PIETRO LEOPOLDO d'Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, poi imperatore del Sacro Romano Impero come Leopoldo II
PIETRO LEOPOLDO d’Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, poi imperatore del Sacro Romano Impero come Leopoldo II. – Nacque a Schönbrunn (Vienna) il 3 maggio 1747, terzogenito maschio dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e di Francesco Stefano di Lorena, imperatore dal 1745 alla morte (1765), granduca di Toscana dal 1737. Dopo la scomparsa del fratello maggiore Carlo (18 gennaio 1761) fu promesso all’infanta di Spagna Maria Luisa di Borbone, figlia di Carlo III, che sposò a Innsbruck il 5 agosto 1765. L’unione contribuiva al riavvicinamento tra le Case d’Asburgo e di Borbone, che avrebbe visto anche le nozze tra le sorelle Maria Carolina con Ferdinando IV di Napoli, Maria Antonietta con il futuro Luigi XVI di Francia, e Maria Amalia con Ferdinando di Borbone-Parma. Il quartogenito di Maria Teresa, Ferdinando, si unirà poi nel 1771 con Maria Beatrice d’Este, divenendo governatore della Lombardia austriaca.
Come tutti i figli della casata, ebbe un’educazione accurata, affidata in primis a Franz von Thurn-Valsassina, alto ufficiale carinziano che, con il fratello Anton fu tra i pochi intimi del giovane: la sua scomparsa agli inizi del 1766 lasciò un vuoto profondo in Pietro Leopoldo, suggerito dalle missive ai due fratelli.
Responsabile della sua formazione dal 1761, Thurn ne delineò meriti e difetti in una relazione a Maria Teresa (15 maggio 1763), dove i tratti del carattere dell’adolescente erano individuati: orgoglioso e chiuso, incline alla malinconia e all’isolamento, poco curante delle ‘maniere’ e dell’etichetta care alla madre, padroneggiava latino e francese, ma appariva soprattutto dotato per le scienze, la geografia e la matematica. Prediletta tra le scienze della natura, la chimica costituirà per Pietro Leopoldo per tutta la vita una passione legata ai saperi ‘utili’, cui guardare come traduzione pratica dell’incivilimento.
Severa dovette essere anche l’educazione religiosa dell’arciduca, improntata al Reformkatholizismus di area asburgica e al giansenismo. Presenza viva in tale ambito fu Ludovico Antonio Muratori con la Regolata devozion de’ Cristiani del 1742, il Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723), riediti per ordine di Pietro Leopoldo nel 1789-90, e il trattatello Della pubblica felicità oggetto de’ buoni Principi (1749). Se la critica del devozionalismo e della superstizione, e l’appello per una più intensa cura d’anime scevra da interferenze romane, costituirono una delle basi della futura politica ecclesiastica di Pietro Leopoldo, il tema della felicità pubblica gli fu sempre presente nell’enunciazione dei doveri dei sovrani e nella proposta di un governo finalizzato al bene comune e alla oculata valorizzazione del merito. Saldo in un austero cristianesimo evangelico, partecipò del rigorismo filogiansenista presente in famiglia e nel cattolicesimo austriaco.
Alla severità del comportamento e all’introspezione contribuì la figura del trentino Karl Anton von Martini, suo insegnante dal 1761, massimo interprete austriaco del diritto naturale e professore all’Università di Vienna. Conoscitore dei teorici del diritto pubblico, da Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, e del precoce oppositore della tortura giudiziaria Christianus Thomasius, Martini si aprì all’Esprit des loix di Montesquieu, e nelle opere maggiori – una delle quali appositamente redatta per l’arciduca (1761) – sviluppò una visione contrattualistica del governo da cui era esclusa l’origine divina del potere.
Complessi e contrastati furono i rapporti familiari. Pietro Leopoldo dovette lottare per emanciparsi dalla tutela della madre. Il rigido controllo materno ricorse anche a spie che scatenavano la reazione del giovane, già «poco disposto all’allegria» e «costretto a dissimulare» nel formalismo di Corte. L’affetto per il figlio non venne, però, mai meno. Le Instructions à mon fils di Maria Teresa lo accompagnarono a Firenze (dove giunse con la moglie, come granduca di Toscana) e dispensavano consigli morali e politici tesi a raccomandare l’osservanza scrupolosa della religione senza concessioni alle interferenze dell’ecclesiastico, mentre si stagliavano nel testo la diffidenza verso la corruttela degli italiani e il timore per i «cattivi libri», che il giovane avrebbe potuto incontrare in una Toscana dalle tenaci presenze inglesi e libertine.
I consigli di Francesco Stefano al figlio risultano più sfumati. Dal padre, Pietro Leopoldo ereditò la passione per le scienze e una visione provvidenzialistica del mondo destinata a riemergere nei momenti più critici della sua esperienza di governo. Nel gennaio 1765, in vista del matrimonio e del trasferimento in Toscana, Francesco Stefano redasse per lui puntuali istruzioni. Vi consigliava «douceur» e «politesse» quali metodi di governo e soprattutto la misura nelle cose e nei piaceri, frutto di un blando stoicismo cristiano. Ma l’insistenza di entrambi i genitori andava all’armonia familiare e al rispetto assoluto per il primogenito, entro una stringente prospettiva dinastica. Non sempre gli eredi Asburgo-Lorena si sarebbero attenuti a tali precetti. Più aperto verso il fratello nelle relazioni reciproche – come mostrano i loro carteggi –, Giuseppe II non esiterà a imporre l’annullamento della secondogenitura toscana istituita dal padre nel 1763, che garantiva l’autonomia del Granducato per i successori di Pietro Leopoldo. Ragioni politiche, strategiche e familiari – Maria Luisa diede al marito sedici figli, mentre un figlio naturale, Luigi, venne da Livia Raimondi – ratificarono la resa siglata a Vienna nel luglio 1784: salvo la distruzione di quell’inviso documento come primo atto da imperatore nel 1790.
Giunto a Firenze il 13 settembre 1765, Pietro Leopoldo iniziò il venticinquennio di regno. Sovrano di un piccolo Stato, la cui popolazione non superava il milione di abitanti, dotato però di importanza strategica per la prossimità a Roma, alle rotte del Mediterraneo e alle vie di transito per il Nord, nutrì sempre un forte senso dinastico considerandosi tanto arciduca asburgico quanto granduca di Toscana, e svolse spesso opera di informazione in funzione della politica imperiale.
