LOREDAN, Pietro
Nacque a Venezia nel 1372, nella parrocchia di S. Canciano, dal futuro procuratore Alvise e da una Giovanna che dal testamento del 1404 appare assai ricca. Il L. si sposò presto, probabilmente nel 1395, con Campagnola Lando di Vitale di Pietro, che gli sopravvisse, come appare dal suo testamento; sicché è da ritenersi infondata la notizia, riportata da Barbaro - Tasca e seguita da molte altre fonti, di un secondo matrimonio del L., avvenuto nel 1422 con una Foscolo.
Questo ramo dei Loredan costituì una vera e propria dinastia di ammiragli: il L. infatti sarebbe divenuto capitano generale da Mar, così come lo erano stati il padre e il nonno e lo sarebbero diventati suo figlio e suo nipote. Nella primavera del 1403 il L. ebbe il comando di una delle tre galere che accompagnarono a Costantinopoli l'imperatore Manuele II Paleologo; al ritorno la piccola squadra si unì alla flotta veneziana capitanata da Carlo Zeno, con cui il L. prese parte al vittorioso scontro sostenuto contro i Genovesi del maresciallo francese Jean Le Meingre di Boucicaut al largo di Modone, il 7 ottobre.
Il L. prestò ancora servizio in mare per tutto il 1404; verosimilmente continuò a operare nella flotta sino al 1411, allorché ne risulta al comando: è lui infatti il "general capitanio" che al Fanaro di Costantinopoli il 3 sett. 1411 compare come testimone nella pace stipulata con il sultano Mussa, dal bailo Giacomo Trevisan. Subito dopo fu inviato a Zara, poiché l'elezione a imperatore di Sigismondo di Lussemburgo re d'Ungheria aveva riaperto la contesa sulla Dalmazia; nell'autunno 1411, infatti, Sigismondo aveva inviato Filippo Scolari (Pippo Spano) al di là del Tagliamento con 12.000 ungheresi. Le operazioni militari si protrassero per più di un anno e il L., reduce quale capitano in Golfo dalla capitolazione di Sebenico (21 luglio 1412), si affrettò a raggiungere i reparti veneziani tra Oderzo e Motta, dove il 24 agosto riuscì a mutare le sorti del conflitto guidando un assalto risolutivo.
Nella circostanza il L. vinse anche una sfida personale con l'emergente Francesco Foscari, il futuro doge fautore di una politica di espansione nella Terraferma, che sempre trovò nel L., campione della tradizionale vocazione marittima veneziana, un irriducibile avversario; nel 1412 il L. riuscì a imporre contro gli Ungheresi una strategia diversa da quella suggerita dal Foscari.
Consigliere ducale dall'ottobre 1412, non portò a termine il mandato perché eletto podestà a Treviso, dove rimase per tutto l'anno seguente, occupandosi delle fortificazioni della città, che allora costituiva il perno del sistema difensivo veneto a Oriente.
Rimpatriato, il 26 giugno 1414 il L. fu eletto, con Lorenzo Cappello e Vitale Miani, provveditore in Dalmazia, dove si trattenne per tutta l'estate, impegnato a reprimere le risorgenti velleità filoungheresi della nobiltà locale e a predisporre il progetto di una nuova fortezza a Zara.
Nominato comandante della "muda" di Fiandra il 5 apr. 1415, al ritorno divenne avogador di Comun, ma ben presto dovette lasciare nuovamente Venezia per assumere il comando delle operazioni contro i Turchi in Levante.
Le commissioni, accompagnate dal titolo di capitano generale del Golfo, gli furono consegnate il 2 apr. 1416 e non prevedevano iniziative di natura offensiva, ma solo di esercitare una pressione militare bastante a tenere liberi gli Stretti. E fu lì, appunto, che il L. si diresse. Il contatto con la squadra nemica avvenne a Gallipoli il 29 maggio; sembra che ad aprire le ostilità fossero i Turchi, sebbene manifestamente inferiori: la loro esperienza marittima, infatti, era appena agli inizi e gli equipaggi delle navi erano formati quasi esclusivamente da cristiani al soldo del sultano. Per loro fu una disfatta; il comandante Kassim Beg rimase ucciso, furono catturate sei galere e otto galeotte e oltre mille prigionieri caddero in mano dei Veneziani. Il L., rimasto ferito al viso, annunciò al doge il trionfo con una lettera famosa, forse motivata non solo da un giusto sentimento di orgoglio, ma anche dal timore di aver oltrepassato gli ordini: a Venezia infatti si sapeva bene che i Turchi non avrebbero accettato una sconfitta tanto umiliante, e infatti si giunse alla pace solo tre anni dopo, il 6 nov. 1419, al termine di defatiganti trattative e dopo ulteriori reciproche violenze.
