MALETTI, Pietro
Nacque il 24 maggio 1880 a Castiglione delle Stiviere, presso Mantova, da Giovanni e Libera Pandini.
Di famiglia né nobile né particolarmente agiata, intravide forse nella vita militare una possibilità di carriera e presto si arruolò come sottufficiale, presentandosi volontario allievo sergente con una ferma di cinque anni (al posto di quella generale di tre) alla fine del 1898, a pochi mesi dalla stretta repressiva del maggio di quell'anno. Secondo la norma, fu quindi caporale sei mesi più tardi e sergente nel giugno 1900. Fu rilevante per la sua carriera l'aver percorso questi iniziali e modesti passi in vari reparti di bersaglieri, all'epoca di fanteria scelta: dal 6( reggimento, al 10(, al 1( sino a che, sempre col 1( reggimento, non arrivò alla scuola militare di Modena come furiere.
Bersagliereschi, secondo alcuni osservatori, cioè irruenti e militareschi, sarebbero rimasti alcuni tratti del M.; ambizioso, aveva maturato la scelta di transitare nel corpo ufficiali. Nell'Italia monarchica e liberale si trattava di una possibilità ammessa solo per una parte dei sottufficiali (nella Francia repubblicana e democratica tale passaggio era assai più ampio).
Il 14 sett. 1906 uscì quindi da Modena sottotenente del 12( reggimento bersaglieri. Nella seconda metà del decennio giolittiano e fino alla Grande Guerra la sua carriera militare trascorse lenta, come per gran parte dei giovani ufficiali del tempo, con una promozione a tenente dopo tre anni, quando il M. aveva ventinove anni ed era quindi un poco più anziano degli altri ufficiali non provenienti, come lui, dalla gavetta. A smuovere le acque fu il primo conflitto mondiale; nominato capitano all'inizio del 1915, entrò in guerra, come tutti, nel maggio successivo spuntando col tempo la promozione a maggiore (14 giugno 1917). Sia pur senza partecipare a particolari azioni che non fossero quelle, tragicamente ordinarie, della guerra di trincea nel territorio della 3ª armata, il M. si portò bene, guadagnando decorazioni e medaglie.
Ma, nel frattempo, i suoi superiori (e i suoi sottoposti) avevano imparato a conoscerlo: forse per ragioni inerenti al suo carattere fu allontanato d'autorità dal "territorio dichiarato in stato di guerra" (29 luglio 1917) e spedito in Tripolitania, dove giunse l'11 ag. 1917; laggiù, lontano dal teatro principale del conflitto, proprio alcuni tratti del suo carattere furono invece più apprezzati. Da incarichi operativi presso il regio corpo delle truppe coloniali a Tripoli (era maggiore del II battaglione "volontari" italiani, ma vi era stato comandato d'autorità) fu destinato presso il comando di un battaglione eritreo operante in Cirenaica, presso Marsa Susa.
Dal Carso a Tripoli, da Tripoli a Bengasi al comando di truppe indigene, il bilancio dell'ormai quasi quarantenne ufficiale non sembrava troppo lusinghiero: eppure proprio a questo punto la carriera del M. cominciò a prendere quota.
Cosa fosse successo, è rimasto a lungo incompreso dagli storici e taciuto dagli apologeti di regime; si può ricostruire dalla consultazione del "libretto personale" militare del M., nel quale annualmente i suoi superiori erano tenuti ad annotare le osservazioni che lo riguardavano. Dal libretto risulta che era di altezza media (167 cm) e "ottimo marciatore"; giudicato "poco studioso", avrebbe riportato a lungo giudizi non esaltanti; ma soprattutto, tra le annotazioni relative al periodo della Grande Guerra, si legge: "È ufficiale molto rigido nel mantenimento della disciplina, che ottiene ricorrendo quasi sempre alla coercizione, pochissimo alla persuasione. Ammonimenti e consigli in proposito dai suoi superiori riescono ben difficilmente a modificare il [suo] sistema punitivo"; giunto in colonia, dunque, ciò che gli era addebitato negativamente in patria diventò un merito: o forse, anche, il M. conobbe una propria evoluzione.
