LANDRIANI (da Landriano), Pietro
Figlio di Accursio (Accorsino) e di Antonia di Achille Stampa (senior), nacque presumibilmente a Milano intorno al 1440; era fratello di Antonio, che fu tesoriere generale del Ducato di Milano, e di Giacomo, Battista, Agostino, Giovanni e Francesco.
Il padre era stato priore della Repubblica ambrosiana e poi aveva svolto vari incarichi nell'amministrazione finanziaria comunale e ducale. Il ramo del grande casato milanese a cui il L. apparteneva non era tra i più illustri ma era certo tra i più attivi nel settore mercantile e bancario, nelle carriere ecclesiastiche e burocratiche.
Dal 1463 il giovane L. fu ammesso alla corte di Francesco Sforza con il rango di cameriere. Accadeva spesso che i cortigiani, oltrepassando il connotato puramente ministeriale, venissero utilizzati in missioni estere, anche a carattere informale e fiduciario.
Il L. fu inviato presso il marchese di Monferrato e nel 1463 ad Asti per rassicurare le autorità orleanesi circa l'amicizia di Francesco Sforza; nel 1465 accompagnò a Napoli Ippolita Sforza che andava in sposa al duca di Calabria Alfonso d'Aragona; nel novembre si accingeva a tornare a Milano. Fu ancora alla corte di re Ferdinando verso la fine del 1466 per ottenere un sussidio in vista della guerra contro Venezia e Bartolomeo Colleoni. La missione del L. incontrò molte difficoltà, cosicché il suo soggiorno napoletano si prolungò di mese in mese fino all'agosto 1467. Nel frattempo era stata stipulata una lega particolare tra Milano, Napoli e Firenze. Nel febbraio 1468 il duca Galeazzo Maria Sforza, accingendosi alle nozze con Bona di Savoia, volle formare un seguito di "compagni et compagne, gentilhomeni et officiali de casa de madona nostra mogliere" costituito solo da cortigiani nuovi e "non de quilli che praticavano in camera del Signore mio padre". Oltre ad alcuni membri dell'aristocrazia milanese furono designati un "sescalco" ovvero governatore di casa e cerimoniere, che fu Cristoforo Pagnano, un medico e del personale di più basso livello: paggi, coppieri, credenzieri e musici (Arch. di Stato di Milano, Registri sforzeschi, Registri delle missive, 81, cc. 133 s.). Il L. fu nominato "coppiere": era un ruolo ministeriale, ma non privo dei vantaggi assicurati dall'assidua presenza a corte, luogo centrale di dispensa di donativi, benefici, cariche, prebende, nonché di irradiazione di pratiche e scambi clientelari. Egli servì fedelmente la duchessa per diversi anni, fu promosso "sescalco" al posto del Pagnani e diventò per Bona un appoggio e un valido consigliere, senza apparentemente coltivare ambizioni politiche.
Tutto cambiò dopo l'assassinio del duca Galeazzo Maria, avvenuto alla fine di dicembre del 1476. La giovane duchessa, reggente per il figlioletto Gian Galeazzo Maria, era del tutto digiuna di cose di Stato e aveva bisogno di circondarsi di persone fidate e consiglieri autorevoli. Per questo accettò di formare un organo consultivo ristretto, con sede nel castello di Porta Giovia, che esautorava di fatto il Consiglio segreto "in Arengo". Vi erano rappresentati, secondo attenti dosaggi politici, i maggiori esponenti delle famiglie guelfe e ghibelline di Milano, ai quali veniva aggiunto il L. in quanto "sescalco" e uomo di fiducia di Bona. Fu proprio questa posizione un po' defilata a dargli l'opportunità di una rapidissima ascesa politica. Della sua peculiare influenza presso la reggente, insieme col primo segretario Francesco (Cicco) Simonetta, sono testimonianza i dispacci degli ambasciatori dei Gonzaga: il primo segretario e il L. "fin qui sonno quelli che fanno il tutto" (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, Dip. affari esteri, 20 genn. 1477), "sonno quelli che governano questa prelibata madonna a l'effetto" (ibid., 3 febbr. 1477). Alla metà di febbraio questi consiglieri fidatissimi incoraggiarono la reggente ad accettare la richiesta di Ludovico il Moro e degli altri fratelli del duca defunto, già allontanati da Milano per sospetta dissidenza, di rientrare e di partecipare al governo dello Stato.
