ROSSI, Pietro Maria
– Nacque a Berceto (Parma) il 25 marzo 1413, unico figlio maschio legittimo di Pietro e di Giovanna Cavalcabò.
Dal matrimonio con Antonia di Guido Torelli ebbe (ma le fonti sono al proposito incerte e contraddittorie) sette figli: quattro maschi, Giacomo, Giovanni, Bernardo e Guido; e tre femmine, Maria Bianca, Eleonora e Donella. Tra costoro, Maria Bianca non giunse all’età adulta. Ai figli avuti da Antonia bisogna aggiungere i naturali Bertrando, Ugolino e Cesare Maria, mentre incerta è la legittimità di una quarta femmina, Elisabetta (Isabetta), e di Francesco e Roberto, questi ultimi morti in giovanissima età. È molto improbabile che Pietro Maria fosse il padre di Ottaviano e Francesca, figli della sua amante ‘ufficiale’ Bianca Pellegrini. Fratello naturale di Pietro Maria fu Rolando (morto nel 1481), cavaliere gerosolimitano.
Pietro Maria Rossi compare di fatto sulla scena politica nel 1428, in occasione del suo matrimonio con Antonia. L’alleanza tra l’erede di Pietro Rossi, capo di un casato signorile tra i più potenti dell’area padana e la figlia di Guido Torelli, condottiere mantovano inserito nello scacchiere sudorientale del Ducato visconteo a guardia del Po, implicava una forte valenza politica. Questa unione, infatti, suggellava la rinnovata convergenza tra i Rossi e i duchi di Milano dopo un lungo periodo di crisi dei rapporti seguito alla morte di Gian Galeazzo Visconti (1402). Filippo Maria, in grave difficoltà nella guerra contro Firenze e Venezia e colpito dalla ribellione di Rolando Pallavicino, passato all’aderenza veneziana, aveva infatti deciso di puntare sui Rossi per la stabilizzazione del Parmense, da pochi anni rientrato nell’orbita viscontea: in questa prospettiva, lo sposalizio tra la figlia di un condottiere e feudatario tra i più fedeli al duca e Pietro Maria Rossi marcava l’inizio di uno stretto rapporto di collaborazione fra i Rossi e i duchi di Milano, destinato a resistere per circa mezzo secolo.
La carriera di Rossi come condottiero al servizio dei duchi di Milano iniziò verosimilmente negli anni Trenta, quando fu impiegato con le sue truppe nella guerra contro Venezia. Nel 1438, alla morte del padre, gli succedette nella signoria dei domìni familiari nel Parmense. Si impegnò ad ampliare quel territorio attraverso una politica di espansione talora spregiudicata, nella quale si intrecciarono vere e proprie guerre locali intraprese contro i casati rivali dei Sanvitale e dei Pallavicino. Fece inoltre accordi con Milano e diede vita a un’intensa attività di consolidamento e allargamento della clientela in città e nel territorio, caratterizzato ancora in pieno Quattrocento dalla forte rilevanza di legami verticali e personali che tendevano a incrinare la compattezza delle distrettuazioni ducali, cittadine e signorili.
Il più significativo successo ottenuto negli ultimi anni di regno di Filippo Maria Visconti fu indubbiamente il recupero di Berceto, chiave del passo della Cisa, che era stata tolta dal duca a Pietro Rossi nel 1420. Nel 1441 il borgo appenninico fu venduto da Filippo Maria a Pietro Maria per 9600 lire imperiali, ed è degno di nota il fatto che sia la comunità oggetto della transazione sia in generale i sudditi dei domini rossiani contribuirono volontariamente allo sforzo finanziario del loro signore con pagamenti in denaro e persino in natura, come risulta dagli atti di un processo intentato nel 1444 dalla Camera ducale a Pietro Maria, accusato di usurpazioni giurisdizionali al pari di altri signori e feudatari lombardi, quali Sanvitale e Scotti. Il procedimento si concluse con un sostanziale nulla di fatto, stante l’impossibilità da parte del duca di controllare Parma e il vasto territorio che su di essa gravitava senza l’appoggio dei casati aristocratici locali, in particolare dopo la morte di Niccolò Piccinino.
Negli anni immediatamente successivi Rossi fu impiegato militarmente e con incarichi di governo dal duca sia in Lunigiana sia in Gera D’Adda, dove nell’agosto del 1447 lo raggiunse la notizia della morte di Visconti. Nella crisi politica apertasi con la scomparsa di Filippo Maria, Rossi, forte degli ottimi e risalenti rapporti con Francesco Sforza, non si oppose alla proclamazione della Repubblica a Parma, ma (a differenza di suo padre, che nella turbolenta stagione inaugurata dalla morte di Gian Galeazzo Visconti nel 1402 aveva tentato, con parziale successo, di insignorirsi della città) giocò le proprie carte in funzione del consolidamento e dell’ampliamento dei propri domìni nel Parmense. Nella lunga serie di guerre locali combattute con alterne vicende tra il 1447 e il 1449 Rossi ottenne risultati notevoli, il più significativo dei quali fu probabilmente l’assalto alla rocca di Noceto, strappata ai Sanvitale nell’ottobre del 1448: la conquista dell’importante caposaldo sulla riva sinistra del Taro, infatti, accresceva la compattezza dei domini rossiani, distesi dal crinale appenninico al Po secondo una configurazione tipica dei poteri signorili di quest’area, ma arricchita da una tendenza ormai marcata verso la coerenza territoriale.
