GRAZIOLI, Pietro (Pietro da Salò)
Non si conosce la data di nascita di questo scultore, figlio di Lorenzo, attivo a Venezia a partire dal quarto decennio del XVI secolo. Originario di Salò, viene ricordato da Vasari, nella vita di Iacopo Sansovino, come uno dei tanti apprezzabili discepoli che il maestro toscano aveva radunato intorno a sé per far fronte ai numerosi incarichi di scultura e architettura che aveva ricevuto a partire dal suo definitivo trasferimento a Venezia.
Nel 1536 e nel 1540 risulta che il G. venne pagato per la sua partecipazione ai lavori di decorazione scultorea di palazzo ducale, che Sansovino aveva intrapreso già dal 1531 (Boucher, I, p. 152). In particolare, il G. partecipò alla lavorazione della balaustra del finestrone che guarda sulla piazzetta S. Marco, concepito come pendant di quello quattrocentesco posto sulla facciata sud.
A differenza di quest'ultimo, ornato di statue allegoriche di virtù e di santi, nel finestrone sansoviniano ritornano, come nella decorazione della loggetta del campanile di S. Marco, alcune divinità mitologiche, tra le quali "la statua d'un Marte maggiore del naturale", ricordata espressamente da Vasari come opera del Grazioli.
Tuttavia, la datazione di questa statua, che sembra avere come modello il Marte del monumento di Benedetto Pesaro nella chiesa dei Frari scolpito da Baccio da Montelupo, potrebbe essere posteriore di molti anni, poiché il Mercurio di Alessandro Vittoria che lo accompagna insieme con le altre figure di Apollo e di Giove, di paternità incerta, sembrerebbe risalire a non prima della metà del sesto decennio.
Già nel corso degli anni Trenta il G. si era fatto conoscere, tra gli architetti e gli scultori attivi in laguna, come fornitore di pietre per l'architettura e di blocchi lapidei per sculture, impegnandosi in prima persona soprattutto in lavori d'intaglio per rilievi ornamentali di architetture.
Verso il 1538 il G. partecipava probabilmente alla decorazione scultorea della Libreria Marciana (ibid., p. 150), ma solo più tardi sembrerebbe aver assunto una maggiore padronanza anche nella realizzazione di figure a tutto tondo. I gradi di tale maturazione, in mancanza di fonti atte all'identificazione di sue opere relative al quinto decennio, probabilmente a causa della continua e stretta collaborazione del G. con Sansovino, si possono rilevare solo in anni successivi.
Intorno al 1553-54 il G., insieme con Danese Cattaneo e con un ignoto intagliatore, venne incaricato dell'esecuzione di due camini, progettati con ogni probabilità da Sansovino, per due delle nuove stanze allestite in quegli anni per il Consiglio dei dieci in palazzo ducale, le sale cosiddette della Bussola e dei Tre Capi.
In essi, rispettivamente, due telamoni e due cariatidi (le figure sulla destra di chi guarda sono del G. e quelle sulla sinistra sono di Cattaneo) sostengono una mensola trabeata nella quale spicca un fregio pulvinato di ascendenza sansoviniana riccamente intagliato a fogliami e ornato dallo stemma del doge Marcantonio Trevisan. Se la plasticità dell'intaglio tradisce l'abilità del G. in questo genere di lavori, entrambe le figure a tutto tondo che gli spettano indicano una preferenza netta per una forma scultorea dal classicismo stentoreo e certo più salda e sintetica del preziosismo di linee e dell'astrazione elegante che distingue le sculture di Cattaneo.
Il tipo di camino sostenuto da sculture libere derivava da sperimentazioni grafiche di Baldassarre Peruzzi, rese note in Veneto dagli scritti di Sebastiano Serlio; il G. dovette dimostrarsi particolarmente versato in tale genere di decorazioni lapidee, poste a finitura di ambienti progettati all'antica. Nella villa Garzoni a Pontecasale, ideata da Sansovino, Boucher (I, p. 153) ha ritenuto che riguardo ai due camini presenti in due saloni al pianterreno, provvisti di mensole sorrette rispettivamente da due cariatidi e da due telamoni, questi ultimi possano essere assegnati al G., in virtù della chiara analogia di stile che li apparenta con quello certamente suo nel camino della sala della Bussola in palazzo ducale. Questa ipotesi, proprio perché le erme di Pontecasale dovrebbero risalire agli anni Quaranta, e quindi precedere le statue nei camini di palazzo ducale, potrebbe essere la prova di uno stretto rapporto di collaborazione che sarebbe intercorso per molti anni tra i due artisti.
A un rilievo con S. Giorgio e il drago posto sopra il portale di accesso alla Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni, compiuto presumibilmente a seguito del contratto del marzo 1551, il G. fece seguire l'opera prestata per la decorazione della tomba dell'ammiraglio Alessandro Contarini (1555-58), posta a ridosso di uno dei pilastri della nave centrale della basilica di S. Antonio a Padova.