Come consigliere e uomo di fiducia della duchessa il L. fu protagonista discreto ma molto assiduo delle vicende politiche del 1477-79. I verbali del Consiglio "di castello", in cui di mese in mese si rinnovavano gli assetti interni piuttosto difficoltosi, registrano quotidianamente il suo nome; inoltre, sotto la crescente influenza del Simonetta egli seppe mantenersi relativamente equidistante tra partiti e gruppi di pressione anche in un momento denso di eventi incalzanti come l'aperta ribellione dei fratelli Sforza, la perdita di Genova, l'emergere delle ambizioni di Roberto Sanseverino.
Non che il L., la cui famiglia era di tradizioni ghibelline, fosse estraneo a schieramenti di fazione, ma la sua posizione secondaria gli permise di far parte del ristretto gruppo dei consiglieri di castello senza sbilanciare equilibri studiosamente costruiti. Così restò al suo posto, impegnato nell'arduo esercizio della politica quotidiana; ancora nel 1478 fece parte del Consiglio, ulteriormente ristretto a pochi intimi della duchessa e di Cicco Simonetta.
L'ascesa del L. andava di pari passo con l'emergere dei fratelli Antonio nelle cariche finanziarie dello Stato e Giacomo nell'ambiente ecclesiastico. La candidatura di questo, generale degli umiliati, al cardinalato fu formalmente promossa dagli Sforza nel novembre 1477 mediante una missione di Ziliolo Oldoini, che doveva far valere sia i meriti dell'aspirante cardinale sia la "reputatione" della sua famiglia. Quando apparve chiaro che il papa non avrebbe accettato la promozione di un membro dell'Ordine dei bianchi, i duchi fecero marcia indietro e sostennero che la richiesta era stata avviata per "la continua molestia et fastidio de le spalle" mossi dal "sescalco" e dal tesoriere. È facile immaginare che i due Landriani si mettessero in quieta attesa di altri benefici che li avrebbero risarciti del fallimento della vicenda romana, e che infatti puntualmente arrivarono ad avvantaggiare alcuni dei nipoti.
Nell'agosto 1479, narra B. Corio, il L., con il fratello Antonio e altri notabili, prese l'iniziativa di favorire la riconciliazione tra Ludovico Sforza (che muoveva in armi contro lo Stato milanese) e Bona di Savoia. Il ritorno del Moro era ormai auspicato sia dai guelfi sia dai ghibellini, e avrebbe significato la definitiva emarginazione di Cicco Simonetta, potentissimo e ormai inviso sia al popolo sia ai nobili milanesi. Così il 7 sett. 1479 Ludovico il Moro rientrò a Milano ben deciso ad approfittare della debolezza della reggente e del giovane duca per prendere il potere. Pochi giorni dopo, il Simonetta fu tratto in arresto, e con lui i suoi parenti e alcuni cancellieri e officiali ritenuti suoi amici, e le loro case furono saccheggiate. In quest'occasione il L. appare più apertamente schierato con il partito nobiliare ghibellino dei Borromeo, dei Marliani, dei Pusterla, che si candidavano ad assumere un ruolo guida nella direzione dello Stato. Scriveva Z. Saggi che "Pietro da Landriano et alchun'altri ghibellini sonno stati quelli che hanno consigliata questa ill.ma madonna a far venire qui esso signore Ludovico" (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, 10 sett. 1479); riferiva anche che un fratello del L. (si trattava di Francesco) aveva preso la rocca di Monza dopo il licenziamento di Andrea Simonetta. Nelle lettere successive (ibid., 17, 20, 28 sett. 1479) il Saggi raccontava che, dopo aver ammesso i principali ghibellini nel Consiglio di castello, il Moro continuava tuttavia a "restringersi" solo con il L. e con Pietro Francesco Visconti di cui apprezzava la "grande fede et experientia", non senza risentimenti da parte degli esclusi. Alla fine di settembre la città era pacificata e lo Stato apparentemente assestato. Tuttavia il Moro cercava un faticoso equilibrio tra le fazioni milanesi per non diventare un ostaggio nelle loro mani, temendo specialmente il forte schieramento nobiliare ghibellino sostenuto da Ascanio Sforza e da Roberto Sanseverino. Ne derivavano tensioni anche nelle decisioni di politica estera: il 5 novembre l'oratore mantovano riferiva che coloro che erano già al governo con Cicco Simonetta (dunque anche il L.) volevano restare collegati di Firenze, i ghibellini invece volevano "andare a la via del re", ossia allearsi con gli Aragonesi di Napoli. Formati i processi contro il Simonetta, il Moro non volle piegarsi del tutto alle rivendicazioni dei ghibellini che ne chiedevano la testa, convinto che questa concessione avrebbe dato loro un potere e un'autorità soverchianti.