Ai suoi doveri verso la casata lo richiamò anche la decisione di Giuseppe II – vedovo nel 1767 – di non risposarsi, che gli impose l’obbligo di assicurare tramite la prole la successione al trono imperiale. Sull’educazione dei figli impegnò un lungo duello con la madre e il fratello, sfociato nella consegna del primogenito maschio, il futuro Francesco II, allo zio, che lo educò ai compiti di governo della monarchia (Relazione sulla Monarchia, 1784). Spazi più ampi ebbe in politica interna. La storiografia ha da tempo sollevato riserve sull’idea tradizionale di un piano organico e coerente di riforme gradualmente attuato da un giovane e quasi demiurgico granduca. Contrasti e arretramenti interessarono buona parte di un edificio politico comunque imponente, che consegnò all’Ottocento una società fondata sulla proprietà terriera, la mezzadria e il libero mercato agricolo, su leggi, miti e valori condivisi, sul non reversibile distacco dalla Curia romana. Ma il cammino delle riforme fu il frutto di lotte interne e di dibattiti intensi, specchio di interessi opposti discussi entro ristrette cerchie di governo: è il caso, dal 1769, della tentata formazione di una piccola proprietà contadina mediante l’alienazione o la concessione a livello perpetuo di beni della Corona e degli enti assistenziali, come pure della riorganizzazione delle istituzioni ecclesiastiche; ed è quanto avvenne nella disputa tra fautori (Angelo Tavanti) e avversari (Francesco Maria Gianni) dell’imposta unica sui terreni di matrice fisiocratica negli anni Settanta, ovvero nel dibattito che precedette la liberalizzazione doganale del 1781. Tutto ciò colloca il venticinquennio di regno ai livelli più alti del riformismo europeo, entro un contesto largamente toccato dai fermenti illuministi. L’abnegazione del sovrano fu spesso riconosciuta – «infaticabile» lo definì, diciannovenne, Franz Xaver Wolf von Rosenberg-Orsini, il diplomatico carinziano che Maria Teresa gli pose accanto nei primi cinque anni di regno e al quale rimase legato anche in seguito.
Dall’avvio del suo governo sovrintese personalmente il Consiglio di Stato affiancato da un manipolo di funzionari – Pompeo Neri, Giulio Rucellai, Giovan Battista Clemente Nelli, Tavanti, Gianni, Stefano Bertolini –, che riflettono il mutamento generazionale e di cultura ai vertici dell’amministrazione. La carestia del 1764-67 che colpì l’area mediterranea fu affrontata con misure di progressiva liberalizzazione, che giunsero il 15 settembre 1766 a promulgare la libertà di panizzazione e di circolazione interna dei cereali. In seguito, la legge del 18 settembre 1767 consentì la libera esportazione dei grani entro un livello massimo dei prezzi e aprì alla Toscana il mercato internazionale. I molteplici aspetti della ‘lotta politica’ attorno a queste misure sono noti grazie agli studi di Mario Mirri (1972), e registrano l’attenzione del governo per gli analoghi provvedimenti francesi, che dal 1764 avevano introdotto misure di liberalizzazione del mercato, e l’interesse per l’esperienza di governo di Robert-Jacques Turgot, lungo un percorso che condurrà in Toscana al più completo liberoscambismo frumentario (1775). Nel 1766 venne intanto promossa la ‘grande inchiesta’ sull’economia, condotta tramite parroci e cancellieri comunali, i cui esiti indirizzarono gli interventi successivi di politica economica.
A partire dalla prima fase delle riforme (1765-71) lo scorporo della Maremma senese, ora direttamente amministrata dal centro, e la soppressione degli apparati annonari contribuì a cambiare il ruolo della dominante, facendo di Firenze la capitale politico-amministrativa di uno Stato unitario (1782). Negli anni Settanta, la riforma dei tribunali centrali e periferici impose la professionalizzazione dei giudici, tenuti alla laurea e all’esercizio delle funzioni sotto controllo regio. Spariva, così, il privilegio dei cittadini fiorentini nelle magistrature, sostituite da podesterie e vicariati criminali dotati di giurisdizione uniforme, parte di un impegno di modernizzazione che tendeva ad assicurare i diritti soggettivi dei sudditi. Sul piano finanziario il debito pubblico ereditato dall’età medicea (88 milioni di lire) rappresentò un’altra sfida per Pietro Leopoldo, aggravata dalla richiesta del fratello, quale erede universale del padre, di una forte somma (1.200.000 fiorini), risolta con una transazione nel 1766 (Zobi, 1850, Appendice, pp. 34-37). Con notevole precocità rispetto ad altre realtà italiane, nel 1770 fu avviata la soppressione delle arti di origine medioevale, sostituite da una Camera di commercio. Razionalizzazione del carico fiscale e controllo tributario portarono, inoltre, alla soppressione dell’Appalto delle imposte (26 agosto 1768), mentre a partire dal 1774 i carichi sulla proprietà fondiaria vennero unificati nella nuova tassa di redenzione, volta a estinguere gradualmente il debito, che risultò pressoché esaurito alla partenza del sovrano nel 1790.
«Il manifesto di quella straordinaria stagione riformatrice» (Mascilli Migliorini, 1997, p. 265) poggiò su di una complessa elaborazione ideologica, che accolse prospettive agitate già durante la reggenza lorenese (1737-65) e nei nuovi dibattiti politico-economici europei. Vi contribuì, tra i primi, il Della decima di Giovanni Francesco Pagnini, apparso nel 1765-66 con dedica a Pietro Leopoldo, che reinterpreta la struttura produttiva del Granducato evidenziandone la vocazione agricola – e non più manifatturiera – e il possibile sviluppo tramite la liberalizzazione dei mercati. Per volontà del granduca nel 1775 vide la luce il Discorso sopra la Maremma di Siena di Sallustio Antonio Bandini, considerato il capostipite del liberismo economico toscano. Molteplici furono gli echi della fisiocrazia, ben attestata in Toscana tra anni Sessanta e Settanta. Dopo una fase di rallentamento, il disegno di privatizzazione dei beni pubblici fu rilanciato per impulso di Francesco Maria Gianni negli anni Ottanta. Ma l’auspicata estensione di una piccola proprietà coltivatrice si scontrò con la scarsità delle risorse dei contadini, costretti a cedere le terre ai grandi proprietari, più attenti a incrementare la rendita che a investire nell’agricoltura. I rapporti di produzione perdurarono, quindi, sostanzialmente immutati.
