LOREDAN, Pietro
Terzogenito di Alvise di Polo di Francesco, del ramo di S. Pantalon della Frescada, i cui membri erano soprannominati "campanoni" (duri d'orecchio), e di Elisabetta Barozzi di Pietro del ramo di S. Moisè, più tardi confluito in quello di S. Ternita, nacque a Venezia presumibilmente nel 1481 (nel novembre del 1502 estrasse la balla d'oro comprovando il compimento dei ventun anni).
Il L. - da non confondere con gli omonimi figli di Alvise di Polo di Pietro, di Lorenzo, di Marco e di Alessandro - ebbe una carriera intensa ma non prestigiosa, che accompagnò alla cura degli interessi mercantili secondo la tradizione familiare. Presente nel 1509 e nel 1510 alla difesa di Padova e di Treviso, esordì nella vita pubblica nel 1510 come sopracomito. Nell'aprile del 1511 fu eletto tra i senatori ordinari, si candidò a capitano sul Po, entrando successivamente, secondo il Sanuto, nella Quarantia criminale e nel 1512, in piena emergenza bellica, si propose per l'incarico di provveditore in diverse località della Terraferma. Intervenne in Senato - scrive Sanuto - chiedendo la riduzione della somma che gli ebrei dovevano versare per la loro "condotta" e si pronunciò in favore di una lega con la Francia, disposto anche a cedere Cremona e la Ghiara d'Adda in cambio di altri territori. Nel 1513 partì nuovamente alla difesa di Padova e Treviso e, disponibile a ruoli di natura militare, si offrì per ricoprire gli incarichi di provveditore degli Stradioti, pagador in campo e di provveditore in Are (oggi Adria). Rifiutata nel 1516 la nomina a console ad Alessandria, intensificò, invece, l'attività imprenditoriale: armò nel 1517, insieme con i fratelli - quattro, secondo alcune fonti, sei secondo il Barbaro -, una nave per il trasporto dei pellegrini in Terrasanta e allestì l'anno seguente una galea da mercato sulla rotta di Alessandria. Gli affari non lo distolsero, tuttavia, dal servizio pubblico, come attestano le varie candidature e la nomina nel Collegio dei venti savi sopra gli estimi (1524), mentre la fortuna finanziaria gli consentì di entrare nel comitato dei garanti del banco Priuli. Nel 1526, dopo essere stato nella zonta del Consiglio dei dieci, fu eletto massaro alla Zecca dell'argento. Nel corso dell'incarico, accusato di avere sottratto denaro dei depositanti della Zecca, fu incarcerato fino alla restituzione della somma. L'evento non pregiudicò la sua carriera e già nel 1528 il L. fu eletto provveditore sopra Uffici. Continuò con le nomine a senatore ordinario (1533 e 1534) e della zonta del Senato (1535, 1536, 1538) e nel 1534 dei Dieci soprintendenti sopra la revisione dei privilegi. Senatore ordinario e savio alla Mercanzia (1542), della zonta del Senato nel 1543, pose, in quell'anno, la prima candidatura al Consiglio dei dieci, rinnovandola nel 1544, quando fu eletto "sopra atti" e senatore. Nel 1545 fece parte dei nove elettori del doge Francesco Donà; tra il 1546 e il 1549 si candidò più volte al Consiglio dei dieci, nel quale, dopo un'altra permanenza nella zonta del Senato (1549), entrò all'inizio del 1550, divenendone capo. Vi ritornò come aggiunto alla fine dell'anno, per passare consigliere ducale per il sestiere di Dorsoduro.
Negli anni Cinquanta il L., consolidato il prestigio personale, sedette assiduamente nella zonta del Senato (1551, 1552, 1554, 1556, 1557), nel Consiglio dei dieci - della zonta (1551, 1553, 1554, 1557) ed effettivo nel 1557 -, oltre che nella Signoria come consigliere ducale (1555, 1556, 1559). Nel 1559 fu inserito tra i quarantuno elettori del doge Girolamo Priuli.