Alla fine di febbraio 1480 Ludovico Sforza fece arrestare e poi esiliare suo fratello Ascanio, individuato come responsabile del risveglio delle lotte tra le parti nobiliari milanesi. Poco dopo fece in modo di far uscire da Milano alcuni tra gli esponenti più in vista del partito ghibellino e qualche caporione guelfo: i più potenti furono incaricati di ambascerie e missioni, altri allontanati senza troppi riguardi. Il L. non fu colpito da questi provvedimenti: fino a quel momento aveva tenuto un atteggiamento moderato e conquistato una solida posizione nel governo formatosi sotto la guida ludoviciana, nel quale trovava spazio anche la componente nobiliare guelfa. Già in quest'epoca si cominciò tuttavia a vociferare di un suo incarico a Pavia.
Il L. si era fatto un nemico: il favorito della duchessa, il ferrarese Antonio Tassino, era diventato assai potente a corte e non gradiva l'influenza che il L. continuava a esercitare su Bona. Il Tassino era anche un ostacolo sulla strada della completa affermazione del Moro, ma questi lo tollerava per evitare una completa rottura con la reggente. Per liberarsi del L., il Tassino lo fece mandare a Pavia come commissario, suscitando molta contrarietà negli ambienti nobiliari milanesi.
Insediatosi a Pavia, il L. vi trovò una situazione travagliata da disordini provocati dagli studenti forestieri e da alcuni turbolenti capi delle fazioni locali. Le istruzioni gli raccomandavano un atteggiamento severo e rigoroso verso riottosi e disobbedienti, ma le difficoltà dell'incarico si manifestarono molto presto: chi accusava il L. di una sospetta debolezza verso i più potenti e facinorosi, chi al contrario ne censurava l'atteggiamento severo e poco conciliante (cfr. la corrispondenza in Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, 859). In ottobre il L. affrontò uno spinoso problema giurisdizionale, per cui subì da Milano un'ammonizione a "non impaziarsi de cause civili". Come faceva notare in una lettera dal tono sconfortato, obbedire significava cedere alle forti pressioni dei notai e degli appaltatori pavesi e rinunciare a intervenire nell'amministrazione della giustizia con piglio e autorità da commissario (ibid., 1° ott. 1480). Era la tipica frustrazione dell'officiale, diviso tra rigore e parzialità e soggetto costantemente al rischio di essere sconfessato da Milano.
Durante l'estate 1480 crescevano nel Ducato le mormorazioni perché il Moro continuava a tollerare lo strapotere del Tassino. I "principali" milanesi erano ormai tornati in città senza restrizioni, e quando il favorito ferrarese tentò di impadronirsi della rocca del castello di Porta Giovia per darla in custodia a suo padre, decisero che era giunto il momento di esautorarlo e di cacciarlo. La duchessa cercò di resistere, ma ormai le era stato sottratto il figlio, il giovane duca Gian Galeazzo Maria, rinchiuso nella rocchetta del castello sotto la custodia del Moro e di altri due tutori. Inoltre venne privata del suo seguito e di parte del suo appannaggio; si vide quindi costretta, non senza manifestazioni di disperazione, a ritirarsi nel castello di Abbiategrasso, lasciando spazio alle ambizioni ormai palesi del cognato. L'allontanamento di Bona di Savoia non poteva non turbare il L.: da Pavia le indirizzò una lettera con la quale esprimeva sentimenti di solidale e umana pietà (ibid., 7 ottobre), ma nel contempo, da commissario, eseguiva ordini severissimi intesi a mobilitare guardie e spie in tutti i porti e a intercettare la corrispondenza da e per gli Stati dei Savoia.
