LANZA (Lanza di Scalea), Pietro
Nacque a Palermo il 20 ott. 1863 dal principe di Scalea Francesco e Rosa Mastrogiovanni Tasca dei conti d'Almerita, primo di cinque figli di una delle casate più influenti dell'isola. Conseguita la laurea in giurisprudenza, dimostrò sin dai primi tempi un interesse non superficiale per le vicende artistiche e storico-letterarie della sua isola, ma anche una certa attitudine alla politica e alla gestione del patrimonio familiare, che si componeva tra l'altro di vasti possedimenti terrieri nella Sicilia centrale, con epicentro nella zona di Mussomeli.
L'attività pubblica del L. si iscrisse subito nel solco tracciato dal padre, a difesa della posizione familiare e del prestigio di un'intera classe sociale. A ventitré anni, nel luglio 1887, sposò Dorotea Fardella baronessa di Moxharta, che gli dette sei figli. Dieci anni più tardi entrò in Parlamento candidandosi nello stesso collegio elettorale di Serradifalco presso cui il padre, ormai senatore, aveva ottenuto la prima elezione.
La carriera politica del L. iniziò dunque con l'avvio della XX legislatura e proseguì sino alla morte, spostando progressivamente il baricentro dei suoi interessi dalla Sicilia verso la capitale e la consistenza del patrimonio dai possedimenti terrieri agli investimenti finanziari (fu tra l'altro presidente delle società Cantieri navali riuniti, Siderurgica commerciale e Coloniale siderurgica). In un primo tempo il L., consigliere dell'Associazione per il bene economico di Palermo, si ritagliò un originale ruolo politico nella difesa della cultura locale. Il tema prevalente era quello della tutela degli interessi isolani dall'ingerenza dei gruppi settentrionali, che variamente declinato arrivò ad assumere il significato della difesa delle posizioni dell'aristocrazia siciliana nei confronti del giolittismo e quindi del socialismo. Il L. consolidò su questo terreno l'alleanza con i principali esponenti della società palermitana, diventandone il rappresentante politico. D'intesa con I. Florio jr. costituì prima un'Associazione agraria, quindi un Comitato agrario siciliano e infine un vero e proprio Partito agrario, rappresentato in Parlamento da lui stesso.
Il percorso di questo movimento politico seguì la transizione dei proprietari terrieri siciliani: da un iniziale progetto di larghe intese con le forze liberali sino alla collocazione nello schieramento della Destra estrema, con il passaggio del blocco agrario dal liberalismo al fascismo. Mentre in ambito siciliano la politica di questo gruppo era "essenzialmente quella del dispendio, dello splendore" (L. Sciascia, Introduzione a L'età dei Florio, a cura di R. Giuffrida - R. Lentini, Palermo 1985, p. 12), sul piano nazionale si proponeva di contrastare la strategia governativa di G. Giolitti, che rendeva marginale il contributo del settore agrario e favoriva l'imprenditoria settentrionale. Il rapporto del L. con Giolitti non fu privo di tensioni. Intervenendo nel marzo 1904 alla discussione parlamentare sul bilancio dell'Interno, reclamò maggiore attenzione nei confronti delle campagne siciliane, addebitando l'assenteismo della proprietà terriera alla mancata protezione delle forze dell'ordine (Atti parl., Camera, Discussioni, XXI legisl., 15 marzo 1904, p. 11680). Il presidente del Consiglio respinse l'accusa e gli rimproverò a sua volta la difesa d'ufficio del latifondo, causa principale dell'arretratezza dell'economia siciliana (G. Giolitti, Discorsi parlamentari, II, Roma 1953, p. 799).
Il L. si rivelò, comunque, un latifondista sensibile al richiamo della modernità. Il suo fondo di Mussomeli era considerato tra le testimonianze migliori di quell'accenno di "rivoluzione agraria" che attraversava le campagne siciliane di inizio secolo, grazie a una serie di investimenti che introdussero significative trasformazioni colturali.
La capacità di muoversi con una certa ambiguità tra conservazione e innovazione trovò successivamente un importante riconoscimento letterario. Al modello del L. si ispirò infatti il ritratto del giovane Tancredi, uno dei personaggi centrali del Gattopardo: "la sua attività e i suoi freschi quattrini lo rendevano indispensabile ovunque; egli militava nella profittevolissima sfumatura di "estrema sinistra della estrema destra", trampolino magnifico che doveva poi permettergli acrobazie ammirevoli e ammirate" (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 2002, p. 289. Per l'identificazione con il L.: G. Lanza Tomasi, I luoghi del Gattopardo, Palermo 2001, p. 63).
