicimila scudi romani, e, più preziosa, una severa eredità di cultura e di gusto. Da lui il M. aveva imparato a studiare i classici, traendone insegnamenti di naturalezza e di semplicità: e se dopo la sua morte poté dedicarsi più liberamente allo studio di poeti invisi al Gravina e congeniali al suo spirito (Ovidio, il Tasso, il Guarini, il Marino), non per questo si allontanò dal programma di un'arte limpida e schietta, a cui doveva poi tener fede costantemente. Ricevuto in Arcadia il 15 aprile 1718 col nome di Artino Corasio, vi esordì leggendo un'elegia, La strada della gloria, in memoria del Gravina. Verso la metà del 1719 si trasferì a Napoli, perché a Roma il nome e la scuola del Gravina avevano molti nemici, e dopo la morte di lui queste inimicizie si erano in parte rivolte contro il M. A Napoli entrò per necessità nello studio dell'avvocato G. A. Castagnola: ma non tralasciò per questo di scrivere versi, cui lo stimolarono l'incanto dei luoghi e il fascino della società aristocratica che tanto gradiva il giovane abate e poeta. Nel 1720 compose un epitalamio per le nozze di don Antonio Pignatelli, principe di Belmonte, con donna Anna Francesca Pinelli di Sangro, e per la stessa occasione scrisse una serenata, l'Endictione, che dedicò poi alla cognata della sposa, donna Mariana Pignatelli contessa d'Althan, dama di corte dell'imperatrice a Vienna. Forse per i buoni uffici di qualcuno di questa famiglia scrisse nel 1721, incaricatone da Antonio Borghese, viceré di Napoli, gli Orti Esperidi, per il natalizio dell'imperatrice Elisabetta Cristina, moglie di Carlo VI. In questi componimenti occasionali il M. già rivelava, pur fra le reminiscenze dei suoi modelli preferiti, virtù di colore descrittivo e di melodiosità. Ma chi intuì la sua grandezza futura fu una donna, la cantante Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, che aveva sostenuto negli Orti Esperidi la parte di Venere. Celebre e ricca, prese a proteggere il giovane prodigioso non solo facendogli conoscere gl'insigni maestri e cantanti che frequentavano la sua casa, ma facendolo istruire nella musica dal Porpora, togliendolo all'esercizio della legge e inducendolo a comporre il suo primo vero melodramma, la Didone (1723). Questo, rappresentato a Napoli nel 1724, ebbe accoglienze trionfali, malgrado la mediocre musica del Sarro. La parte della protagonista fu sostenuta dalla stessa Romanina: e la fortuna arrise poi per tutto il secolo a questo melodramma, che fu musicato da circa quaranta maestri. Certo il favore che lo accolse andava soprattutto all'azione e ai versi, opera non più di uno stanco verseggiatore docile ai capricci, anche irragionevoli, dei musicisti, ma di un vero poeta.
Per un decennio la Bulgarelli fu l'ispiratrice del M.; e dopo l'andata di lui a Vienna ne amministrò le rendite, avendo ricevuta regolare procura. Essa avrebbe voluto seguire l'amico a Vienna, ma poi si fermò o fu fermata a Venezia: a Vienna andò solo il marito di lei, e il poeta la tenne lontana ostinatamente con lettere assai fredde. Tuttavia alla sua morte (1737) essa lasciò erede universale il M.; il quale però non accettò l'eredità e vi rinunziò a favore del marito. Una vera relazione amorosa ebbe invece il M. a Roma con una donna a noi ignota. Poco si sa di questo episodio, che non fu estraneo alla risoluzione del M. di accettare l'invito di recarsi a Vienna, dove peraltro fu ancora perseguitato per anni dalla lite sorta da questo scandalo: finché nel 1737 la donna da lui compromessa pare si facesse monaca e la lite si estinse.
