GRAVINA, Pietro
Nacque a Palermo tra il 1452 e il 1454 da famiglia illustre, probabilmente originaria di Gravina di Puglia trasferitasi in Sicilia intorno al 1406. Paolo Giovio, nella breve biografia che accompagna la prima edizione - postuma - della raccolta poetica del G., i Poematum libri, racconta che egli, spinto dalla curiosità di conoscere, "aliquandiu" viaggiò per l'Italia. Studiò retorica presso Aurelio Bienato, allievo di L. Valla e lettore di retorica a Napoli nel decennio 1470-80. Di questo magistero il G. ha lasciato ricordo nelle prefazioni a due ristampe cinquecentesche della principale opera del Bienato, gli In elegantiarum sex libros L. Vallaeepithomata (Venezia, M. Sessa, 1531). Tra il 1470 e il 1489 fu a Minturno e a Nola; nel 1479-80 insegnò a Palermo. Nel 1490 si trasferì a Roma: al principio della sua Oratio de Christi ad coelos ascensu, che pronunciò alla presenza del papa Alessandro VI il 16 maggio 1493, si legge che a quella data egli contava già tre anni di permanenza nell'Urbe.
Il G. si stabilì, probabilmente nel 1494, a Napoli, dove entrò a far parte dell'Accademia Pontaniana, e del Pontano divenne intimo amico. In una lettera indirizzata al Pontano nel 1498 per consolarlo della prematura scomparsa del figlioletto Lucio, Antonio De Ferrariis gli rammenta che agli antichi accademici se ne erano aggiunti di nuovi, legati al suo magistero destinato a lasciare una discendenza intellettuale durevole: tra costoro compare il nome del Gravina. Nell'ideale di humanitas antipedantesca e aperta a tutti gli aspetti della vita coltivata dagli accademici il G. trovò l'ambiente più adatto alla sua indole - per usare le parole di B. Croce - di "umanista gaudente"; della sua iocunditas parla anche Giovio, che tuttavia ne nota il legame "cum pondere sententiarum"; in un componimento in endecasillabi Pontano lo invita ad accompagnarlo ai bagni di Baia, promettendogli i vantaggi di una gita ricca di ogni piacere (Baiarum, II, 21). Nell'ambito dell'Accademia il G. ebbe modo di legarsi in rapporti di amicizia anche con Antonio Capece, Girolamo Carbone, Benet Gareth, Pomponio Gaurico, Iacopo Sannazaro. Con costoro condivise la frequentazione degli autori latini: Virgilio, gli elegiaci augustei, Marziale, Cicerone, Livio, Sallustio e Cesare, dei quali rimane ampia reminiscenza nei suoi versi, che raccolgono anche il modello greco (dall'Antologia Palatina tradusse un componimento e ne imitò altri due).
Il G. è ricordato come uomo mite, dall'ingegno straordinario, di bell'aspetto, amante degli sport ed elegante nel vestire. Apprezzava la buona tavola, anche se dei suoi quotidiani pasti frugali, sul finire della vita, fece ragione della sana vecchiaia. Attorno a lui si raccolsero diversi giovani. Certamente suo allievo fu Fabrizio Luna, autore del primo vocabolario italiano (Vocabulario di cinque mila vocabuli toschi…, Napoli, G. Sultzbach 1536), che nel Sylvarum, elegiarum et epigrammatum libellus (ibid., M. Cancer, 1534) tesse le lodi del maestro; allievo del G. fu anche Giovanni Francesco Di Capua, conte di Palena e principe di Conca, sotto la cui protezione il G. trascorse l'ultima parte della vita.
La stima e l'apprezzamento delle sue opere valsero al G. la carica di canonico del duomo di Napoli per iniziativa del viceré Consalvo di Cordova. Canonico del duomo sarebbe divenuto a sua volta il figlio Tranquillo, nato nello scorcio del XV secolo o agli inizi del XVI, che il G. spronò agli studi in un'epistola non datata: "facile tu Gravina iunior superabis seniorem" (Poematum libri, p. 97).
Alla partenza di Consalvo per la Spagna, nel giugno 1507, il G. fu accolto in casa di Prospero Colonna, condottiero al soldo del re Federico d'Aragona, passato poi agli ordini del Cordova. Circondato dall'affetto anche del figlio di Prospero, Vespasiano, per il quale compose un epigramma, il G. trascorse un periodo di dedizione alla poesia. Probabilmente a seguito della morte di Prospero (1523) passò presso Giovanni Francesco Di Capua. Entrò inoltre in contatto con Pedro Navarro, cui dedicò versi elogiativi.