Sotto la guida di Neri fu avviata dal 1771 la progressiva ristrutturazione dei governi provinciali, – Volterra e Arezzo nel 1774, Livorno, Firenze nel 1782. Essa concedeva larghe autonomie ai consigli comunali e ai loro organi, Gonfaloniere e Priori, sorteggiati dagli elenchi dei possidenti. Abolite le antiche magistrature – come pure il Consiglio dei duecento e il Senato dei quarantotto a Firenze –, il controllo dei nuovi enti spettò a una Camera delle comunità alle dipendenze regie. Ma la soppressione delle antiche magistrature comportò anche il ridimensionamento del potere dei patriziati, a cominciare da quello fiorentino. Ne risultò potenziata l’equiparazione dei sudditi-cittadini di fronte alla legge, che ritroviamo anche in una delle principali riforme leopoldine, quella della giustizia criminale, culminata nella legge del 30 novembre 1786, che per la prima volta in Europa aboliva tortura e pena di morte, e che recepiva l’Illuminismo penale di Cesare Beccaria.
Mitezza, personalità e proporzionalità delle pene erano temi ricorrenti dell’umanizzazione del diritto a partire da Montesquieu e Thomasius. Ma a innovare i contenuti della riforma erano soprattutto l’impianto garantista ancorato alla superiorità della legge rispetto al giudice, la pubblicità del processo, l’attenuazione della contumacia e del valore probatorio della confessione, il contenimento della carcerazione preventiva, il divieto delle confische e la limitazione dei giuramenti. Se la Leopoldina non appare pienamente matura sotto il profilo tecnico della codificazione, la divaricazione dall’antico regime è netta, come mostra la scelta di un dispositivo a soggetto unico, la depenalizzazione di molti reati e la semplificazione di norme e procedure, che la avvicinano – e con lei tutta l’opera di Pietro Leopoldo – all’avvento dello ‘Stato procedurale’ continentale. I materiali preparatori evidenziano come «il merito dell’iniziativa spetti unicamente» al granduca (Da Passano, 1988, p. 12), e rispecchiano una riflessione sugli esiti migliori del riformismo giuridico coevo, dal Dei delitti e delle pene di Beccaria alla Théorie des loix criminelles di Jacques-Pierre Brissot de Warville (1780), ai volumi della sua Bibliothèque philosophique du législateur (1782-1785), presenti nella biblioteca del principe insieme ai testi di Montesquieu e John Locke, scelti come letture per i figli.
La riforma criminale sfociò in una sostanziale separazione tra le funzioni di giustizia e di polizia. Nel maggio 1777 nasceva il Supremo tribunale di giustizia, preposto alla supervisione della giurisdizione penale nel Paese e composto di giudici di nomina regia. L’abolizione dell’antica magistratura degli Otto di guardia (1777) aprì la via all’erezione del Buongoverno (1784) dotato di vasti poteri di controllo. Quattro commissari laureati disciplinarono i quartieri urbani della capitale, comprendendo nei propri compiti anche funzioni igienico-sanitarie e di assistenza. In seguito i poteri repressivi di polizia si ampliarono, con largo uso della procedura per direttissima (‘processo economico’), che comportava l’irrogazione di pene severe e senza possibilità di appello da parte dei commissari. Si trattava di misure destinate, insieme al ricorso del principe alle delazioni, ad accrescere lo scontento della popolazione. Del malcontento si fece portavoce Gianni che di fronte all’ulteriore potenziamento del Buongoverno lamentò che esso costituisse, ormai, nel 1789, «un canale di arbitrio legalizzato» (Mascilli Migliorini, 1997, p. 393). Interprete della «possibile umana felicità nell’onesto esercizio della libertà civile» (Zimmermann, 1901, p. 125), ma tutore severo della morale pubblica, Pietro Leopoldo si mostrò aggiornato sul dibattito internazionale in materia, dal Traité de la police di Nicolas de La Mare ai regolamenti parigini di polizia, ai noti contatti con Joseph von Sonnenfels, oppositore della tortura e lucido esponente dell’Aufklärung austriaca.
Sin dai primi anni di regno la riorganizzazione fiscale comportò una duplice sfida con nobiltà e clero. Pietro Leopoldo non amò la nobiltà toscana, preferendo circondarsi di capaci funzionari ‘borghesi’. Le riforme comunali e giudiziarie favorirono la razionalizzazione degli uffici, dove i ranghi ridotti degli impiegati furono sottoposti a un rigoroso controllo disciplinare. Formati da esperti, i dipartimenti accolsero meno patrizi e nobili di un tempo e videro la costituzione di un funzionariato relativamente moderno, capace di progressione di carriera in base al merito e alle competenze. La Relazione dei dipartimenti e degli impiegati del 1773, redatta dal granduca per proprio uso, fornisce una straordinaria visione dall’interno dei meccanismi dell’amministrazione e dei gruppi clientelari e politici che vi si confrontarono. Quanto al contrasto con la Chiesa, esso fu presente in tutta l’esperienza toscana di Pietro Leopoldo e coinvolse svariate componenti, dal giurisdizionalismo alle correnti del giansenismo francese e italiano, sino alla stessa disincantata e pessimistica coscienza religiosa del principe.
Dai tardi anni Settanta il granduca tese a una razionalizzazione radicale delle istituzioni ecclesiastiche, imperniata sulla pastorale evangelica e sulla riduzione del numero di regolari, secondo un ideale di Chiesa fraterna e primitiva, che finì per conseguire esiti ancor più drastici di quelli giuseppini. La legge sulla manomorta del 2 marzo 1769 rese più severi gli analoghi provvedimenti della Reggenza e vietò l’estensione della proprietà ecclesiastica. Il segretario del Regio diritto, Rucellai, accompagnò la nuova legge con una densa memoria contenente numerose richieste per la S. Sede, che il principe avrebbe discusso a Roma durante il conclave per l’elezione di Clemente XIV (marzo-aprile 1769). Vi figuravano l’abolizione della medievale bolla In coena Domini, che proclamava la superiorità del pontefice sui poteri laici, la soppressione dell’asilo ecclesiastico, l’introduzione del regio Exequatur per l’attuazione in Toscana delle disposizioni papali, il contenimento del numero dei regolari e l’introduzione dell’età minima per la professione dei novizi. Il concordato del 1775 sottopose poi a normale tassazione tutti i beni del clero. Lo smantellamento della giurisdizione ecclesiastica avrebbe visto l’abolizione di carceri e tribunali vescovili, la soppressione dell’Inquisizione nel 1782 e la riduzione della Nunziatura a semplice sede diplomatica.