Tuttavia, la carriera politica del L. non si iscrisse nell'orbita del trasformismo, come dimostra la perdurante fedeltà alla difesa dei valori monarchici e patriottici. Tale posizione trovò la sua definizione nella politica estera: nel dicembre 1909 il L. ottenne l'incarico di sottosegretario nel governo Sonnino, con F. Guicciardini ministro degli Esteri. Rimase in carica senza soluzione di continuità sino al marzo 1914, con i successivi governi Luzzatti e Giolitti, mentre al dicastero degli Esteri saliva il siciliano marchese di San Giuliano A. Paternò Castello.
Dal rapporto di collaborazione, ma anche di competizione, fra il sottosegretario e il ministro degli Esteri, prese forma la preparazione diplomatica della guerra libica. In quell'occasione il L. incalzò San Giuliano, imputandogli una linea di prudenza nei confronti della Turchia e dell'Austria-Ungheria tale da offrire pretesti alle tergiversazioni giolittiane. Questa posizione fu riassunta in una relazione dell'agosto 1911 nella quale, censurando gli inviti alla cautela avanzati dall'ambasciatore italiano a Vienna, il L. metteva in guardia San Giuliano dall'impossibilità di "giustificare presso l'opinione pubblica la ragione dell'inerzia" (Roma, Arch. centr. dello Stato, Carte Giolitti, sc. 17, f. 38).
La pressione dell'opinione pubblica ebbe un peso determinante nel favorire l'avvio delle operazioni militari, grazie anche al sostegno che ricevette da settori influenti del ministero: "Il più oltranzista è Lanza, il quale non nasconde le sue simpatie per i nazionalisti" (A. Del Boca, Gli Italiani in Libia, I, Roma-Bari 1986, p. 67). L'attenzione alle istanze estreme del nazionalismo caratterizzò questa prima esperienza ministeriale e gli alienò definitivamente le simpatie di Giolitti. Nel settore di sua specifica competenza, quale l'amministrazione degli uffici del ministero, la sua azione non ottenne invece risultati concreti.
Alla vigilia della prima guerra mondiale il L. era ormai una figura di riferimento nell'articolato arcipelago dell'interventismo italiano. Nonostante avesse superato i cinquant'anni si arruolò volontario, segnalandosi soprattutto per il contributo prestato nell'organizzazione della legione cecoslovacca. Più che al fronte, il suo sostegno alla guerra si dispiegò nell'aula parlamentare. Nel 1916 fu sua la prima firma all'ordine del giorno a sostegno della politica estera del governo. Dopo la rotta di Caporetto concorse alla costituzione del fascio parlamentare di difesa nazionale, che si batté per il proseguimento a oltranza della guerra.
La guerra assunse per il L. il valore di una prova definitiva. La prospettiva di una palingenesi storica inevitabilmente delusa lo convinse ad arruolarsi nella schiera dei teorici della "vittoria mutilata", spingendolo verso la sponda del fascismo. Vi si avvicinò però gradualmente, rimanendo coerente al suo originario nazionalismo monarchico. Dapprima si allontanò dalla politica attiva: non si presentò alle elezioni politiche del 1919 svolte col sistema proporzionale (che condusse alla sconfitta non pochi deputati siciliani), decidendo così per la prima e unica volta di restare fuori del Parlamento. In quei mesi entrò a far parte dell'Unione liberale, un comitato che sosteneva la candidatura di V.E. Orlando, insieme con esponenti dello schieramento moderato che di lì a pochi mesi si trovarono a operare su fronti contrapposti.
Negli interventi pubblici il L. si dedicò alla celebrazione dell'impresa militare, rimarcando il pericolo che una rivoluzione bolscevica compromettesse gli effetti della vittoria, travolgendo le fondamenta dello Stato liberale. Nell'esaltare l'impresa fiumana di G. D'Annunzio, attaccò il comportamento della classe dirigente italiana, di cui deplorava le "abdicazioni morali degli idealismi che alimentarono la guerra" (P. Lanza di Scalea, La vittoria, Palermo 1920, p. 20). Evitava però di confondersi con i fascisti e preferiva ancorarsi alle sue origini siciliane.
Nel 1920 fondò il Partito agrario, con il quale l'anno dopo si assicurò l'elezione in Parlamento conseguendo nella sola Palermo quasi 7000 preferenze. L'allarme che il movimento di occupazione delle terre suscitava tra i proprietari dell'isola fece di questo partito il precursore di un blocco d'ordine che avrebbe poi costituito l'ossatura del fascismo meridionale. Allo scopo di "fronteggiare il pericolo rivoluzionario" (Giornale di Sicilia, 24-25 febbr. 1922) propose ai deputati eletti nei blocchi nazionali di coordinare la propria azione con il gruppo agrario. Due giorni dopo fu designato a rappresentare gli agrari nel primo governo Facta, assumendovi il dicastero della Guerra.