A questo periodo (dal maggio 1448) risale anche l’avvio dei lavori per la costruzione del castello di Torrechiara, situato in posizione strategica su un’altura alla sinistra del Parma: la rocca, ornata da pregevoli affreschi (famoso in particolare il ciclo della Camera peregrina aurea, attribuito alla scuola di Benedetto Bembo), assunse con il tempo la funzione di sede della piccola corte rossiana, fermo restando che Pietro Maria non abbandonò mai del tutto le consuetudini itineranti dei suoi predecessori e che la cancelleria e l’archivio signorile rimasero a Felino, centro geografico e giurisdizionale dei domini dei Rossi e sede del capo del casato nel corso dei primi decenni del secolo, prima con il vescovo Giacomo e poi con Pietro.
Tra gli anni Cinquanta e Settanta del Quattrocento, una volta assestatosi il quadro politico lombardo e italiano, anche le signorie di Rossi godettero di una complessiva stabilità. Sebbene la diffusione di legami di natura personale, ancora vivissimo elemento costitutivo della società rurale lombarda quattrocentesca, non consenta di applicare pienamente la categoria della territorialità all’edificio politico costruito da Pietro Maria e dai suoi predecessori, va nondimeno sottolineato il robusto profilo istituzionale del ‘piccolo stato’ rossiano, articolato in una serie di podesterie (in un decreto signorile del 1474 risultano Felino, Torrechiara, San Secondo, Berceto, Carona, Corniglio, Bosco, Noceto e Roccabianca) e a un livello inferiore di castellanie, rette da officiali di varia estrazione: dalla piccola nobiltà rurale parmense a membri di rami minori del casato a esponenti dell’élite cittadina, giurisperiti o notai. Benché Rossi nella documentazione originale si intitolasse esclusivamente conte di Berceto, la sua rete giurisdizionale e militare faceva capo al podestà di Felino, la cui centralità nella struttura politica rossiana è ampiamente testimoniata dalla documentazione esistente.
La robustezza del dominio rossiano, tuttavia, non derivava esclusivamente dal suo carattere di signoria rurale, basata sull’esercizio del mero e misto imperio, sulla diffusione dei legami personali e sulla protezione militare e fiscale che Rossi era in grado di garantire ai propri sudditi. Fattore fondamentale della potenza rossiana era infatti la numerosità della clientela cittadina, istituzionalmente organizzata in una squadra o fazione che raccoglieva il consenso della maggioranza relativa dell’élite economica e politica urbana. Pietro Maria era ben consapevole del ruolo decisivo giocato dalla clientela e dalla fazione cittadina nella definizione del proprio potere.
Come ebbe a dichiarare egli stesso in una lettera del 1466 a Galeazzo Maria Sforza, «el più precioso thesoro qual may ab eterno havesse la casa mia, la cui heredità è pervenuta in me, et è mia obligatione conservarlo, fu et è l’amicitia di citadini de Parma; cum quella qual mediante epsa mia casa et io, sucessivamente, havemo consequito reputatione, honor et credito più che per qualunche altra cosa» (Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, cartella 829, 1466 giugno 7, Torrechiara).
Fu proprio grazie all’influenza di Rossi sulla società politica parmigiana che Francesco Sforza ottenne la dedizione della città emiliana nel febbraio del 1449: la solidità del legame tra il conte di Berceto e il duca garantì per lunghi anni il soffocamento delle sempre presenti pulsioni politiche antisforzesche in città e nel territorio, assicurando la stabilità della gravitazione di Parma nell’orbita politica milanese nei precari equilibri disegnati dalla Pace di Lodi e dalla stipulazione della Lega italica; né vanno dimenticate le alleanze matrimoniali contratte con casati del calibro di Scotti (Giovanni, Eleonora), Borromeo (Guido) e Sanvitale (Donella). Benché i domini rossiani avessero perso, proprio in seguito ai trattati del 1454-55, la possibilità di connotarsi come entità politica pienamente autonoma (profilo giuspubblicistico che nell’Italia settentrionale fu invece formalmente conservato da nuclei politici signorili di peso ben minore), l’assorbimento definitivo nello stato regionale non coincise, nella sostanza, con una diminuzione del potere esercitato da Rossi. Gli stretti rapporti con gli Sforza, peraltro mai formalizzati in termini di rapporto feudale, ma solo di aderenza e accomandigia, garantivano infatti adeguate contropartite: grazie alla relazione privilegiata con il nuovo duca di Milano Pietro Maria, membro del Consiglio segreto, fu infatti in grado di distribuire e redistribuire ai membri della sua clientela risorse materiali e immateriali, si trattasse di terre, benefici ecclesiastici, lucrosi impieghi nella burocrazia, nell’esercito o presso la corte sforzesca, offici e seggi negli organismi cittadini di Parma. Gli ottimi rapporti con Milano, inoltre, garantirono a Rossi la vittoria definitiva nella lunga controversia legale con la Mensa episcopale parmense per i diritti sulle ville di Casacca, Pagazzano e Pietramogolana, risolta a sfavore del vescovo Delfino Della Pergola nel 1454.