«Profondamente persuaso della vanità di ogni cosa terrena» (Wandruzska, 1965; trad. it. 1968, p. 423), Pietro Leopoldo fu lettore partecipe di testi giansenisti come L’année spirituelle del cardinale Louis-Antoine de Noailles, le clandestine Nouvelles ecclésiastiques, le opere di Jacques-Bénigne Bossuet, Antoine Arnauld, Blaise Pascal, Pierre Nicole. Il rigorismo etico non contrastò con la fattiva apertura al razionalismo illuminista di un regnante che protesse l’edizione livornese dell’Encyclopédie (1770-79) e l’impegnativa traduzione dall’inglese dell’Advancement of arts, manufactures and commerce di William Bailey (I-III, Firenze 1773). Ma certo contribuì ad avvicinarlo, soprattutto dopo il soggiorno viennese del 1778-79, a prospettive radicali di riforma della Chiesa, che trovarono un interlocutore privilegiato nel vescovo giansenista di Pistoia e Prato, Scipione de’ Ricci. Lungo un percorso di «tormentosa complessità» (Rosa, 1969, p. 178) si dispose negli anni Ottanta una rifondazione della Chiesa toscana, che ne sconvolse le basi organizzative e patrimoniali e portò agli estremi le premesse agostiniane, gallicane, richeriste e febroniane condivise da Pietro Leopoldo. Le varie componenti del movimento sostennero l’anticurialismo del granduca e contrapposero al verticismo pontificio un progetto di progressivo coinvolgimento di tutte le energie pastorali, imperniato su vescovi e curati e sulla decisa avversione al clero regolare. Pietro Leopoldo fu sempre convinto del diritto-dovere del sovrano di disciplinare la Chiesa, quale ‘vescovo esteriore’ (p. 195), e guardò con favore alla funzionarizzazione del clero perseguita da Giuseppe II per potenziare la rete parrocchiale, intervenire sul sistema dei benefici e istituire i nuovi patrimoni ecclesiastici (1784). A lui si devono i 57 punti ecclesiastici per i vescovi del gennaio 1786, in vista di un concilio ‘nazionale’ toscano. Essi miravano a rimettere in vigore gli antichi diritti dei presuli rispetto alla tutela di Roma, suggerivano riforme contro il devozionalismo popolare, auspicavano la diffusione della Bibbia e concepivano una sostanziale laicizzazione del matrimonio, pur riconoscendone il carattere sacramentale.
Tra il 18 e il 28 settembre 1786 de’ Ricci tenne a Pistoia un sinodo che raccolse oltre 260 ecclesiastici e teologi giansenisti e costituì la più matura espressione del giansenismo italiano; ma le infiammate polemiche che l’accompagnarono e il mutato contesto politico-religioso nell’Impero indussero il granduca ad aggiornare la convocazione del sinodo generale dello Stato, per promuovere, invece, un’assemblea di vescovi a Firenze (aprile-giugno 1787). Vi prevalsero gli oppositori delle riforme, che sconfessarono l’operato regio, segnando la fine del ‘gran progetto’ parrochista-episcopalista di una Chiesa autonoma da Roma. Le riforme avviarono, comunque, trasformazioni profonde nella pratica della carità e nel culto: come attestano la soppressione di circa 130 conventi entro il 1790, il calo vistoso di monache e regolari, la proibizione di processioni e devozioni popolari e l’abolizione delle confraternite (264 solo a Firenze), sostituite nel 1785 da compagnie di carità all’interno dei patrimoni ecclesiastici. I beni dei conventi vennero impiegati a sostegno degli enti assistenziali, ospedali e ricoveri, essi stessi al centro di una razionalizzazione amministrativa che ne migliorò la qualità, ridusse la presenza ecclesiastica, confluì in una prima specializzazione professionale di medici, chirurghi e levatrici: come mostra il celebre Regolamento dell’Arcispedale di S. Maria Nuova (Firenze 1783, 1789), per la prima volta comprendente norme specifiche per le infermità mentali.
Interprete dell’esprit de commerce del suo secolo, Pietro Leopoldo aspirò a un definitivo superamento delle gerarchie cetuali e trasformò la Segreteria di gabinetto – luogo del lavoro del sovrano – nel maggior centro decisionale dello Stato. Sistematici furono i viaggi di esplorazione nel Granducato, come mostrano le Relazioni sul governo della Toscana, raccolte nel 1789 e in gran parte edite da A. Salvestrini. Nell’ottobre 1767 visitò Siena e la Maremma, dove tornò ripetutamente, convincendosi che solo la libertà avrebbe potuto sanare quelle plaghe. Nel 1768 fu in Val di Chiana con Tommaso Perelli, di cui adottò un vasto piano di bonifica. In vista della ‘pubblica felicità’, si sforzò di reprimere gli arbitri di giudici e funzionari, sanò dispute, volle conoscere de visu popoli e Paesi da sempre privi di contatti diretti con il principe. La sua informale disponibilità all’incontro, il dialogo con gli umili fondato sulle suppliche e le udienze – ma anche su inchieste, statistiche e relazioni –, richiamano la dedizione di Giuseppe II ai doveri del regnante e danno corpo all’immagine del ‘Re pastore’, cara a Victor Riqueti de Mirabeau, che gli dedicò le sue Économiques (1769), mentre l’impegno per una giustizia liberata da parzialità e favoritismi legittimò l’epiteto di ‘Salomon du Midi’, attribuitogli dai fisiocratici. Più di Giuseppe II, Pietro Leopoldo fu felice nella scelta dei collaboratori, ma con lui condivise la volontà di tutto conoscere per meglio governare, secondo un codice comportamentale tipico dello ‘Stato di polizia’ del tardo assolutismo.