Nonostante l'incarico pavese, nel luglio 1480 il Moro lo aveva nominato in un comitato che doveva procedere a una massiccia alienazione di dazi e di altre entrate fiscali. È una delle prime drastiche misure prese dal Moro per porre rimedio a una situazione finanziaria critica e destinata ad aggravarsi negli anni seguenti. Nel 1481 l'emarginazione di Bona era compiuta, i Simonetta e i loro seguaci scomparsi dalla scena, i "principali" ghibellini rientrati a Milano ma ridimensionati dalla crescente autorità del Moro. Il L. ritrovò il suo posto nei nuclei decisionali dello Stato e nel febbraio fu inviato a Mantova per le nozze di Chiara Gonzaga. Da allora in avanti la sua carriera politica, legata a quella del fratello tesoriere, si incanalava su un percorso solido e continuo, a sostegno del Moro, il cui potere oscurava completamente l'autorità del duca.
Nell'estate 1482 Ascanio Sforza e i suoi seguaci ghibellini prepararono un tentativo armato per assumere il controllo dello Stato; per scongiurare questo pericolo il L. fu inviato a Trezzo con altri sei "principali" dell'oligarchia sforzesca a parlamentare con il protonotario. Le cose si appianarono e il 19 ottobre fece parte di un comitato che accolse la duchessa Bona, a cui Ludovico consentiva di tornare a Milano e di stare a fianco del figlio nella rocca del castello, non senza essersi formalmente impegnata a "non impazarsi del governo". Per un momento, dopo tante traversie, sembrò che tra il duchetto, la duchessa e i fratelli Sforza si fosse finalmente stabilita la concordia.
Da tempo il L. si era accasato. Dopo essere riuscito a sfuggire, nel 1465, a un matrimonio imposto con la forza da certi gentiluomini Orombelli, in vista di un legame più conveniente alla sua ambizione, sposò Elisabetta di Giacomo Gallarati (un ricco mercante legato alla corte ducale), mentre contemporaneamente il fratello Giovanni si maritava con la sorella di Elisabetta, Ambrosina.
Nel 1477 il L. aveva ottenuto in feudo la terra di Calestano, confiscata a un condottiero ribelle, ma anticamente posseduta dai Fieschi. La concessione di una terra parmense a un milanese si spiega con la volontà ducale di utilizzare mediante il feudo il potenziale politico-militare di quell'area, secondo disegni di ampio respiro che trovavano in uomini fedeli come il L. dei solidi supporti. Con il feudo il L. conquistò lo status di signore e fu coinvolto direttamente nelle vicende della guerra scoppiata tra Milano e Venezia: le milizie dei Rossi di Parma assediarono e conquistarono Calestano nell'aprile del 1482, ma alla fine del conflitto la terra fu recuperata e il feudo confermato, grazie anche alle pressanti istanze in favore del L. fatte dal marchese Bonifacio di Monferrato. L'investitura fu ulteriormente confermata il 29 apr. 1495.
Nel novembre 1482, mentre la situazione diplomatica si complicava con l'assedio di Città di Castello da parte delle milizie napoletane, il L. si recò a Mantova per ridare vigore all'alleanza con i Gonzaga e chiedere al marchese Federico I di mandare forze in aiuto a Ercole I d'Este duca di Ferrara, in vista di una pace stabile. In dicembre non rientrò a Milano e si avviò nuovamente verso Parma, dove avrebbe sostituito per un po' di tempo il defunto commissario ducale. La città era in preda a una violenta guerra civile: non solo si ripetevano di giorno in giorno temibili assalti alle mura cittadine da parte di torme di contadini comandati dai Rossi, ma vi erano anche forti tensioni interne e quotidiani fatti di sangue.
Le lettere scritte dal L. dal palazzo vescovile dove alloggiava riguardano in prevalenza l'ordine pubblico, il presidio militare della città, la difesa dei castelli conquistati ai Rossi, la difficoltà di provvedere al pagamento di fanti e provisionati (Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, 844, 12, 17, 22 dicembre). Si trattenne a Parma finché nel gennaio 1483 fu sostituito da Martino Nibbia, che di lì a poco fu assassinato in servizio.