Il G. era solito trascorrere brevi periodi fuori Napoli: a Genazzano, da cui provengono alcune epistole datate 1524, e a Sorrento - città molto amata, dipinta nell'elegante elegia De Surrenti amoenitate -, da dove invia alcune lettere nel 1525. Di rilievo è, tuttavia, solo il secondo soggiorno romano, che ebbe luogo tra il 1518 e il 1520. In una lettera del dicembre 1518 indirizzata al figlio Tranquillo, il G., che si descrive ironicamente "edentulus", gli confida di apprezzare Roma non meno di quanto ricorda di aver fatto "olim bene dentatus" (Poematum libri, p. 67). Durante questo soggiorno incontrò papa Leone X (dedicatario, peraltro, di alcuni componimenti del G.), ma l'epistola non fa menzione dell'oggetto del colloquio. Venne in contatto anche con Paolo Cortesi e con altri accademici romani: in una lettera in risposta a Girolamo Scannapeco composta tra il 1534 e il 1535, Giovio ricorda di averlo incontrato in una riunione del cenacolo romano quindici anni prima. Dalla lettera emergono alcuni tratti della sua personalità: per difendersi dall'accusa di avere enfatizzato nella biografia l'inclinazione del G. all'elogio indiscriminato, Giovio si arma di un tono vivacemente polemico e richiama alla memoria del corrispondente la testimonianza addirittura del Sannazaro. Dalla lettera si apprende inoltre che il G., nonché apprezzare il bere, disprezzava le donne per amare giovanetti e discepoli in tenera età. Si trastullava nel pettegolezzo e si abbandonava a quell'ozio che gli avrebbe impedito di portare a compimento l'opera dal titolo Consalvia.
Nel settembre 1526 la peste dilagava in tutta Napoli: il G. si lasciò convincere dal conte di Palena a trasferirsi nella sua tenuta di Muronia, l'attuale Castel Morrone, in provincia di Caserta.
Il G. morì probabilmente nel 1528 o l'anno successivo. Sono datate 1528 le sue ultime lettere: in una il G. descrive l'invasione dell'esercito francese capitanato da Odet de Foix visconte di Lautrec; nell'altra compiange la morte di Vespasiano Colonna, avvenuta il 13 marzo di quell'anno.
Circa le cause della morte, Giovio, seguito da una lunga tradizione, racconta che nella tenuta del conte di Palena, il G., ormai anziano ma ancora in ottima salute, durante una passeggiata incappò accidentalmente in un riccio di castagna, procurandosi una lieve escoriazione, degenerata in seguito al continuo sfregamento, in infezione letale. Secondo Giovanni Pietro Dalle Fosse (Valeriano) e Antonio Minturno, invece, il G. sarebbe morto di peste.
Delle opere del G. ci resta solo una minima parte, forse - se dobbiamo accogliere quanto afferma Giovio - a seguito dell'indiscriminata distruzione operata dai soldati imperiali e per iniziativa dello stesso G., che, pentitosi poco dopo del gesto, chiese al Capece di aiutarlo a radunare i componimenti sparsi presso gli amici.
Fu autore quasi esclusivamente latino: si hanno notizie incerte di una sua produzione volgare, forse ridotta all'unico sonetto preposto all'edizione degli Amori di G.F. Caracciolo (Napoli 1506). In vita pubblicò solo l'Oratio de Christi ad coelos ascensu (Romae, S. Plannck, 1493): essa ricalca il modello dell'oratoria epidittica, che aveva sostituito nel corso del Quattrocento l'oratoria medievale di impianto argomentativo. Il G. vi ripercorre la dottrina dei misteri e, rivolgendosi a papa Alessandro VI, auspica una rinascita del messaggio salvifico e una rinnovata concordia universale.
I Neapolitani poematum libri ad illustrem Ioannem Franciscum de Capua Palenensium comitem furono stampati a Napoli da G. Sultzbach nel 1532 per iniziativa di Scipione Capece. La raccolta è suddivisa in una prima parte, la più consistente, di epigrammi; seguono quattro Silvae di matrice staziana, quattro elegie e, infine, l'incompiuto poema epico Consalvia, dedicato a Consalvo di Cordova, di cui restano il primo libro (nella stampa erroneamente indicato come terzo) e parte del secondo. Come destinatari degli epigrammi troviamo i personaggi napoletani e romani conosciuti dal G.: Prospero Colonna, il cardinale Pompeo Colonna, Traiano Caracciolo, papa Leone X, Agostino Nifo, Isabella d'Aragona, il Sannazaro ecc. Prevale il genere encomiastico, ma si contano epitalami, epigrammi funebri e svariati altri componimenti d'occasione (sulle battute di caccia di Prospero, per la giovane Caterina Montice morta di parto, per un bambino addormentato. Una scelta di epigrammi e di elegie è in Antologia poetica di umanisti meridionali, a cura di A. Altamura - F. Sbordone - E. Servidio, Napoli 1975, pp. 167-177). Alcuni componimenti affrontano, secondo la moda del tempo, temi erotici. I panegirici delle vittorie di Prospero Colonna si animano di un fervore politico che altrove, come nel componimento Parenetice ad Italiam, diventa il tema principale: qui l'autore, facendo appello all'antica virtù, esorta l'Italia a difendersi dai Turchi.