La vita del M. nel periodo viennese. - L'invito di recarsi a Vienna per sostituire il vecchio Apostolo Zeno nell'ufficio di poeta cesareo gli fu rivolto il 31 agosto 1729 per suggerimento dello stesso Zeno, desideroso di ritirarsi, e per raccomandazione della contessa D'Althan, vedova del favorito dell'imperatore. A Vienna giunse il 17 aprile 1730, e vi rimase fino alla morte, sotto Carlo VI e Maria Teresa. Nella vita intellettuale austriaca prevaleva a quel tempo l'elemento italiano, rappresentato da poeti, artisti, scienziati. A corte si parlava italiano, e il M. visse a Vienna più di mezzo secolo senza curarsi d'imparare il tedesco. Dai sovrani fu trattato con larghezza e benevolenza: contrasse amicizie insigni, fu intimo del celebre cantante Farinello, cioè Carlo Broschi, che, divenuto favorito alla corte di Spagna, aiutò assai la fortuna dei suoi melodrammi a Madrid. Si legò intimamente con la D'Althan, donna di colta e viva intelligenza; e si disse anche (ma è tutt'altro che certo) che la sposasse segretamente. Fecondissima fu l'attività poetica del M. fino alla morte di Carlo VI (1730-40): oltre agli oratorî e alle azioni drammatiche compose in quegli anni undici melodrammi, fra i suoi migliori: l'ultimo di essi, Attilio Regolo, fu scritto nel '40 per l'onomastico dell'imperatore, ma questi morì nell'ottobre, e il melodramma venne rappresentato solo dieci anni dopo alla corte di Dresda.
Maria Teresa, che successe nell'impero a Carlo VI, protesse il M. con grande benevolenza, e ne fu ricambiata di devota fedeltà, ma non richiese all'arte sua prove considerevoli: tanto che il poeta si limitò a scrivere pochi e fiacchi melodrammi, disperdendo invece la propria abilità in brevi cantate, azioni teatrali, omaggi, piccoli lavori d'occasione ispirati dalle varie ricorrenze della vita di corte. Dopo la morte della D'Althan (1755) cessa quasi del tutto l'attività melodrammatica del M. e anche la sua produzione spicciola continua per necessità e per stanca abitudine cortigianesca, ma senza che vi partecipi la sua ispirazione. Del resto già nel '52 in una lettera al Farinello lamentava i ceppi insopportabili che limitavano la sua opera drammatica, dovendo tutto, la scelta dei soggetti, la durata della rappresentazione, le mutazioni di scena, il numero delle arie, obbedire alle esigenze assurde delle cantanti di corte. Così invecchiò onorato in ogni modo da Maria Teresa (che nel 1776 lo chiamava "mon ancien maître, qui fait la gloire de notre siècle et encore plus de ceux à qui il s'est voué"), ma riducendosi negli ultimi tempi a un'attività esclusivamente critica. Lo rendeva anche malinconico il ricordo della gloria giovanile, ora che si sentiva estraneo alla società trasformatasi e all'arte che si rinnovava; e lo tormentavano le liti e le proteste di suo fratello maggiore Leopoldo, rimasto a Roma. Ultimo dei suoi melodrammi fu il Ruggero (1771), musicato dal Hasse e rappresentato a Milano per le nozze dell'arciduca Ferdinando con Maria Beatrice d'Este, per la quale occasione il Parini scrisse l'Ascanio in Alba, musicato dal Mozart giovinetto.
Negli ultimi anni il M. fu consolato dall'affetto di Giuseppe e Marianna Martinez, figli di Niccolò, cerimoniere della nunziatura pontificia presso la corte austriaca, nella casa del quale abitò fin dal primo giorno della sua dimora viennese. Giuseppe fu segretario del poeta; e questi educò paternamente Marianna, facendole dare lezioni di pianoforte e di canto da Giuseppe Haydn, che abitava in una soffitta sopra l'alloggio di lui. A Maria Teresa morta nel 1780 il M. sopravvisse due anni soltanto e morì, pare, a cagione di un raffreddore che lo colse mentre stava a una finestra a vedere il solenne ingresso di Pio VI venuto a Vienna per visitare l'imperatore Giuseppe II. Col suo testamento istituì erede universale Giuseppe Martinez. Il compianto universale per la sua morte fu espresso in una medaglia coniata in suo onore con la scritta per noi curiosa: "Sophocli italico". Uomo di grande onestà, natura non certo eroica, ma più dignitosa di quanto faccia credere la tradizione (dando troppa importanza a un noto aneddoto alfieriano), temperamento idillico e alquanto malinconico, scarso di volontà, amante del quieto vivere ma non egoista, generoso con i suoi familiari e con gli amici, refrattario all'odio e all'invidia, il M. attuò in sé un equilibrio morale, che non dava baleni di luce sovrana, ma escludeva d'altra parte le ombre violente. Di abitudini assai metodiche, regolò sapientemente le sue occupazioni, anche lo studio e la poesia stessa che, malgrado l'apparenza, non fu in lui facile improvvisazione, ma frutto di meditato e spesso faticoso lavoro.