Tra il 1560 e il 1562 continuò a ricoprire cariche di tutto rilievo. Ripresentata, senza successo, la candidatura per la Procuratoria di S. Marco (de citra nel 1563 e de ultra nel 1565), il 29 nov. 1567 fu inaspettatamente eletto doge. Fu una soluzione di ripiego per risolvere il lungo braccio di ferro tra i candidati più quotati, che per 14 giorni e 76 scrutini erano stati in equilibrio, finché il favorito Alvise Mocenigo - che succederà al L. - non potendo prevalere, fece convergere sul L. i suoi voti. "Homo di 85 anni", scriveva di lui il nunzio Antonio Facchinetti, "ma assai prosperoso, il quale nella Republica non è mai stato savio grande". Considerato una figura di scarso rilievo politico, il suo dogato fu ritenuto il più idoneo perché transitorio e politicamente innocuo.
Religioso e moralmente integro, non incolto, benché non fosse uomo di lettere, di saggezza non comune, il L., riluttante agli esordi, nei due anni e mezzo di dogato mostrò riconosciute doti di equilibrio e di prudenza. Sebbene si sapesse che era "di buona volontà ma poco intendente di cose di governo pubblico" (Sivos), qualche cronista rilevò che se fossero stati ascoltati i suoi consigli nei frangenti drammatici di quegli anni, lo Stato ne avrebbe tratto beneficio.
Dopo la sua elezione crebbero sempre più le minacce turche contro Cipro, tanto da sopire momentaneamente le controversie di carattere giurisdizionale tra Venezia e la S. Sede, in particolare quella relativa alla pubblicazione nello Stato veneto della bolla In coena Domini di papa Pio V. Il L., pur manifestando in privato comprensione per molte posizioni della S. Sede, nell'esercizio delle sue funzioni non si pose mai in contrasto con la linea assunta dal gruppo dirigente della Repubblica. Si occupò, invece, attivamente della diversione del Po presso Porto Viro, annosa questione risolta solo allo scadere del secolo. Forte impegno mostrò, inoltre, per fronteggiare la carestia che colpì Venezia nell'ultimo scorcio del suo principato, funestato anche da un incendio, ritenuto doloso, che devastò l'Arsenale. Nella primavera del 1570 gli Ottomani avevano intensificato i preparativi di guerra contro Cipro, che Venezia si preparò a difendere.
Il clima di tensione venutosi a creare debilitò il fisico del L. che, colpito da malore al solenne vespro della vigilia di S. Marco, ammalatosi di "catarro et febre", morì dopo nove giorni, il 3 maggio 1570.
La notizia fu tenuta nascosta per qualche giorno - "perché i negotii de stato non patiscano", scriveva il nunzio - e il Senato, in via eccezionale, si riunì, assente il doge, per affrontare le emergenze e, con inconsueta procedura, affrettare la nomina del successore, che fu eletto il 9 maggio. Celebrate il giorno 7 le esequie di Stato a S. Marco, anziché ai Ss. Giovanni e Paolo, a causa del maltempo, il corpo del L., tra i beffardi insulti di una folla di popolani che lo riteneva responsabile delle recenti disgrazie, fu portato nel chiostro di S. Giobbe e inumato nell'arca di famiglia. Le fattezze del L. sono state ritratte in palazzo ducale da Domenico Tintoretto per il quadro votivo posto nella sala del Senato, e da Jacopo Tintoretto per uno dei tondi della sala dello Scrutinio.
Dal matrimonio, celebrato nel 1517, con Lucrezia di Lorenzo Cappello, del ramo di S. Maria Mater Domini - lo stesso della celebre Bianca - era nato un solo figlio maschio, Alvise (1521-93), che, sposata Elena di Giovanni Emo, continuò la discendenza con numerosa prole. La non disprezzabile fortuna, immobiliare e fondiaria, in Venezia e nei territori di Padova e Treviso, fu suddivisa per testamento tra i numerosi discendenti che continuarono a usare come abitazione in nuclei separati la dimora avita di rio della Frescada.
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