Nel febbraio, aureolato dell'appellativo di "magnifico", accompagnò il marchese di Mantova alla Dieta che il Moro volle convocare a Cremona con l'ambizione di regolare l'assetto territoriale dell'Italia padana dopo un eventuale (ma improbabile) ridimensionamento territoriale di Venezia. Alla fine del 1484, dopo la pace di Bagnolo, fu nuovamente nominato commissario ducale, questa volta di Cremona. Una copiosa corrispondenza dell'anno successivo è relativa a questo incarico, durante il quale il L. dovette affrontare spinosi problemi locali, in particolare l'annosa questione delle acque e dei navigli cittadini variamente usurpati da privati e principi confinanti (ibid., 1161). Sul principio del 1486 era di nuovo a corte a Milano; il Moro dichiarò di voler mettere alle costole del duca Gian Galeazzo Maria Sforza il L. e altri tre saggi per insegnargli ad "atendere ale cose sue", affermazione che non ingannava l'oratore mantovano circa le intenzioni poco benevole del "patruus" (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, Zaccaria Saggi, 3 febbr. 1486). Sovente il L. era convocato presso il signore per essere consultato sui più importanti affari di Stato e intensisissima fu la sua presenza a comitati speciali, riunioni consiliari, missioni di varia natura e importanza. Si occupò nel 1488, insieme con altri consiglieri ducali, della costruzione del lazzaretto; nel 1493 accompagnò Beatrice d'Este a Venezia in un viaggio inteso a rassodare l'alleanza tra i due Stati; nel 1495 insieme con Gaspare Visconti ebbe contatti diplomatici con l'ambasciatore francese per conto del Moro; sul principio del 1496 fu tra i "deputati sopra la conservazione degli ordini".
L'autorità e la reputazione del L. erano al culmine: nel 1497 il duca rinnovò a lui e ai fratelli superstiti le ampie esenzioni fiscali concesse nel 1467. Ambasciatori e ospiti forestieri gli rivolgevano richieste e preghiere contando non solo sulla sua influenza, ma anche su quella del fratello tesoriere e di alcuni nipoti assurti a posti di grande responsabilità. L'ambasciatore dei Gonzaga, B. Capilupi, scrisse il 28 nov. 1497 alla marchesa di Mantova che per certi affari si era rivolto ai due Landriani, contando sul fatto che avrebbero scritto "in optima forma al nepote oratore", ossia a Cristoforo Lattuada, vescovo di Glandèves e residente sforzesco a Venezia; mentre Ludovico e Gerolamo Landriani, nipoti del L., erano collocati in posti di alta responsabilità sia nell'Ordine degli umiliati sia presso la corte ducale; altri nipoti, i conti della Somaglia Giovanni Antonio e Battista, erano influenti nel Lodigiano e ben introdotti negli ambienti governativi. Mentre agli inizi della sua carriera il L. era stato sostanzialmente ai margini dei circoli del potere, in questi anni di fine secolo era diventato uno dei più rilevanti esponenti del ceto di governo creato da Ludovico il Moro, un ambiente nel quale dominavano finanzieri, grandi mercanti e appaltatori (Bergonzio Botta, Giovanni Beolco, i Panigarola, i Cagnola, i Brivio), ma non mancavano nobili "provinciali" in ascesa rapidissima (Marchesino Stanga), condottieri di origini forestiere (Galeazzo Sanseverino) e anche qualche esponente "addomesticato" di quella indomabile aristocrazia magnatizia che nei primi anni aveva creato molti problemi al Moro. Se i Borromeo e i Trivulzio continuavano a essere poco malleabili, lo Sforza si era guadagnato il favore di alcuni dei Pusterla, dei Marliani, dei Visconti, dei Castiglioni, dei Landriani. In questo nuovo e originale gruppo di potere il L. si inseriva perfettamente: la sua famiglia vantava tradizioni risalenti all'età comunale, i suoi parenti erano tra i più facoltosi finanziatori del signore, egli stesso era cresciuto in ruoli ministeriali, si era fortificato nelle avversità e nella lunga pratica di servizio e in definitiva rappresentava un soggetto ideale per l'audace ricostruzione ludoviciana della società politica: un esperimento lungimirante quanto spregiudicato, ma destinato a un rapido tramonto a causa del disastro delle finanze ducali e di alcune infelici scelte di politica estera.
Il L. non ebbe il tempo di assistere al tracollo dello Stato sforzesco, e neppure al tragico assassinio del fratello Antonio che ne fu l'epilogo. Fatto testamento e nominati suoi esecutori il fratello e il nipote Gerolamo, morì nel corso del 1498 e fu sepolto nel pantheon ludoviciano di S. Maria delle Grazie, nella cappella intitolata ai Ss. Sebastiano e Rocco. L'unico figlio ed erede, Giacomo, cameriere ducale, gli dedicò un'epigrafe il 18 sett. 1498.
A sua volta il figlio ebbe la conferma del feudo di Calestano, ma la Comunità protestò contro l'infeudazione e in seguito la terra fu restituita ai Fieschi.
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