Le diverse maniere del melodramma metastasiano. - Il M., pur riconoscente al Gravina per l'educazione classica che ne aveva ricevuta, se ne emancipò assai presto, seguendo quella sua natura idillica, galante, musicale che era agli antipodi dell'arido classicismo graviniano e s'accordava invece coi gusti dell'Arcadia. Il momento di transizione fra l'una e l'altra forma è rappresentato dal citato volume di poesie del 1717, il quale contiene fra l'altro la tragedia Giustino, costruita sullo stampo di quelle del Gravina, ma di argomento amoroso, di fine lieto, di scena mutabile. Entrato in Arcadia (era stato dei Quirini, cioè degli Arcadi graviniani dissidenti), il M. aderì all'arte arcadica nel 1719 con la canzonetta Già riede primavera, una delle tante ch'egli scrisse, mirabili per limpidezza, per fluidità musicale, per la vita che acquista in esse il sentimento amoroso, sia pure limitato a una breve e tenue commozione, come era nelle consuetudini spirituali di quell'età. Della popolarità di alcune fra queste canzonette, così facilmente orecchiabili, fa fede l'episodio del poeta Gabriele Rossetti che, improvvisando nel 1820 tra la folla di Napoli esultante per la concessa costituzione, si sentì imporre dalla folla stessa come ritornello obbligato due versi della canzonetta del M. A Nice: "Non sogno questa volta, Non sogno libertà". Ai melodrammi metastasiani preludono alcune delle sue cantate, che sono idillî graziosi, composti di un recitativo in endecasillabi e settenarî e di strofette finali: hanno insomma lo schema, abbreviato, del melodramma. Anche i primi epitalamî e idillî mitologici (Teti e Peleo, Il ratto d'Europa, Il Convito degli Dei) e le prime azioni teatrali rappresentate nel 1721 e 1722 con musica del Sarro e del Porpora (Galatea, Endimione, Gli Orti Esperidi, Angelica), intonate a molle dolcezza e drammaticamente agili, preparano il melodramma. Con la Didone l'arte del M. si rivela ormai adulta e personale, e la protagonista vi appare una figura viva e vera, non perché assomigli al modello virgiliano, ma perché ritrae la donna settecentesca, mobile e incoerente, ma candidamente fedele al mondo che l'ha prodotta. Dalla Didone in poi il melodramma del M. segue un'evoluzione, in cui la critica ha ravvisato tre maniere, corrispondenti ai tre periodi (ascendente, culminante, discendente) distinti dal Carducci nella vita artistica del poeta. Oltre alla Didone appartengono alla prima maniera (1723-30) il Siroe, il Catone in Utica, l'Ezio, la Semiramide riconosciuta, l'Alessandro nelle Indie, l'Artaserse. I primi tre rappresentano tre tentativi diversi: con la Didone il M. tenta il melodramma di carattere senza ricerca d'intreccio; col Siroe (di soggetto persiano) il melodramma d'intrigo artificioso; col Catone cerca di sollevarsi alla grandezza tragica. È questo il tipo del dramma eroico metastasiano: e infatti nel 1799 il Catone fu rappresentato più volte insieme con le tragedie di libertà dell'Alfieri, per alimentare la propaganda contro i tiranni. Ma il pubblico contemporaneo non fece buon viso alla catastrofe del dramma nella sua prima redazione, ché vi era rappresentato in scena il suicidio del protagonista: e una satira di Pasquino invitava la Compagnia della misericordia a dar sepoltura a quel cadavere: sicché il M. rifece l'atto 3°, introducendo Marzia a narrare la morte del marito. Quest'episodio dimostra quanto ripugnasse al gusto del pubblico la violenza tragica: e il M., che scriveva per i contemporanei, si affrettò a ritornare all'intrigo galante e al lieto fine, prendendo spunti e nomi eroici alla storia, ma adattando tipi, fatti, sentimenti al gusto del suo tempo. Certo vi è in questi drammi - dopo la freschezza quasi estemporanea della Didone - un che di decorativo, di combinato, di eccessivamente romanzesco che, insieme a qualche ineguaglianza di stile, ne raffredda l'effetto drammatico, anche se ne accresce l'interesse puramente scenico.