La nomina del L. costituì uno dei passaggi più delicati nella formazione di quel governo. Il ministero della Guerra, cui spettava il controllo sui carabinieri, era stato promesso a G. Amendola in funzione del contenimento dello squadrismo fascista. L'assegnazione al L., mentre Amendola veniva destinato alle Colonie, apparve ai più avvertiti osservatori come "l'adozione pratica e pubblica nelle alte sfere dirigenti del principio della preparazione attiva verso la nuova fase fascista" (A. Gramsci, La costruzione del partito comunista, 1923-1926, Torino 1974, p. 170 n. 1). Un giudizio condiviso anche dall'altra parte, se diversi anni dopo L. Federzoni, sorvolando sullo squadrismo, poteva ricordare che dal ministero della Guerra il L. "si adoperò a risollevare lo spirito dell'esercito depresso dalla malefica usurpazione dei faziosi del Parlamento e della piazza" (Atti parl., Senato, Discussioni, XXIX legisl., 30 maggio 1938, p. 4114).
La breve esperienza governativa, conclusasi a fine luglio con le dimissioni di Facta, segnò il passaggio dalle indecisioni del dopoguerra alla scelta di campo in favore del fascismo. Il L. considerava il fascismo più che un movimento politico (al partito aderì solo nel dicembre del '23), uno strumento di riscatto nazionale. A suo avviso il nuovo regime poteva rappresentare una formidabile forza di conservazione e di "tutela riparatrice dell'ordine nazionale" (L'ora presente, Palermo 1923, p. 13). Il suo rapporto di collaborazione fu direttamente con B. Mussolini, senza mediazioni da parte dei gerarchi. Per scelta del duce fu nominato ministro delle Colonie nel 1924 in sostituzione di Federzoni (spostato agli Interni per fronteggiare la crisi Matteotti) e da Mussolini in persona fu chiamato l'anno successivo a capeggiare la lista fascista palermitana in una difficile tornata amministrativa.
A Palermo il L. si assunse il compito di promuovere il fascismo a forza di governo locale, ingaggiando una strenua competizione con i liberali di V.E. Orlando e uno scontro fratricida col fratello Giuseppe, capolista dei sostenitori di Orlando. Benché la lista liberale disponesse di vasti consensi, del sostegno del maggiore quotidiano locale e affrontasse le elezioni del 1925 come l'ultima trincea contro la dittatura, il L. gettò sul tavolo della campagna elettorale tutte le risorse possibili: ingenti mezzi economici (assicurati anche da Florio), l'apporto di squadristi ingaggiati da altre regioni, l'impiego di una manovalanza di sospetta estrazione mafiosa, il ricorso a blandizie alternate a minacce per dividere gli avversari. "Chi degli avversari è così forte da ribellarsi al fascismo?" domandava alla piazza prima di concludere la campagna elettorale (Sicilia nuova, 25 ag. 1925).
Il favorevole risultato delle urne non fu tuttavia trionfale per il L., scavalcato nel voto di preferenza da E. Restivo. Si premurava perciò di ricordare al Consiglio comunale appena insediato che qualora "sorgesse una municipalità che potesse essere elemento disgregatore della compagine statale, essa dovrebbe essere inesorabilmente soppressa dal volere di una autorità superiore" (Giornale di Sicilia, 31 agosto - 1░ sett. 1925).
Come ministro delle Colonie il L. assunse un atteggiamento meno intransigente. Entro i confini di una politica estera sino a quel momento in linea con quella dei governi liberali, privilegiò la cautela alle fughe in avanti, la realtà della diplomazia alla politica dei sogni e dei proclami. Il L. auspicava uno sfruttamento di tipo capitalistico delle terre d'Oltremare, mettendo in guardia dall'illusione di una "probabile e sulla carta sollecita soluzione del problema emigratorio nei nostri territori di dominio diretto" che si accompagnava al modello populista della piccola colonia (Atti parlamentari, Camera, Discussioni, XXVII legisl., 29 nov. 1924, p. 986). Si mostrava inoltre restio a credere in un possibile allargamento della sfera di influenza italiana nelle zone balcaniche, privilegiando piuttosto l'area del Mar Rosso, e non esitò a contrastare il nuovo governatore della Tripolitania E. De Bono in alcuni avventati progetti di occupazione territoriale. In breve tempo il ministero delle Colonie tornava appannaggio di Federzoni, su una linea di più aperta collaborazione con le gerarchie fasciste.