Al suo arrivo a Venezia (8 nov. 1416), comunque, il L. fu accolto con manifestazioni di giubilo; nella primavera dell'anno seguente fu inviato a Milano, per dolersi con Filippo Maria Visconti dell'occupazione di Lodi, Como e altri luoghi della cui autonomia il Senato si era fatto garante. Poi tornò ancora una volta in Dalmazia, come rettore di Zara, dove rimase sino a tutto il 1418 a completare la difficile opera di consolidamento dell'autorità veneziana.
Al termine del mandato il L. fu avogador di Comun, quindi (settembre 1419) fu eletto dei cinque savi alla Guerra, essendo allora Venezia impegnata nella fase risolutiva della conquista del Friuli e di tutta la Dalmazia, troppo debolmente difese da Sigismondo, occupato nella repressione degli hussiti. Decisa a impadronirsi di tutta la sponda orientale dell'Adriatico, Venezia procedette con pugno di ferro, affidando al L. il compito di sottomettere le città della costa. Nominato capitano in Golfo l'8 febbr. 1420, il 12 maggio salpò da Venezia e a fine giugno ottenne la resa di Traù e Spalato; quindi, tra settembre e ottobre, delle isole di Curzola, Brazza e Lesina. Il 16 febbr. 1421 il Senato gli ordinò di disarmare parte della flotta e di recarsi con l'altra parte nelle acque della Siria, a contrastare il genovese Giovanni Ambrogio Spinola che danneggiava il commercio veneziano.
Tornato a Venezia, nell'estate 1421 dovette recarsi a Udine in qualità di luogotenente della Patria del Friuli, il secondo a esercitare tale carica; l'alternanza degli incarichi marittimi e terrestri era del tutto normale per i nobili veneziani, ma stavolta nello scegliere il L. è probabile che abbia pesato il fatto che era stato suo nipote Francesco, l'anno prima, a conquistare la regione.
Secondo il Priuli (c. 158r), nel 1422 il L. fu capitano della muda di Fiandra e poi consigliere ducale; quel che è certo è che il 3 novembre si trovava a Venezia per presentare il figlio Francesco all'estrazione della balla d'oro. Qualche mese dopo, il 4 apr. 1423, morì il vecchio doge Tommaso Mocenigo e si aprì la contesa per la successione: una scelta difficile, che comportava rilevanti innovazioni costituzionali e, soprattutto, l'opzione tra l'espansione in Terraferma o la conferma della tradizionale vocazione marittima.
Il L. si aspettava di riuscire: non era soltanto un militare vittorioso e molto popolare fra i soldati, ma anche un notevole oratore, possedeva una buona cultura, sapeva scrivere (lasciò dei Commentari, perduti, elogiati dallo storico Biondo Flavio, che del L. fu cancelliere a Brescia). Ma fu il suo avversario Francesco Foscari, che riuscì a giocare con grande perizia i voti di cui disponeva, a diventare doge. Lo scacco patito dal L. offrì il destro a molteplici illazioni sull'odio tra le due famiglie, postulando una faida che avrebbe coinvolto anche la generazione successiva. Al di là di talune forzature storiografiche, è tuttavia innegabile che tra i due esistessero contrasti, rafforzati anche da recenti parentele: nel 1419 una figlia del L., Maria, aveva sposato l'umanista Francesco Barbaro; nel 1423 un'altra figlia, Marina, aveva sposato Ermolao Donà, entrambi decisi avversari del Foscari. Inoltre la proposta, avanzata da quest'ultimo, di un matrimonio risolutore tra una sua figlia, Maria, e un figlio del L. fu respinta.
Non le sale del palazzo, dunque, ma la dura vita del mare avrebbe continuato ad avere protagonista il L., che il 12 genn. 1424 fu nuovamente eletto capitano generale del Golfo col compito di alleggerire la pressione turca su Salonicco, città da poco passata sotto il dominio veneziano; le istruzioni ordinavano prudenza: la squadra del L. avrebbe dovuto compiere delle incursioni negli Stretti, facendo intendere che si trattava di semplici ritorsioni. E così avvenne: il L. partì da Venezia a maggio dirigendosi a Candia, ma da luglio a settembre incrociò presso i Dardanelli, dove non mancarono scontri con i Turchi. Furono battaglie sanguinose, benché da parte sia veneziana sia ottomana si avesse tutto l'interesse a non enfatizzarle; tuttavia l'imperatore bizantino volle esprimere la sua gratitudine al L. per l'aiuto indirettamente prestato, donandogli alcune preziose reliquie, come il L. ricorderà nel testamento.
Savio del Consiglio per il primo semestre del 1425, il 17 giugno il L. ottenne la nomina a procuratore di S. Marco de ultra; fu poi consigliere ducale.