I drammi della seconda maniera (1730-40), Adriano in Siria, Demetrio, Issipile, Olimpiade, Demofoonte, La clemenza di Tito, Achille in Sciro, Ciro riconosciuto, Temistocle, Zenobia, Attilio Regolo, superano i precedenti per una maggiore semplicità e una maggiore varietà. Non più la complicazione meccanica dell'intrigo, ma anzi una sobrietà costruttiva piena di dignità: e d'altro canto non più l'uniformità dei personaggi sentenzianti in modo astratto, ma una nuova individuazione di caratteri studiati con cura e ritratti in situazioni di più appassionata umanità. Il Demetrio, l'Issipile, l'Olimpiade, il Demofoonte sono drammi sentimentali, cioè vi prevalgono intrecci e scene patetiche d'amore: e sono forse i più belli del Metastasio perché la sua natura vi si esprime con più lirico abbandono, non alterata dall'ambizione dell'eroico, e vi si esprime allo stesso modo l'anima del secolo, nel suo amore per il tenero e il sospiroso. L'eredità del Tasso e del Guarini, i due maestri della favola pastorale, rivive in questi drammi, specie nell'Olimpiade, dove anche le reminiscenze della tragedia greca non riescono ad appesantire la rappresentazione e a scemare la serenità melodiosa che l'avvolge. Fu questo il dramma più caro ai contemporanei del M. e ai posteri immediati: e lo musicarono più di trenta maestri. Meno degli altri invece furono ammirati ai loro tempi il Temistocle e l'Attilio Regolo, nei quali l'ambizione eroica del M., già tornata alla prova con la Clemenza di Tito, raggiunse l'espressione più nobile. E l'Attilio Regolo egli considerava il migliore dei suoi drammi, quale del resto lo considerarono poi molti critici vicini a noi, primo il Carducci. Sennonché, pur non riconoscendo giusta la freddezza dei contemporanei, negati a sentire la grandezza delle anime eroiche, e pur riconoscendo la solennità, l'eloquenza drammatica, la nobile struttura di questo dramma e la bella fierezza di alcune scene anche di altri drammi eroici del M., si è costretti ad ammettere che l'eroismo vero, fortemente impresso in caratteri di viva umanità, il M. non lo sentì, ché il suo è un eroismo di maniera, e i suoi personaggi (non escluso Attilio Regolo) ne ragionano con sonorità oratoria. Nei drammi del secondo periodo manca quasi sempre quell'elemento comico che il M. aveva introdotto di proposito in alcuni del primo, per concessione ai gusti del pubblico: ma fu poi giustamente osservato da alcuni critici che il M. qua e là riesce comico suo malgrado. Volutamente comica è invece un'azione teatrale del 1734, Le Cinesi. Al secondo periodo appartiene pure un bel gruppo di oratorî (La Passione di Gesù Cristo, La morte d'Abele, Giuseppe riconosciuto, Betulia liberata, ecc.), ispirati a sincera devozione, benché la drammaticità vi sia sacrificata a una composta eleganza lirica, che consente sì qualche slancio mistico, ma per sciuparlo nella facile musicalità delle ariette.
Il terzo periodo (dal 1740 in poi) dell'arte metastasiana è di ripetizione e di decadenza. Dall'Antigono al Ruggero (1771), ultimo dei suoi drammi, il poeta non sa più dirci nulla di nuovo né di alto: e neppure la curiosità di nuovi soggetti (p. es., nel Ruggero l'argomento cavalleresco è tratto dall'Orlando Furioso) basta a rinnovare l'arte sua. Qualche interesse ci offre invece, fra le tante cantate (una trentina) e le azioni teatrali (anch'esse circa trenta), una di queste ultime, L'isola disabitata (1752), piccolo dramma in un atto, fresco e vivo, nel quale fu trovato un lontano precedente del Paul et Virginie di Bernardin de Saint-Pierre.