Il L. concludeva la sua ultima esperienza ministeriale il 6 nov. 1926, pochi mesi dopo l'uscita di scena dalla segreteria generale degli Esteri di S. Contarini (marzo 1926), cui lo legava una solida intesa e un comune fastidio per le istanze più estreme della politica fascista.
La sua eclissi, accentuata anche da una grave malattia, lo allontanò dalla scena politica, salvo incarichi puramente onorifici (come la presidenza della Società geografica italiana e dell'Aeroclub d'Italia), se si eccettua la nomina a senatore nel 1929. Nel 1934 assunse anche la vicepresidenza del Senato: proprio in quell'aula l'anno successivo pronunziò il suo ultimo intervento politico, dedicandolo alla questione etiopica.
Precorrendo i tempi, già dieci anni prima aveva invitato Mussolini a considerare un'eventuale operazione in quell'area: un'ingerenza da condurre "in modo se non convergente, almeno parallelo con l'Inghilterra" (rapporto del ministro delle Colonie, 7 luglio 1925, in Roma, Arch. centr. dello Stato, Carte Badoglio, sc. 4, f. 6). Adesso, alla vigilia di un appuntamento mal preparato dalla diplomazia, non evitava di avvertire che il conflitto "anziché europeizzarsi, debba invece circoscriversi" (Atti parlamentari, Senato, Discussioni, XXIX legisl., 14 maggio 1935, p. 1124), levando un'isolata voce critica nel coro degli adulatori.
Il L. morì a Roma il 29 maggio 1938. Per disposizione del capo del governo se ne celebrarono i funerali di Stato; una corona con la sigla del re imperatore ne accompagnò le esequie.
Opere: Enrico Rosso e la confisca dei suoi mobili in Castiglione. Ricerche storiche del sec. XIV, Palermo 1890; Donne e gioielli in Sicilia nel Medio Evo e nel Rinascimento, Palermo-Torino 1892; In memoria di Umberto I, Roma 1903; La Sicilia attraverso la leggenda, Palermo 1908.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri, aa. 1925, f. 1/3-4, prot. 396; 1926, f. 1/4-2, prot. 4130; Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario, f. 209.757, 513.646; Partito nazionale fascista, Palermo, sc. 148; Carte Badoglio, sc. 4, f. 6; Carte Giolitti, sc. 17, f. 38. L'unica biografia, ma a carattere agiografico, è di R. Cantalupo, Ritratto di P. L., Roma 1940. Utili notizie in L. Lodi, Venticinque anni di vita parlamentare, Firenze 1923, pp. 149 s.; E. Savino, La nazione operante, Novara-Milano 1937, p. 87; L.V. Ferraris, L'amministrazione centrale del ministero degli Esteri nel suo sviluppo storico, in Riv. di studi politici internazionali, XXI (1954), p. 611; D. Varè, Il diplomatico sorridente (1900-1940), Milano 1953, ad ind.; I documenti diplomatici italiani, s. 7, III, Roma 1959, ad ind.; IV, ibid. 1962, ad ind.; R. Molinelli, Il nazionalismo italiano e l'impresa di Libia, in Rass. stor. del Risorgimento, LIII (1966), pp. 302 ss.; F. Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma 1970, pp. 102 s.; G.C. Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia. Da Orlando a Mussolini, Bari 1976, ad ind.; G. Miccichè, Dopoguerra e fascismo in Sicilia (1919-1927), Roma 1976, pp. 18 s., 68; A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, II, Roma-Bari 1979, pp. 38-47; C. Duggan, La mafia durante il fascismo, Soveria Mannelli 1986, p. 25; M. Missori, Gerarchie e statuti del P.N.F., Roma 1986, pp. 226 s.; O. Cancila, Palermo, Roma-Bari 1988, ad ind.; F.W. Deakin, Il colonialismo fascista nel giudizio degli Inglesi, in Le guerre coloniali del fascismo, a cura di A. Del Boca, Roma-Bari 1991, p. 352; R.J.B. Bosworth, Italy and the wider world (1860-1960), London-New York 1996, pp. 165-168; G. Monina, Il consenso coloniale. Le società geografiche e l'Istituto coloniale italiano (1896-1914), Roma 2002, ad ind.; Enc. militare, IV, p. 525; Enc. biogr. e bibliografica "Italiana", A. Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, II, pp. 94 s.