In Italia, intanto, le ripetute sconfitte inflitte ai Fiorentini da Filippo Maria Visconti provocarono l'intervento dei Veneziani, innescando un trentennale braccio di ferro con il Ducato milanese. Nominato provveditore in campo insieme con Fantino Michiel, nell'estate del 1426 il L. era presso F. Bussone detto il Carmagnola nel corso delle operazioni che portarono alla conquista di Brescia (9-10 agosto). Per tutto l'anno seguente il L. si fermò, in quanto provveditore-rettore, a Brescia dove, nell'estate del 1427, riuscì a sventare un assalto delle truppe viscontee e a indurre il Carmagnola a una tattica meno prudente, culminata nella vittoria di Maclodio (11 ottobre).
Seguirono alcuni anni di relativa pace, durante i quali le fonti ignorano il nome del L., che ricompare solo nel 1431, quando il contrasto tra Veneziani e Milanesi sfociò nuovamente in aperto conflitto. Il 28 maggio il L. fu nominato capitano generale da Mar, col compito di portarsi nel Tirreno, congiungersi con gli alleati fiorentini e prendere Genova, che si era data al Visconti. Lo scontro avvenne nei pressi di Rapallo il 27 ag. 1431 e si concluse con la sconfitta dei Liguri, comandati da Francesco Spinola; fallì invece il successivo tentativo di rovesciare il governo genovese, favorendo l'azione di Barnaba Adorno che scendeva con i suoi armati dalla Val Polcevera. Dopo aver svernato fra i porti pugliesi e Corfù il L. tornò con la flotta nel Tirreno; qui, nel luglio 1432, espugnò il castello di Sestri, riportando una ferita al naso; tuttavia la campagna si concluse senza eventi decisivi, sicché il 22 ottobre la squadra del L. giunse a Venezia per disarmare.
Negli anni che seguirono, il L. fu alternativamente savio del Consiglio e consigliere ducale per il sestiere di S. Marco. Ripresa nel 1437 la guerra con Milano, il 9 aprile il L. fu eletto provveditore in campo presso il comandante delle truppe venete, Gianfrancesco Gonzaga, marchese di Mantova; ben presto però le cattive condizioni di salute lo costrinsero a chiedere il rimpatrio e l'11 ag. 1437 fu eletto in suo luogo Paolo Tron. L'andamento delle operazioni militari si rivelò sin dall'inizio sfavorevole alla Repubblica, che si trovava di fronte un condottiero della statura di Niccolò Piccinino: v'era dunque bisogno di un uomo come il L., che con la sua popolarità fra i soldati avrebbe potuto risollevare il morale delle truppe. Pertanto, appena rimessosi in salute, fu nuovamente inviato presso il Gonzaga nel novembre 1437, accompagnato dal figlio Giacomo, parimenti avviato a una prestigiosa carriera militare. La missione non ebbe altro risultato se non quello di prendere atto della rinuncia del marchese di Mantova a militare ancora al servizio della Repubblica; un avvenimento, questo, che avrebbe volto a favore del Visconti le sorti della guerra e che, nell'immediato, comportò il lungo assedio di Brescia.
Il 21 apr. 1438 il L. fu cooptato nella zonta del Consiglio dei dieci per giudicare taluni ribelli padovani, e il 21 giugno fu eletto ambasciatore presso il marchese di Mantova in un estremo tentativo di impedirne il passaggio tra le file nemiche, ma rifiutò ("excusavit se defectu persone", così la deliberazione senatoria di quel giorno); il 13 luglio, però, con l'aggravarsi della situazione, accettò la nomina a comandante dell'armata navale sul Po. Partì cinque giorni dopo, quando ebbe sedato con la sua sola comparsa nella piazza di S. Marco un pericoloso tumulto delle truppe in procinto di imbarcarsi. Fu una campagna breve e sfortunata: in quelle condizioni ambientali, per lui insolite, la capacità di manovra del L. risultò meno efficace e fu condizionata dal parallelo andamento delle operazioni terrestri, sulle quali egli non poteva influire; inoltre la salute peggiorava rapidamente. Il 23 agosto dettò il testamento, il 14 ottobre chiese di lasciare Sermide per portare la flotta in un luogo più sicuro, una settimana dopo ottenne di rimpatriare, mentre il Senato chiamava Stefano Contarini a succedergli. Giunse a Venezia il 26 ottobre "molto agravato da mal, de la qual infirmità lui morì et fu sepelito a Santa Lena, et non volse che li fosse fatto alchun honor" (Dolfin, c. 273r).
Morì a Venezia, all'età di 66 anni, il 28 ott. 1438 (ma il Sanuto, p. 199, ne registra la scomparsa l'11 novembre) e fu sepolto nel monastero di S. Elena, demolito in età napoleonica, nella stessa arca che avrebbe accolto il figlio Giacomo, con un'iscrizione che addebitava la causa della morte al veleno di non meglio precisati nemici ("per insidias hostium veneno sublatus"), che la fantasia popolare ha voluto individuare nel doge Foscari.
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