L'arte di Metastasio. - Il M., scrivendo drammi per musica, riuscì tuttavia a creare opere di cui alcune furono spesso recitate come vere tragedie: il che prova com'egli superasse quella servitù alla tirannia della musica e dello spettacolo che era il difetto di tanti poeti a lui anteriori o contemporanei. Pur trattando di solito soggetti greci, romani e orientali, cercò l'interesse (fine principale, secondo lui, del poeta drammatico) nell'intreccio abilmente congegnato e sciolto quasi sempre per via di ricognizioni (riconoscimenti). In questi intrecci venivano a conflitto l'amore e un altro sentimento (amor di gloria, amor patrio, riconoscenza, ecc.); ma tali conflitti, anziché stimolare gl'impeti della passione, la piegavano a poco a poco all'obbedienza della ragione, e la catastrofe di solito era lieta. Così la galanteria e la moralità, l'eroismo e la passione venivano a comporsi in un mondo spirituale senza eccessi e, in sostanza, senza vero dramma. Mancavano altresì, a creare il dramma, i caratteri scolpiti e fortemente personali: ché anche i più vigorosi degli eroi metastasiani finivano con lo sfumare in effusioni liriche uniformi. Di qui un'aria di famiglia che accomuna questi eroi; i quali sembrerebbero appartenere a una nuova mitologia poetica, e infatti incarnano con la fissità del mito un'umanità melodrammatica che rinunzia a qualsiasi carattere distintivo di luogo e di tempo, e si sente creata esclusivamente per il teatro musicale. L'abbondare poi delle sentenze, sia nelle arie, sia talvolta anche nel dialogo e in quelle scene che richiederebbero violenta passione, se parrebbe dovesse accrescere l'umanità dei personaggi, in realtà aggiunge loro un altro elemento generico: cioè quella moralità ragionata, quella bonaria definizione degli stati d'animo che il M. attingeva specialmente alla disciplina cartesiana dei suoi studi giovanili. Ma appunto in questo ragionare e sentenziare il Settecento razionalista e ottimista trovò una delle ragioni più persuasive per amare il M. Le stesse qualità di equilibrio e di misura dimostrò il poeta nell'applicazione pratica delle tre unità drammatiche, di cui invece teoricamente trattò con audacia novatrice. Rispettò l'unità di azione, pur non rinunziando a complicare l'azione principale con episodî romanzeschi non necessarî, ma utili a ravvivare l'interesse del dramma. Osservò l'unità di tempo, pur con una certa elasticità, e similmente l'unità di luogo, che nei suoi drammi diventa una specie di unità territoriale, com'ebbe a chiamarla P. Arcari, consentendo mutamenti di scena, ma sempre entro una stessa reggia o nei dintorni di una stessa città.
Studioso del teatro greco, latino, italiano, francese, inglese, spagnolo, il M. ammise che i suoi melodrammi risentissero via via di tante letture, ma negò di aver volontariamente imitato questo o quello scrittore: soprattutto negò di aver adattato la tragedia francese al teatro italiano, come i Francesi asserivano, sia pure con l'intenzione di fargliene una lode. Di rado egli raggiunse il semplice vigore degli antichi, mentre agì efficacemente sul suo temperamento l'esempio della grazia e della consuetudine tragica francese, che amava fondere l'eroico e il galante. Del resto alle derivazioni del M. dai tragici francesi (Pietro e Tommaso Corneille, Crébillon, La Motte, ecc.) fanno riscontro imitazioni, generalmente mediocri, dei suoi drammi da parte di altri francesi (Marmontel, Voltaire, G. M. Chénier, ecc.). Fu fatta al M. l'accusa di aver impoverito il vocabolario italiano. Ma già il Baretti, pur notando che egli non aveva usato se non 6 o 7 mila vocaboli dei 44 mila che compongono la lingua, aggiungeva che con essi era riuscito a dire tutto quello che aveva da dire. Certo la facilità apparente del suo stile gli costava molta fatica, e nessuno dei suoi imitatori riuscì a pareggiarlo nella trasparenza perfetta dell'espressione, nell'aderenza all'idea, e specialmente in quella musicalità a cui egli tendeva costantemente, e che riusciva a redimere le parole più comuni accentuandone la vita sonora.