Il monumento, il cui progetto secondo Vasari spetterebbe a Michele Sanmicheli, presenta un ricchissimo apparato scultoreo, al compimento del quale presero parte anche Alessandro Vittoria e Agostino Zoppo. Il G., coinvolto con tutta la sua bottega, mise a disposizione di Vittoria un suo lavorante, tal Baldassarre, e realizzò la statua femminile sulla destra, firmata, la quale rappresenta una nereide, forse anche identificabile con la Venere marina o, secondo un'altra ipotesi, con Venere "Cypria", in quanto allegoria dell'isola devota alla dea e nota per essere uno dei maggiori possessi della Serenissima (Davis, p. 185). Insieme con l'altra statua femminile di mano di Vittoria posta simmetricamente a sinistra, nella quale si riconosce Tetide, moglie di Oceano, la figura allude inequivocabilmente al dominio di Venezia sulla terra e sui mari. L'opera del G., in particolare per l'equilibrato classicismo di base, dimostra una netta derivazione dai bronzi sansoviniani della loggetta di S. Marco. Con l'occasione di tale impresa, il G. dovette stabilire un fruttuoso e duraturo rapporto con lo stesso Vittoria. Infatti, i frequenti pagamenti al G. ricordati nelle note di Vittoria dimostrano come egli, insieme con i suoi aiuti, dovette impegnarsi non poco anche per rifinire le figure degli schiavi, posti sul basamento della sepoltura e firmati da Vittoria. Non solo, ma secondo un'ipotesi recente e molto plausibile (ibid., pp. 186 s.) il G. fu l'artefice della complessa decorazione a rilievo che ricopre le facce anteriori dei piedritti e dei due sarcofagi del monumento, in cui si nota una perizia non comune nella resa di motivi militari come scudi e armi, i quali denotano una formazione maturata in seno ai grandi cantieri veneziani diretti da Sansovino. La qualità dell'intaglio, nonché la capacità di lavorare una pietra particolarmente dura come quella detta di paragone, di cui sono costituite la lapide commemorativa e la piramide a gradoni, e, infine, i rimandi agli elementi presenti nel fregio dorico della fronte della Libreria Marciana, sono riscontri sostanziali per l'assegnazione al G. di tali ornati.
Nel 1557 il legame instauratosi con Vittoria fu causa di un'ulteriore partecipazione della bottega del G. alla finitura del camino sorretto da sculture, di mano dell'artista trentino, nel palazzo di Camillo Trevisan a Murano (opera perduta).
Da questi elementi si può dedurre che l'attività del G. nel settimo decennio dovette concentrarsi essenzialmente nella direzione di un'ampia bottega, alla quale collaboravano anche i suoi figli, i cui compiti principali erano l'assistenza fornita in lavori complessi ad artisti di primo piano come Vittoria, nonché la vendita di pietre per sculture e strutture ornamentali. Questo ci è confermato da una nota di Vittoria che, nel 1563, ricorda di aver acquistato, dalla vedova e dai figli del G., il blocco di pietra d'Istria per trarne il suo S. Sebastiano, oggi sull'altare Montefeltro in S. Francesco della Vigna.
Quindi sembrerebbe che, negli ultimi anni della sua vita, il G. solo occasionalmente si dedicasse a veri e propri lavori d'intaglio, preferendo curare la direzione della bottega e riservando il suo apporto diretto solo per commissioni particolarmente significative, come nel caso della tomba Contarini.
Ne è prova ulteriore un recente ritrovamento che testimonia l'abilità del G. anche come progettista (Finocchi Ghersi, 1999), quando, nel dicembre 1560, s'impegnò a erigere un altare in pietra d'Istria (opera perduta), ornato da due colonne in marmo rosso di Verona, per conto di Piero Alessandro Lippomano, nella chiesa di S. Girolamo a Venezia. La struttura, visibile nel disegno del progetto conservato al Museo Correr di Venezia, avrebbe poi fatto da cornice a una pala di Iacopo Tintoretto con la Trinità, di cui oggi resta solo un frammento conservato alla Galleria Sabauda di Torino. La tendenza del G. a esimersi da incarichi di tipo artigianale ben si rivela quando, nel contratto per l'erezione dell'altare Lippomano, declina ogni obbligo per la doratura e la pittura dell'insieme, ribadendo, di fatto, la sua professionalità nella scultura applicata all'architettura e anche nella progettazione di grandi manufatti lapidei.
Altri lavori, sempre a Venezia, in cui è stata ipotizzata la sua partecipazione sono il monumento di Vincenzo Cappello sulla facciata di S. Maria Formosa, compiuto insieme con il figlio Domenico, forse un camino in palazzo Cappello in fondamenta della Canonica, la statua del cosiddetto "Gobbo" in campo S. Giacomo a Rialto e i rilievi militari andati dispersi già nella cappella Lando in S. Antonio di Castello.
Il G. morì a Venezia tra il 22 dic. 1561, quando dettò il suo testamento, e il 1563, anno in cui sua moglie risulta essere vedova.