Non meno rilevanti furono i brevi periodi fuori Stato. Nel 1768 fu a Napoli per il matrimonio della sorella Maria Carolina e vi conobbe il ministro Bernardo Tanucci. Vi fu accompagnato, come in altre occasioni, da Rosenberg, Anton Thurn e da Carl von Göess, gli ufficiali carinziani al cuore del ‘circolo tedesco’ della corte di Firenze. Nel giugno 1770 si recò con la moglie a Vienna, fermandosi in visita a Trieste, dove tornò nel 1776, quando espose al governatore della città, Karl von Zinzendorf, progetti ed esiti delle riforme, e le sue scelte a favore di un deciso liberismo economico (Europäische Aufklärung, II, 2009, pp. 67-70). Nel 1775 incontrò a Venezia l’imperatore con i fratelli Massimiliano e Ferdinando. Al ritorno rese visita a Parma a Maria Amalia, e ospitò poi Giuseppe II in Toscana. Una seconda visita di Giuseppe ebbe luogo nell’inverno 1783-84, quando furono decisi la sistemazione dei figli di Pietro Leopoldo, il trasferimento del primogenito a Vienna e il prossimo annullamento della secondogenitura toscana.
Essenziali furono anche i soggiorni viennesi del 1776, 1778-79, 1784 che trasformarono il dissenso da Giuseppe II in un contrasto insanabile. Nell’autografa Relazione sopra il suo soggiorno a Vienna (6 settembre 1778-8 marzo 1779), metteva sotto accusa tutta la politica del fratello, cui rimproverava l’inutile guerra antiprussiana per la Baviera, e tracciava un ritratto crudele dell’imperatore, ambizioso e senza scrupoli, incapace di una equilibrata azione di comando. Più sfumato il giudizio della Relazione sulla Monarchia del 1784, dove si riconoscevano i meriti del fratello nella riorganizzazione delle forze armate, se ne incoraggiava la politica espansionistica, si sostenevano le misure per la tolleranza religiosa, ma se ne criticavano poi il difficile rapporto con gli impiegati e l’estrema durezza in materia penale. Da tali esperienze il granduca trasse la convinzione dell’impraticabilità dell’autocrazia giuseppina e la ricerca di una soluzione politica alternativa, fondata sulla compartecipazione al governo dei possessori quali rappresentanti degli interessi economico-sociali, già attivi in Toscana grazie alle riforme di comunità e fisco.
Scaturì di qui il progetto di Costituzione per gli Stati di Toscana, tra il 1779 e il 1782, ripreso poi tra il 1787 e il 1790 nel corrusco contesto di avvio della Rivoluzione francese e della crisi della monarchia. Affidato a più redazioni, l’ultima delle quali è conservata a Praga, il piano costituzionale prevedeva una gerarchia di assemblee rappresentative su basi censitarie a livello municipale, provinciale e statale, ribadiva lo stretto nesso fra imposizione e consenso, conservava larghi poteri all’esecutivo e al principe – nomina a tutte le magistrature e alle alte cariche ecclesiastiche, comando militare, scelta e disciplina dell’amministrazione, diritto di grazia e proposta di leggi –, ma lasciava all’assemblea il controllo finanziario e di bilancio, la verifica della politica estera e il diritto-dovere di formulare o migliorare le leggi (Zimmermann, 1901, pp. 125-168). Erede della tradizione federiciana del sovrano ‘primo servitore dello Stato’, il progetto evidenzia una straordinaria avventura intellettuale, testimoniata da fitte note personali di lettura, che pongono Pietro Leopoldo ai limiti più avanzati del costituzionalismo settecentesco. Le varie redazioni attingono ampiamente al pensiero politico della fisiocrazia (Mirabeau, Guillaume-François Le Trosne) e ribadiscono il ruolo dei proprietari-contribuenti, già al centro della riforma delle comunità. Le annotazioni accolgono anche gli echi dell’esperienza di governo di Turgot, le proposte dell’Assemblea provinciale del Berry, le idee storico-politiche di Gabriel Bonnot de Mably, mentre meno incisiva è la traccia del costituzionalismo inglese, filtrato a partire dalle Observations sur les Constitutions de la République de Pennsylvanie. Attento agli eventi della Rivoluzione americana, grazie anche alla mediazione di Filippo Mazzei, Pietro Leopoldo conservava in biblioteca le Constitutions des treize État-Unis de l’Amérique Septentrionale (Paris 1778).
«L’inesauribile curiosità leopoldina» (Sordi, 1991, p. 392) si aprì negli anni Ottanta al confronto con Jacques Necker (De l’administration des finances de la France, I-III, Paris 1784, e il Compte rendu au Roi del 1781) nonché al dibattito costituzionale che in Francia avrebbe condotto dall’Assemblea dei notabili all’Assemblea nazionale, superando i profili privatistici ancora dominanti nel progetto del 1782. Senza investire i rappresentanti di un autentico potere costituente – come avveniva in Francia –, la formazione della «volontà nazionale» era ora affidata al «concerto tra il sovrano e il corpo legislativo» (Sordi, 1991, p. 408). La disamina del dibattito francese indusse Pietro Leopoldo a limitare ulteriormente l’autorità del monarca, a riconoscere all’assemblea generale un effettivo peso politico e a rafforzare la sfera dei diritti soggettivi: come mostrano anche le rinnovate prospettive in materia giudiziaria, che contemplavano l’istituzione delle giurie nei processi criminali e la gratuità della giustizia. La netta distinzione tra i diritti del sovrano e quelli del pubblico trova riscontro nella separazione tra entrate statali e finanze della Corona, che il granduca attuò dai primi anni Ottanta, e che confluì nel Governo della Toscana (Firenze 1790): rendiconto finale della propria opera ed esito estremo di trasparenza politico-amministrativa al tramonto degli Arcana Imperii.
La sua riflessione non abbandonò mai finalità operative in vista della ‘pubblica felicità’. Nelle Notes sur l’éducation publique del 1775 ribadì, per esempio, il valore dell’istruzione come premessa dell’azione politica. Se le Università di Pisa e Siena rimasero impermeabili alle riforme, le istituzioni dotte furono invece trasformate in enti consultivi per lo Stato, con la soppressione della Crusca e degli Apatisti e la fondazione della nuova Accademia Fiorentina nel 1784, la riorganizzazione dell’Accademia dei Georgofili, l’erezione del grande Museo di fisica e storia naturale sotto la direzione del fisiologo Felice Fontana (1775), la risistemazione della Galleria Palatina (gli Uffizi, ormai in mano pubblica) e il trasferimento delle opere d’arte dalla villa Medici di Roma. La formazione tecnica e artistica fu potenziata con la riforma della cinquecentesca Accademia del disegno. L’Archivio diplomatico (1778) aprì nuove possibilità di confronto con la storia e l’amministrazione del paese. Se l’intento di sorveglianza dei costumi portò a un rigido controllo della vita teatrale, il granduca dedicò attenzione alle biblioteche – la Magliabechiana, in particolare – in vista dell’uso pubblico del sapere.