Fin dai tempi di Filippo Maria Visconti Pietro Maria godette di remunerativi contratti di condotta militare, costantemente rinnovati da Francesco e Galeazzo Maria Sforza e concessi anche ai figli Giacomo e Guido. Altri due figli furono avviati alla carriera ecclesiastica: l’illegittimo Ugolino divenne abate del monastero benedettino di S. Giovanni Evangelista a Parma, mentre Bernardo, protonotario apostolico, fu eletto vescovo di Cremona nel 1458 e divenne vescovo di Novara nel 1466, mancando il cappello cardinalizio a causa della prematura morte, avvenuta nel 1467.
I rapporti di Rossi con i familiari furono complessi e talora tormentati. È ben nota la sua relazione extraconiugale, celebrata dagli artisti e dai letterati al suo servizio, con Bianca Pellegrini, moglie del cortigiano milanese Melchiorre da Arluno, che fino ad anni recenti ha indotto la storiografia a lasciare in ombra il pur importante ruolo della moglie legittima Antonia come nodo di rilevanti reti di relazioni politiche e di patronato. Particolarmente difficili furono i suoi rapporti con i figli Giacomo e Giovanni, diseredati nel testamento del 1464 nel quale lasciava a Bianca Pellegrini il castello di Roccabianca e al figlio di lei Ottaviano quello di Torrechiara, dividendo il resto del dominio tra i restanti figli legittimi Guido e Bernardo. Non solo Giacomo, condottiere sforzesco, si era distinto per la propria indisciplina e le continue insubordinazioni, ma nel 1463 aveva organizzato, con la complicità del fratello Giovanni, l’assassinio di Pietro Paolo Cattabriga, vecchio compagno d’armi di Francesco Sforza e marito della sua amante Ginevra Terzi.
Il testamento di Pietro Rossi, prima ancora che come forma di punizione del paterfamilias contro i figli indegni, va letto innanzi tutto come una misura estrema volta a non compromettere i rapporti con il duca e a proteggere l’integrità della signoria, evitando possibili future confische ai danni dei figli, condannati per omicidio.
I rapporti con Milano si mantennero buoni anche durante il principato di Galeazzo Maria Sforza, bruscamente interrotto dall’omicidio del duca il 26 dicembre 1476. Nella crisi che ne seguì, l’insofferenza dei casati aristocratici rivali e dei membri dell’élite cittadina esclusi dall’egemonia da lungo tempo esercitata dai Rossi a Parma e nel Parmense esplose, sfociando in tumulti e disordini. Quando, nel 1479, a Milano il governo di reggenza guidato da Bona di Savoia e dal segretario Cicco Simonetta fu rovesciato dal colpo di Stato dei fratelli Sforza, gli stretti legami tra Gian Francesco, Pallavicino e Gian Ludovico Pallavicino e Ludovico il Moro spostarono a deciso sfavore di Rossi gli equilibri politici a corte, con immediati riflessi sui rapporti di forza a livello locale. L’antica faida tra Rossi e Pallavicini si riaccese soprattutto intorno a controversie patrimoniali e giurisdizionali nella bassa pianura, in particolare nella zona di Roccabianca, manifestandosi nelle consuete forme militari e giudiziarie: su quest’ultimo versante, tuttavia, l’influenza dei fratelli Pallavicino sul Moro provocò l’irrimediabile incrinatura dei rapporti tra Pietro Maria e gli Sforza. Convocato più volte a Milano Rossi rifiutò di recarvisi, inducendo Ludovico Sforza ad attaccare militarmente lo Stato rossiano nell’inverno del 1482: Pietro Maria, ottenuta in primavera l’aderenza della Repubblica di Venezia nel più ampio contesto della guerra di Ferrara tra le potenze maggiori, si dispose a combattere, sostenuto in particolare dal figlio Guido (e anche dal diseredato Giacomo), insieme al quale fu bandito e dichiarato ribelle: a Parma i membri della fazione furono perseguitati e privati dei diritti politici.
La cosiddetta guerra dei Rossi si trascinò per più di un anno, viste le difficoltà dell’esercito ducale di fronte all’accanita resistenza dei castelli e dei sudditi di Rossi, e si concluse ufficialmente con la pace di Bagnolo del 1484 e con la confisca dei domini rossiani, in seguito parzialmente recuperati dai nipoti Filippo Maria e Troilo. Pietro Maria, tuttavia, non dovette assistere allo smantellamento della sua signoria: le sorti del conflitto, infatti, non erano ancora decise quando morì nel suo castello di Torrechiara il 2 settembre 1482.
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