Il M. e la musica. - Nel melodramma metastasiano, una poesia volta per natura a forme musicali s'incontra con le musiche dei varî maestri, che dal canto loro avrebbero dovuto essere, idealmente, capaci di creare una musica volta a esprimere gli affetti e le crisi drammatiche da lui verseggiate. Il melodramma vive appunto di questi compromessi. Ma in realtà il M., se offrì ai musicisti, coi suoi drammi, libretti di rara virtù artistica, non sempre si sentì d'accordo con i riformatori della musica melodrammatica. Moderò, sì, la tirannia che aveva imposto a tanti poeti assurde servitù e frenò l'abuso dell'aria, curando il recitativo e facendo sì che l'aria giungesse come conclusione lirica della scena dialogata. Affermò inoltre la superiorità della poesia sulla musica, precorrendo in apparenza il Gluck: ma d'altra parte rimase ostile alla nuova scuola musicale, che con l'arricchire le armonie, con lo sfruttare i valori orchestrali per ottenere un'espressione più profonda e più varia offriva ai suoi melodrammi (e al melodramma in generale) la possibilità di attuarsi in forme più efficaci. "Pazzia, strepito e rumore" gli parve la musica di Gluck dopo la riforma, quando cioè mostrava già chiare tendenze strumentali e sinfoniche, urtando la sua sensibilità musicale, ormai incapace di afferrare altro valore che non fosse quello cantato e melodico. Così non apprezzò le geniali novità introdotte nella loro musica dagl'italiani Jommelli e Galuppi, e tanto più si mostrò contrario sia ai maestri giovani, che pur musicando i suoi drammi non lo contentavano più (quando morì, da molti anni non metteva piede in alcun teatro, tranne in quello di corte), sia ai compositori di quella musica strumentale pura che, come il Haydn e il Mozart, già avviavano l'arte musicale tedesca alle glorie maggiori. Preferiva l'arte del Hasse, fedele all'antico, e di altri compositori di mediocre ingegno. Perciò la sua modernità in questa materia si limitava a condannare le arie di bravura e a richiedere un canto che desse la massima espressione ai suoi versi, al modo stesso che codesti suoi versi li concepiva già con una decisa vocazione di canto. Timido atteggiamento di fronte al rapido rinnovarsi della musica intorno a lui.
La critica letteraria di M. - Dove invece il suo pensiero critico si rivelò acuto e abbastanza audace fu nelle questioni letterarie, e specialmente in materia di poesia drammatica, fuori dei suoi rapporti con la musica. Traducendo e commentando l'Arte Poetica di Orazio, commentando Aristotele, volle evitare insieme la "licenza francese" e la "superstizione italiana": e guidato da un vigile buon senso espose con brio idee ragionevoli. Piuttosto che principî generali trattò questioni particolari, negando la classificazione retorica dei generi letterarî, combattendo il numero fisso degli atti (per conto suo costruì i melodrammi in tre atti) e le cosiddette unità aristoteliche di tempo e di luogo. Queste egli confutò con così franco ragionamento e con tale forza persuasiva di richiami storici, che in tale argomento nessuno lo eguagliò prima del Manzoni. E se in certi punti apparvero come suoi precursori il Goldoni, il Baretti e altri, fu solo perché egli pubblicò tardi, dopo averli tenuti molti anni per sé, questi suoi scritti teorici: e cioè la citata versione e commento della Poetica di Orazio e l'Estratto dell'Arte poetica d'Aristotile e considerazioni su la medesima, che uscirono in luce poco prima della sua morte nell'ultimo volume dell'edizione parigina delle Opere (1780-82): quanto alle Osservazioni sul teatro greco, furono pubblicate nel 1795 tra le Opere postume. Il M. osservava che le unità di tempo e di luogo accrescono l'inverosimiglianza, e che fra le tante convenzioni teatrali il pubblico poteva accettare anche quella di trovarsi successivamente in luoghi e tempi diversi. E altre idee esponeva sulla tragedia con indipendenza di giudizio, quantunque dividesse con altri del suo tempo l'aberrazione di considerare il melodramma come la rinata tragedia greca, dove le arie corrisponderebbero alle antiche strofe del coro e il recitativo alla declamazione cantata che doveva rivestire il dialogo delle tragedie antiche. Belle, argute, colorite sono le lettere del M., che da esse ci appare nitido e umanissimo prosatore. Più di 2000 se ne conservano nella Biblioteca Palatina di Vienna: quelle pubblicate sono soltanto una piccola parte.