Meno organico fu l’intervento sulle scuole, rimaste in mani ecclesiastiche anche dopo la soppressione di gesuiti (1773) e barnabiti (1783). Un’ottantina di istituti religiosi femminili vennero mutati in conservatori per dame o ragazze del popolo e posti sotto controllo statale, mentre regie scuole elementari maschili furono aperte nelle maggiori città (Zobi, 1850, p. 377). Le riforme ecclesiastiche si confermano il terreno più contrastato dell’età di Pietro Leopoldo, destinate a un rapido ritorno all’antico dal 1790. Esiti più duraturi ebbe la razionalizzazione dell’assistenza, grazie alle risorse liberate dalle soppressioni: come suggeriscono i ricoveri per infanti, la riduzione dell’altissima mortalità dell’Ospedale degli Innocenti di Firenze, l’attenzione per levatrici e partorienti o l’obbligo della sepoltura extraurbana nei cimiteri. Partecipi di un più generale dibattito europeo, tali misure incisero su tradizioni e costumi sociali e caritativi, alimentando un’ampia opposizione popolare, manifesta nei tumulti del 1774 a Firenze e del 1787 a Pistoia e a Prato, ed esplosa nelle rivolte degli anni Novanta.
La morte di Giuseppe II, il 20 febbraio 1790, impose il trasferimento di Pietro Leopoldo a Vienna quale imperatore, in un quadro sconvolto dalla partecipazione della monarchia alla guerra russo-turca del 1787-91, dalla ribellione del Belgio, dai fermenti in Boemia e Transilvania e dalla crescente opposizione all’accentramento in Ungheria. A Firenze rientrerà brevemente nella primavera del 1791, quando manifesterà il proprio scontento per la debolezza della Reggenza, istituita l’anno prima, nel fronteggiare i disordini popolari, e il dissenso dal successore, il figlio Ferdinando III. Nel luglio 1790 aveva intanto rinunciato al trono di Toscana, mentre in novembre la Dieta ungherese a Presburgo, quindi gli Stati boemi a Praga (1791) gli conferivano le rispettive corone. Il 9 ottobre 1790 ebbe luogo l’incoronazione imperiale a Francoforte, con il nome di Leopoldo II. Nei circa due anni di regno, e grazie alla totale immersione nel lavoro, salvò la monarchia dalla disgregazione. A Reichenbach (27 luglio 1790) l’accordo con Federico Guglielmo III di Prussia favorì la pacificazione dell’Ungheria mediante il ripristino degli antichi privilegi costituzionali, il ritiro della Toleranzpatent del 1781, cui si affiancavano, però, misure di tolleranza per protestanti, ortodossi ed ebrei. Il 23 settembre 1790 un armistizio riportò la pace con i turchi, formalizzata a Sistovo nell’agosto 1791: decisione che emancipò la monarchia dalla soffocante alleanza con Caterina II. Le condizioni dei Paesi Bassi austriaci vennero anch’esse pacificate con il ritorno allo status quo ante 1787. Si chiuse, così, il contenzioso con la Prussia, cui succedette una collaborazione destinata ad attraversare le guerre napoleoniche.
In politica interna abolì le misure più impopolari, ma si sforzò di mantenere l’essenziale della gestione precedente, come nel caso della tutela dei contadini o nel governo regalistico della Chiesa, che registrò la soppressione dei seminari generali. Nel corrusco quadro dei primi anni Novanta non sorprende, invece, l’inasprimento della censura. Libri francesi, ma anche «romanzi teneri tedeschi» e testi teatrali gli erano sempre apparsi perniciosi per la morale e la famiglia. Se il controllo ideologico appariva essenziale al mantenimento dell’ordine – conventicole ‘giacobine’ e processi si avranno anche a Vienna e nell’Impero –, sul terreno penale avviò un nuovo codice per sopprimere la crudeltà delle norme vigenti, mentre la prevenzione venne affidata a un sistema scolastico più ramificato e flessibile. Le perdite documentarie della seconda guerra mondiale rendono ardua l’analisi dei suoi atti di governo in questi anni. Ma Pietro Leopoldo restò fedele all’ideale settecentesco e illuminista della costruzione della felicità per tutti, che gli consentì aperture verso la Rivoluzione francese non comuni per un regnante dell’epoca. Nella primavera del 1789 dichiarò, infatti, alla sorella Maria Cristina, governatrice dei Paesi Bassi, di sperare nella rigenerazione costituzionale della Francia, che avrebbe fatto di quel regno «la patria di tutti i cittadini» e un modello per l’Europa. In una celebre lettera, destinata alla diffusione, le ribadì poi le proprie convinzioni politiche, fondate sul contrattualismo, il primato della legge e del consenso, la garanzia dei diritti soggettivi e la funzione deliberante degli «Stati generali» (Wandruzska, 1965; trad. it. 1968, pp. 572, 577 s., lettere del 4 giugno 1789, 25 gennaio 1790). Non v’è dubbio che tali espressioni corrispondessero a uno sforzo di propaganda e di differenziazione dalle scelte di Giuseppe II. Ma la disponibilità ad ascoltare le proteste dei sudditi nei territori sconvolti dalla Gleichschaltung giuseppina era reale, come mostrano la reintroduzione della congregazione dello Stato (abolita dal fratello) in Lombardia e la pronta convocazione di una deputazione consultiva provinciale (maggio 1790). Se la morte, avvenuta a Vienna il 30 marzo 1792, troncò tali progetti, l’opera di Leopoldo II rimane a testimonianza di conquiste e limiti dell’assolutismo riformatore in Europa.