Di fatto, nei lunghi anni trascorsi in Cirenaica, il M. operò ottenendo apprezzamento dai suoi superiori e rafforzò la sua cultura professionale, intervenendo addirittura con qualche articolo nella stampa locale. Dal 1917 al 1923 fu attivo nei battaglioni eritrei di stanza in colonia, che lasciò solo per le licenze ordinarie e per un breve semestre in cui formalmente transitò nel suo vecchio 12( bersaglieri. Fra gennaio e febbraio 1924 fu "promosso", passando a Tripoli per assumere "funzioni politiche" a Nalut, quale comandante del Gebel occidentale, sempre in un battaglione eritreo misto (questa volta il XVII). Nell'aprile 1926 fu presso il comando settore militare della Sirte, dove lo raggiunse l'attesa nomina a tenente colonnello. Nell'estate dell'anno successivo tornò in Cirenaica, dove ricevette le spalline di colonnello (ottobre 1931) e dove rimase sino alla primavera 1934, quando tornò in Italia per un altro transito presso un reparto di bersaglieri e per assumere, alla fine dell'anno, altri più prestigiosi incarichi.
Il M., dunque, trascorse in colonia, salvo brevissime interruzioni, quasi diciassette anni, partecipando in prima persona alla "riconquista", o più esattamente alla conquista, dell'interno della Libia, prima in Tripolitania e poi soprattutto in Cirenaica, con superiori come R. Graziani, forgiando il proprio profilo di rigido ufficiale coloniale e acquisendo importanti benemerenze presso il regime fascista. Circa dieci anni dopo il suo allontanamento dal Carso e all'epoca delle leggi fascistissime (1925-26), il M. era ormai giudicato in colonia di "cultura generale e professionale notevolmente superiore a quella dei parigrado" e nel 1928 fu definito addirittura "il più completo e il più sicuro dei nostri ufficiali coloniali".
Operò in molte azioni cruciali, tra le altre: nella Sirtica per la conquista di Gialo (gennaio-marzo 1928), per la neutralizzazione di Cufra (gennaio 1929) e nella Ghibla, verso il Fezzan (gennaio-febbraio 1930), alla ricerca di Òmar al-Mukhtār (giugno 1930), di nuovo verso Cufra (dicembre 1930 - gennaio 1931).
Nel 1935 il M. fu chiamato in Somalia ove Graziani, che così tanto lo aveva apprezzato in Libia era stato nominato governatore e comandante in capo delle truppe, per la preparazione e poi per la conduzione della guerra all'Etiopia dal "fronte sud"; qui il M. guidò il raggruppamento arabo-somalo. Anche se la versione ufficiale di alcuni combattimenti in cui furono impegnati il M. e le sue truppe è elogiativa, gli storici sono stati più critici.
Ad Hamanlei, per esempio, dopo i facili successi riportati a Gorrahei e Gabredarre, errori di comando generale da parte di Graziani e di comando tattico da parte del M. portarono alla grave perdita di alcuni carri armati e a un generale insoddisfacente risultato, le cui cause erano legate principalmente alle mutate forme della guerra, con il passaggio dalla controguerriglia dispiegata in Libia alla guerra meccanizzata e di massa che andava profilandosi in Etiopia.
Alla fine del conflitto il M. assunse il comando del presidio di Dire Daua, quando ormai era in via di approvazione la sua nomina a generale di brigata per meriti di guerra (concessagli nel luglio 1936 ma, con una generosità non inconsueta al regime, con anzianità novembre 1935). Con tale grado concorse alla guerra di repressione del "brigantaggio" etiopico, cioè della resistenza anticoloniale e antifascista, nella quale il M. fu, se possibile, ancora più efficiente e duro di quanto fosse stato in Libia: dapprima comandante del settore Giuba in Somalia, partecipò alle operazioni di grande polizia coloniale nella "zona dei laghi"; condusse alcune sanguinose repressioni e fu al comando delle truppe che, nel maggio 1937, perpetrarono le stragi di Dèbra Libanòs e di Engecha. Operazioni volute dal viceré Graziani e condotte "a freddo", a distanza di mesi dall'attentato contro quest'ultimo del febbraio precedente.