Il figlio del G., Domenico, di cui si ignorano le date di nascita e di morte, si formò nell'ambito dell'ampia bottega diretta dal padre, e fu una figura di un certo spessore intellettuale per essere ricordato con affetto da Leonardo Fioravanti. Partecipò attivamente per tre anni ai lavori per la finitura di una delle ultime imprese di Iacopo Sansovino, le due statue colossali di Marte e Nettuno, poste in cima alla scala, per l'appunto detta dei Giganti, in palazzo ducale a Venezia. La collaborazione di Domenico dovette aver luogo presumibilmente nei primi anni Sessanta, poiché le statue furono collocate al loro posto solo nel 1566. Dal processo intentato da Francesco Sansovino contro la procuratoria de supra per ottenere alcuni rimborsi delle spese affrontate dal padre Iacopo per le due sculture sappiamo che venne pagata a Domenico la somma di 180 ducati (Boucher, I, p. 138).
La stretta vicinanza di Domenico con la cerchia sansoviniana, con la quale dovette rimanere legato fino alla morte di Iacopo, è provata dalla paternità di un'opera che arricchisce il progetto per il portale della facciata sul rio della chiesa di S. Maria Formosa, eretto molto probabilmente su disegno di Sansovino intorno alla metà degli anni Sessanta. Si tratta della statua commemorativa dell'ammiraglio Vincenzo Cappello, morto nel 1541, posta alla sommità della struttura. Questa è formata da due colonne libere di ordine ionico, le quali sorreggono una trabeazione tripartita in cui il fregio pulvinato appare elegantemente ornato da foglie di palma che gli conferiscono l'aspetto di un cuscino vegetale rigonfio. Al di sopra poggia il basamento del sarcofago su cui si erge la statua dell'ammiraglio. Tanto il fregio che le conchiglie, la nave, i tridenti e i delfini scolpiti a rilievo in superficie denotano l'apporto di Domenico, che proprio questo genere di repertorio figurativo aveva avuto modo di apprendere nella bottega paterna. Nel progetto sansoviniano spicca la novità di far apparire il sarcofago come se fosse sovrapposto a una lastra terragna rialzata ai lati, analoga per forme alla celebre tomba di Sisto IV in Vaticano, opera di Antonio Benci detto il Pollaiolo. Domenico dovette eseguire i rilievi tuttora visibili con una certa autonomia all'interno di contorni prestabiliti da Iacopo, potendo anche caratterizzare con forza la figura statuaria: questa, infatti, appare indubbiamente impostata all'insegna di un modello classicista, ma le fattezze aspre del volto e il forte squadro delle sopracciglia rimandano puntualmente al fare scultoreo del padre, riscontrabile, per esempio, nei telamoni dei camini della sala della Bussola e in villa Garzoni. Nel suo insieme, il monumento è riconducibile al cenotafio di Tommaso Rangone inserito una decina d'anni prima nel progetto di Sansovino e Alessandro Vittoria per la chiesa di S. Zulian. Da questo si distingue soprattutto per la postura eretta di Vincenzo, consentita dal Consiglio dei dieci poiché si trattava di un personaggio ormai defunto.
Un'altra opera firmata da Domenico è la bella pala marmorea con la Natività e s. Giovanni Battista, posta sul secondo altare a sinistra nella chiesa di S. Giuseppe di Castello, sotto la quale si trova una predella lapidea con alcune navi a rilievo in ricordo della battaglia di Lepanto (1571), che quindi costituisce il termine post quem per l'intera opera.
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite… (1568), a cura di G. Milanesi, VII, Firenze 1881, p. 511; R. Predelli, Le memorie e le carte di Alessandro Vittoria, in Archivio trentino, XXIII (1908), 1, pp. 32 s.; G. Lorenzetti, Venezia e il suo estuario, Venezia 1926, p. 846; W. Wolters, in U. Franzoi - T. Pignatti - W. Wolters, Il palazzo ducale di Venezia, Treviso 1990, pp. 95, 106, 168, 171, 173; B. Boucher, The sculpture of Jacopo Sansovino, New Haven-London 1991, I, pp. 87, 136, 138, 150, 152 s., 265, 274, 276, 352 (per Domenico: pp. 99, 114, 138, 140, 148, 156, 263, 271, 273, 275); II, p. 352; C. Davis, Il monumento di Alessandro Contarini al Santo di Padova, in Michele Sanmicheli. Architettura, linguaggio e cultura artistica nel Cinquecento, a cura di H. Burns - C.L. Frommel - L. Puppi, Milano 1995, pp. 185-187, 309; M. Rossi, La poesia scolpita. Danese Cataneo nella Venezia del Cinquecento, Lucca 1995, pp. 64, 150 (per Domenico: p. 147); L. Finocchi Ghersi, Alessandro Vittoria. Architettura, scultura e decorazione nella Venezia del tardo Rinascimento, Udine 1998, pp. 11, 84, 87, 89, 114, 133; Id., Carpaccio, Tintoretto and the Lippomano family, in The Burlington Magazine, CXLI (1999), pp. 460 s.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIX, pp. 353 s. Per Domenico si veda inoltre: L. Fioravanti, Dellospecchio di scientia universale, Venetia 1572, c. 48r; M. Morresi, Jacopo Sansovino, Milano 2000, p. 263.