Fonti e Bibl.: Materiali riguardanti l’attività di governo si conservano in Archivio di Stato di Firenze, Segreteria di Gabinetto (su cui cfr. G.Pappaianni, L’archivio segreto di Gabinetto dei Granduchi lorenesi nell’Archivio di Stato di Firenze, in Rivista storica degli Archivi toscani, II [1930], pp. 191-210); Vienna, Haus-, Hof- und Staats-archiv, Familienarchiv, Sammelbände, ff. 7, 9, 10, 15-18, 21; ff. 12 s. per i documenti del progetto costituzionale; Familienakten, ff. 7, 45 s., 55, 67. Carte relative ai viaggi nel Granducato sono conservate presso l’Archivio di Stato di Praga (Státní Ústředni Archiv), Rodinný Archiv Toskánských, Archivio di Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena (su cui cfr. A. Salvestrini, L’Archivio della Casa di Lorena presso l’Archivio di Stato di Praga, in Rassegna storica toscana, IX (1963), pp. 197-202, e O. Gori - D. Toccafondi, L’archivio di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena a Praga. Inventario, Roma 2013). Il fondo praghese (f. 53) conserva il ms. dell’ultimo testo del progetto costituzionale, del 1787. Lettere di Maria Teresa a Pietro Leopoldo sono edite in Briefe der Kaiserin Maria Theresia an Ihre Kinder und Freunde, a cura di A.R. von Arneth, I, Wien 1881, pp. 11-45. La corrispondenza con la madre e i fratelli Giuseppe II e Maria Antonietta e con Caterina di Russia è pubblicata in A.R. von Arneth, Maria Theresia und Joseph II. Ihre Correspondenz sammt Briefen Joseph’s an seinen Bruder Leopold, I-III, Wien 1867-1868; Leopold II, Franz II und Catharina. Ihre Correspondenz, a cura di A. Beer, Leipzig 1874; Marie Antoinette, Joseph II und Leopold II. Ihr Briefwechsel, a cura di A. R. von Arneth, Leipzig-Paris-Wien 1866. Le missive a Rosenberg-Orsini sono parzialmente edite in O. Gori, Governo e famiglia nelle lettere di P. L. a Rosenberg, in La passione della storia. Scritti in onore di Giuliano Procacci, a cura di F. Benvenuti et al., Roma 2007, pp. 162-181. Le conversazioni con Zinzendorf si leggono ora in Europäische Aufklärung zwischen Wien und Triest. Die Tagebücher des Gouverneurs Karl Graf Zinzendorf 1776-1782, a cura di G. Klingenstein - E. Faber - A. Trampus, I-IV, Wien-Köln-Weimar 2009, II, pp. 67-70. Sull’attività di governo v. Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di A. Salvestrini, I-III, Firenze 1969-1974; Id., Scritti inediti sull’educazione, a cura di L. Bellatalla, Lucca 1990, che pubblica le Notes sur l’éducation publique; Id., Relazione dei dipartimenti e degli impiegati (1773), a cura di O. Gori, Firenze 2011; Id., Relazione sullo stato della Monarchia (1784), a cura di D. Beales - R. Pasta, Roma 2013.
La bibliografia su Pietro Leopoldo è assai ampia e se ne offrono qui i riferimenti più significativi: M. Rastrelli, Memorie per servire alla vita di Leopoldo II Imperatore dei Romani, già Gran Duca di Toscana, Firenze 1792; F. Becattini, Vita pubblica e privata di P. L., Siena 1797. Tuttora utile A. Zobi, Storia civile della Toscana dal MDCCXXXVII al MDCCCXLVIII, II, Firenze 1850. La biografia canonica è A. Wandruzska, Leopold II. Erzherzog von Österreich Grossherzog von Toskana, König von Ungarn und Böhmen, Römischer Kaiser, I-II, Wien-München 1965 (trad. it. ridotta, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Firenze 1968). Rilevanti i riferimenti in D. Beales, Joseph II. In the Shadow of Maria Theresa, 1743-1780, Cambridge 1987, ad ind. e Joseph II. Against the World, 1780-1790, Cambridge, 2009, pp. 351 s., 356-358, 590 s. e passim. Ricostruisce i contesti politico-istituzionali L. Mascilli Migliorini, Il Granducato di Toscana. L’età delle riforme, Torino 1997, passim. Sulla corte di Pitti a Firenze, cfr. A. Contini, Concezione della sovranità e vita di corte in età leopoldina (1765-1790), in La corte di Toscana dai Medici ai Lorena, a cura di A. Bellinazzi - A. Contini, Roma 2002, pp. 129-220; Vivere a Pitti. Una reggia dai Medici ai Savoia, a cura di S. Bertelli - R. Pasta, Firenze 2003 (in partic. O. Gori, Una corte dimezzata. La reggia di P. L., pp. 291-349; R. Pasta, La biblioteca aulica e le letture dei principi lorenesi, pp. 351-387); sull’educazione dei figli è essenziale A. Contini, “La naissance n’est qu’effet du hazard”. L’educazione delle principesse e dei principi alla corte leopoldina, ibid., pp. 389-438. Su singole riforme v.: A. Morena, Le riforme e le dottrine economiche in Toscana, in La Rassegna Nazionale, VIII (1886), voll. 27-32; A. Anzilotti, Decentramento amministrativo e riforma municipale in Toscana sotto P. L., Firenze 1910; H. Büchi, Finanzen und Finanzpolitik Toskanas im Zeitalter der Aufklärung (1737-1790) im Rahmen der Wirtschaftspolitik, Berlin 1915; V. Piano Mortari, Tentativi di codificazione nel Granducato di Toscana nel secolo XVIII, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, LXXXIX (1952-1953), pp. 285-387; M. Mirri, Proprietari e contadini nelle riforme leopoldine, in Movimento operaio, VII (1955), pp. 173-229; E. Cochrane, Le riforme leopoldine in Toscana nella corrispondenza degli inviati francesi (1766-1791), in Rassegna storica del Risorgimento, XLV (1958), pp. 199-218; L. Dal Pane, I lavori preparatori per la grande inchiesta del 1766 sull’economia toscana, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, Firenze 1958, pp. 265-313; M. Mirri, Per una ricerca sui rapporti fra “economisti” e riformatori toscani. L’abate Niccoli a Parigi, in Annali dell’Istituto G.G. Feltrinelli, II (1959), pp. 55-120; L. Tocchini, Usi civici e beni comunali nelle riforme leopoldine, in Studi storici, II (1961), pp. 223-266; L. Dal Pane, La finanza toscana dagli inizi del sec. XVIII alla caduta del Granducato, Milano 1965; G. Giorgetti, Per una storia delle allivellazioni leopoldine (1966), in Id., Capitalismo e agricoltura in Italia, Roma 1977, pp. 96-216; F. Diaz, Francesco Maria Gianni dalla burocrazia alla politica sotto P. L. di