Gli storici dell'espansione coloniale hanno sottolineato il carattere di rigido esecutore del M.: gli ordini per Dèbra Libanòs sarebbero venuti da Graziani. Ma probabilmente per operazioni minori, seppure di grande rilevanza (i cicli operativi del marzo-giugno 1937 nell'Ancoberino alla caccia di Abebe Aregai, del gennaio-aprile 1938 nel Goggiam, e altre ancora), un'autonomia di decisione, cui peraltro il M. teneva, era inevitabile. In ogni caso, è difficile ridimensionare le personali responsabilità del M. in un'azione di sterminio che fece non 450 vittime circa, come riportato dalla documentazione ufficiale, bensì, secondo alcuni recenti studi, fra le 1400 e le 2000 a Dèbra Libanòs e circa 400-500 a Engecha.
Non è possibile sapere se tali operazioni di "grande polizia coloniale" furono direttamente la causa, ma certo a seguito di esse il M. ottenne la promozione a generale di divisione "per avanzamento straordinario per meriti eccezionali" (2 giugno 1938). Dopo alcuni mesi di assenza, tornò in Eritrea ma vi rimase poco: forse il suo passato e il suo tratto poco si confacevano al nuovo corso coloniale voluto da Amedeo di Savoia, duca d'Aosta, che aveva sostituito Graziani. Nel gennaio 1939 il M. era già in Italia, dove comandò per più di un anno una divisione a Palermo, località all'epoca poco ambita. La sua carriera, iniziata dal basso e svolta in colonia, si sarebbe conclusa allo scadere dei limiti d'età.
Non accettato al comando della sua divisione, fu però riutilizzato dal regime. Nel maggio del 1940 passò dal comando del XII a quello del XVI corpo d'armata destinato all'Africa settentrionale, ancora con Graziani. La guerra lo vide quindi per qualche mese in prima linea, al comando di uno speciale raggruppamento libico, sino alla sua rapida fine.
Il M., infatti, morì in combattimento, il 10 dic. 1940, nel corso dell'offensiva britannica di Sīdī el-Barrānī.
Gli storici militari hanno espresso critiche circa la condotta tattica del M., vecchio coloniale, abituato a combattere una guerra diversa da quella che si stava profilando. Sembra, però, che egli fosse personalmente piuttosto critico; alla vigilia dell'attacco che gli costò la vita avrebbe detto: "Il nemico certamente ci attaccherà e noi non siamo pronti in fatto di organizzazione [(]. Noi non potremo, nelle condizioni attuali, resistere più di sette o otto ore" (Montanari, p. 206).
Nelle vicenda del M. si può leggere la parabola esistenziale di un rappresentante di quella piccola e piccolissima borghesia che aveva guardato con favore al fascismo; di un rigido militare che si era "fatto da sé" e in teatro di guerra, non attraverso gli studi e il servizio presso lo stato maggiore; di un esercito coloniale non alieno da pesanti brutalità; di un regime le cui aspirazioni erano di troppo superiori ai mezzi di cui effettivamente disponeva.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. dell'Ufficio stor. dello stato maggiore dell'Esercito, Biografie, ad vocem; La Tribuna, 1( genn. 1942; E. Canevari, La guerra italiana. Retroscena della disfatta, Roma 1950, I, pp. 315, 332; A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, II, La conquista dell'Impero, Roma-Bari 1979, pp. 418, 420-422, 454, 673, 677, 722, 724; III, La caduta dell'Impero, ibid. 1982, pp. 102, 104-106, 112, 317, 328 s., 475; G. Rochat, La repressione della resistenza in Cirenaica (1927-31), in Omar al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, a cura di E. Santarelli et al., Milano 1981, p. 136; M. Montanari, Le operazioni in Africa settentrionale, I, Sidi el Barrani, Roma 1985, pp. 82, 88, 101, 104, 108, 111-113, 151, 185, 196, 202, 205-207, 209-211, 214, 223; A. Del Boca, Gli Italiani in Libia, II, Dal fascismo a Gheddafi, Roma-Bari 1988, pp. 93 s., 120, 141, 177, 194, 200, 300, 304; I.L. Campbell - D. Gabre-Tsadik, La repressione fascista in Etiopia: la ricostruzione del massacro di Debrà Libanòs, in Studi piacentini, 1997, n. 21, pp. 79-128; I.L. Campbell, La repressione fascista in Etiopia: il massacro segreto di Engecha, ibid., 1998-99, nn. 24-25, pp. 23-46; N. Labanca, Oltremare. Storia dell'espansione coloniale italiana, Bologna 2002, ad ind.; Id., Una guerra per l'Impero. Memorie della campagna d'Etiopia 1935-36, Bologna 2005, p. 33.