Fortuna del M. - Il M. fu il poeta massimo di un'età povera, in tutta Europa, di poesia; e la sua arte armoniosa e gentile fece di lui l'idolo del secolo. Sovrani potenti e scrittori insigni l'onorarono e lo amarono: il popolo lo ebbe caro, e non soltanto in Europa, perché le sue strofe correvano familiari sulle bocche di genti lontanissime, dalla Russia all'America. Un letterato brasiliano, Basilio de Gama, dedicandogli un suo poema, gli scriveva: "L'omaggio dell'incolta America è ben degno del grande Metastasio. Questo nome è ascoltato con ammirazione nel fondo delle nostre foreste. I sospiri d'Alceste e di Cleonice sono familiari a un popolo che non sa che ci sia Vienna al mondo". Al qual consenso popolare brasiliano risponde, p. es., un consenso veneziano altrettanto popolare, espresso dal Bertola in due versi:
Il gondolier ch'Erminia sol sapea,
or va cantando Arbace ed Aristea.
D'altra parte la reputazione ch'egli godé anche fra i dotti e gli artisti è attestata dai tanti traduttori e imitatori che ebbe. È certo peraltro che la poesia metastasiana chiudeva un'età di arte morbida e poco profonda, esaurendola in un'estenuazione musicale oltre la quale non c'era più posto per una poesia, ispirata a una più virile concezione della vita.
Perciò, tramontata con la rivoluzione francese quella società che aveva trovato uno specchio fedele nel mondo metastasiano, troppo raffinato e sensuale nelle apparenze per chiudere in sé una seria sostanza spirituale, l'arte del M. cominciò a scadere nel favore comune. Rimase vivo ancora per qualche generazione il gusto di quelle sue strofette sentenziose che esprimevano la sapienza spicciola della vita: ma era un gusto che si applicava più che altro all'educazione infantile. Agli uomini, e all'Italia che anch'essa si faceva adulta e libera e grande, aveva già da tempo offerto una poesia forte e rude, tutta intesa alla creazione del carattere nazionale, Vittorio Alfieri: che ebbe appunto il merito, come scrisse il D'Azeglio, di aver trovato l'Italia metastasiana e di averla lasciata alfieriana.
Ediz.: Per le opere del M. v.: Opere di P. M., Parigi 1780-82, voll. 12; Opere postume di P. M., a cura dell'ab. D'Ayala, Vienna 1795, voll. 3 (Osservazioni sul teatro greco, Lettere scelte, Componimenti poetici inediti); Opere scelte di P. M., con la vita del M. scritta da F. Reina (tutte le opere poetiche), Classici Italiani, Milano 1820, voll. 5. I melodrammi si vengono pubblicando a cura di F. Nicolini negli Scrittori d'Italia del Laterza. Per le lettere, oltre al volume pubblicato dal D'Ayala, v.: Lettere di P. M., Nizza 1786-87, voll. 5; Lettere di P. M., Trieste 1795, voll. 2; Lettere disperse e inedite di P. M., a cura di G. Carducci, Bologna 1883; Lettere disperse e inedite di P. M., a cura di C. Antona Traversi, Roma 1886; Pagine metastasiane, Dal carteggio con il,fratello e da altre lettere inedite tratte da corr. viennesi, a cura di A. Costa, Palermo 1923; Lettere al fratello Ant. Leopoldo. Dagli autografi della Bibliot. Nazionale di Vienna, a cura di A. Costa, Palermo 1924.
Bibl.: F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, nuova ed., Bari 1912; G. Natali, La vita e le opere di P. M., Livorno 1923 (rifuso nell'op. Il Settecento, Milano 1929); L. Russo, P.M., Bari 1921; Vernon Lee, M. e l'opera, in Il Settecento in Italia, II, Milano 1882; G. Carducci, P. M., in Opere, XIX, e Metastasiana, in Opere, XI; O. Tommasini, P. M. e lo svolgimento del melodramma italiano, in Scritti di storia e critica, Roma 1891; M. Apollonio, M., Milano 1930; J. M. Baroni, La lirica musicale di P. M., in Riv. musicale italiana, Torino, XII (1905), p. 383 segg.; P. Arcari, L'arte poetica di P. M., Milano 1902; A. Della Corte, L'estetica musicale di P. M., in Settecento Italiano: Paisiello, ecc., Torino 1922; A. Salza, La lirica dell'Arcadia ai nostri giorni, Milano; M. Landau, La letteratura italiana alla Corte d'Austria, Aquila 1880.