Toscana, Milano-Napoli 1966; M. Mirri, La lotta politica in Toscana intorno alle ‘riforme annonarie’ (1764-1775), Pisa 1972; V. Becagli, Il “Salomon du Midi” e l’“Ami des Hommes”. Le riforme leopoldine in alcune lettere del marchese di Mirabeau al conte di Scheffer, in Ricerche storiche, VII (1977), pp. 137-195; M. Mirri, La fisiocrazia in Toscana. Un tema da riprendere, in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, II, Firenze 1980, pp. 703-760; V. Becagli, Un unico territorio gabellabile. La riforma doganale leopoldina. Il dibattito politico, 1767-1781, Firenze 1983; L. Bellatalla, P. L. di Toscana granduca educatore: teoria e pratica di un despota illuminato, Pisa 1984; F. Sani, Collegi, seminari e conservatori nella Toscana di P. L., Brescia 2001. F. Venturi, Settecento riformatore, III, La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776), Torino 1979, cap. III; IV, La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), 1984, passim. La riforma di polizia è ricostruita in C. Mangio, La polizia toscana. Organizzazione e criteri d’intervento (1765-1808), Milano 1988; A. Contini, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze leopoldina (1777-1782), in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, a cura di C. Lamioni, II, Roma 1994, pp. 426-508. Sulla vita teatrale, cfr. A. Tacchi, La vita teatrale a Firenze in età leopoldina, ovvero tutto sotto controllo, in Medioevo e Rinascimento, VI (1992), pp. 361-373. Per le riforme ecclesiastiche, cfr. F. Scaduto, Stato e Chiesa sotto Leopoldo I Granduca di Toscana (1765-1790), Firenze 1885 (rist. anast. Livorno 1975); Lettere di Scipione de’ Ricci a P. L. (1780-1791), a cura di B. Bocchini Camaiani - M. Verga, I-III, Firenze 1990; I Cinquantasette punti ecclesiastici redatti per ordine di Pietro Leopoldo si leggono in Atti e decreti del Concilio diocesano di Pistoia, Pistoia 1786, pp. 46-70 (rist. anast., a cura di P. Stella, I-II, Firenze 1986); M. Rosa, Riformatori e ribelli nel ’700 religioso italiano, Bari 1969 (in particolare Giurisdizionalismo e riforma religiosa nella Toscana leopoldina, pp. 165-181; Un momento del giansenismo italiano: il sinodo di Pistoia del 1786, pp. 215-242); D. Toccafondi, La soppressione leopoldina delle confraternite tra riformismo ecclesiastico e politica sociale, in Archivio storico pratese, LXI (1986), pp. 143-172; C. Fantappiè, Riforme ecclesiastiche e resistenze sociali. La sperimentazione istituzionale nella diocesi di Prato alla fine dell’antico regime, Bologna 1986; Id., Il monachesimo moderno tra ragion di Chiesa e ragion di Stato. Il caso toscano (XVI-XIX), Firenze 1993, pp. 237-272; M. Rosa, Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia 1999; P.D. Giovannoni, Fra trono e cattedra di Pietro. A. Martini arcivescovo di Firenze nella Toscana di P. L. (1781-1790), Firenze 2010. Sul contesto culturale delle riforme, cfr. M.A. Morelli Timpanaro, Legge sulla stampa e attività editoriale a Firenze nel secondo Settecento, in Rassegna degli Archivi di Stato, XXIX (1969), pp. 613-700, ora in Ead., Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze 1999, passim; R. Pasta, Editoria e cultura nel ’700, Firenze 1997; Id., Scienza e istituzioni in età leopoldina, in La politica della scienza. Toscana e Stati italiani nel tardo Settecento, a cura di G. Barsanti - V. Becagli - R. Pasta, Firenze 1996, pp. 3-34; V. Becagli, La pipa di gesso di P. L., in Il Gran-ducato di Toscana e i Lorena nel secolo XVIII, a cura di A. Contini - M.G. Parri, Firenze 1999, pp. 285-324. Sull’edizione dell’Encyclopédie patrocinata dal sovrano, cfr. E. Levi Malvano, Les éditions toscanes de l’“Encyclopédie”, in Revue de littérature comparée, III (1923), pp. 213-256; V. Baldacci, L’“Enciclopedia” nella Toscana del ’700: successi e fallimenti di progetti editoriali, in Rassegna storica toscana, XXXI (1985), pp. 195-230; C. Mangio, Censura granducale, potere ecclesiastico ed editoria in Toscana: l’edizione livornese dell’“Encyclopédie”, in Studi settecenteschi, XVI (1996), n. monografico: L’enciclopedismo in Italia nel XVIII secolo, a cura di G. Abbattista, pp. 191-219; S. Landi, Il governo delle opinioni. Censura e formazione del consenso nella Toscana del ’700, Bologna 2000, capp. IV-VI. Importante per la politica del sapere E. Chapron, “Ad utilità pubblica”. Politique des bibliothèques et pratiques du livre à Florence au XVIIIe siècle, Genève 2009, capp. III-V. Per la legislazione penale v. le ricerche coordinate da L. Berlinguer, tra le quali si segnalano: La “Leopoldina”. Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del ’700 europeo, Milano 1987; La “Leopoldina” nel diritto e nella giustizia in Toscana, a cura di L. Berlinguer - F. Colao, Milano 1989; M. Da Passano, Dalla “mitigazione delle pene” alla “protezione ch’esige l’ordine pubblico”. Il diritto penale toscano dai Lorena ai Borbone (1786-1807), Milano 1988; D. Edigati, Prima della Leopoldina. La giustizia criminale toscana tra prassi e riforme legislative nel XVIII secolo, Napoli 2011. I testi del progetto di riforma sono editi in D. Zuliani, La riforma penale di P. L. Edizione critica della legge toscana del 30 novembre 1786, I-II, Milano 1989. Sul progetto costituzionale: J. Zimmermann, Das Verfassungsprojekt des Grossherzogs Peter Leopold von Toscana, Heidelberg 1901, che pubblica l’Editto… per la formazione delli stati di Toscana (8 sett. 1782), pp. 125-168, e altri documenti. Il testo del 1787 è edito e analizzato in G. Graf, Der Verfassungsentwurf aus dem Jahr 1787 des Granduca P. L. di Toscana, Berlin 1998; un’analisi complessiva in B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, Milano 1991; G. Manetti, La costituzione inattuata. Pietro Leopoldo Granduca di Toscana: dalla riforma comunitativa al progetto di costituzione, Firenze 1991; G. La Rosa, Il sigillo delle riforme. La ‘Costituzione’ di P. L. di Toscana, Milano 1997.