Le Epistolae, con dedica al conte Giovanni Francesco Di Capua, elogiate dal Sannazaro e dal Pontano, benché probabilmente destinate alla pubblicazione furono date alle stampe solo molto dopo la morte del G. (Epistolae atque orationes, Napoli, G. Cacchi, 1589). Ai racconti divertiti ed eleganti della vita quotidiana e ai consigli affettuosi agli amici più cari si alternano, in uno stile piano di matrice ciceroniana, gli encomi destinati a personalità ragguardevoli, appartenenti soprattutto all'ambiente ecclesiastico, con cui il G. mostra di avere confidenza. In particolare, si rivolge al cardinale Egidio da Viterbo che, nel 1513, gli invia una lettera, deplorando la sua assenza al concilio Lateranense come addirittura perniciosa per l'eloquenza. Le lettere al figlio Tranquillo hanno non di rado carattere pedagogico. Nell'elogio funebre di Isabella d'Aragona, duchessa di Milano (1524), che non venne letto pubblicamente, la calda rievocazione della personalità della donna si accompagna all'esaltazione delle imprese del casato aragonese. Mai pubblicati sono i Commentaria in Somnium Scipionis, opera della quale il G. stesso chiede copia, in un'epistola a Tranquillo; mentre di una versione in rima di alcuni passi della ciceroniana Actio tertia in Verrem ci informa un'altra lettera al figlio, precisandone lo stato progettuale. Infine, l'opera tradita con il titolo Lucubratio Surrentina, di cui parla in un'altra lettera a Tranquillo, corrisponderebbe all'elegia De Surrenti amoenitate.
Di altre opere, sparse e frammentarie, dà notizia Minieri Riccio (pp. 119-123). L'Epistolario è edito in italiano per cura di A. Della Rocca, Napoli 1992.
Fonti e Bibl.: A. Minturno, De poeta, Venetiis 1559, p. 434; G.P. Delle Fosse, De literatorum infelicitate, I, Venetiis 1620, p. 19; P. Giovio, Lettere, a cura di G.G. Ferrero, I, Roma 1956, pp. 174-179; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, II, Panormi 1714, pp. 140-142; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, I, 6, Modena 1776, p. 85; V. Auria, Teatro degli uomini letterati di Palermo, in Nuove Effemeridi siciliane, I (1875), pp. 272-280; E. Percopo, Nuovi documenti sugli scrittori e gli artisti dei tempi aragonesi, in Arch. stor. per le provincie napoletane, XIX (1894), pp. 584-591; G. Verro, P. G. e le sue opere. Umanista siciliano del sec. XVI, Corleone 1898; G. Cagnone, P. G. umanista del sec. XVI, Catania 1901; E. Gothein, Il Rinascimento nell'Italia meridionale, Firenze 1915, p. 262; F. Lo Parco, Un epigramma in lode di Vittoria Colonna, in Fanfulla della domenica, 20 febbr. 1916; P. Verrua, Umanisti ed altri "studiosi viri" italiani e stranieri di qua e di là dalle Alpi e dal mare, Genève 1924, p. 19; B. Croce, Un umanista gaudente, in Id., Uomini e cose della vecchia Italia, I, Bari 1927, pp. 13-26; J. Hutton, The Greek anthology in Italy, to the year 1800, Ithaca, NY, 1935, pp. 143 s.; A. Altamura, L'umanesimo nel Mezzogiorno d'Italia, Firenze 1941, pp. 88, 190; C. Minieri Riccio, Biografie degli accademici alfonsini, detti poi pontaniani. Dal 1442 al 1543, Bologna 1969, pp. 119-123; J.W. O'Malley, Praise and blame in Renaissance Rome. Rhetoric, doctrine and reform in the sacred orators of the papal court, c. 1450-1521, Durham, NC, 1979, pp. 66, 94, 152, 163 n.; M. Santagata, La lirica aragonese. Studi sulla poesia napoletana del secondo Quattrocento, Padova 1979, pp. 44-46, 56; D. Del Corno Branca, Da Poliziano a Serafino, in Miscellanea di studi in onore di V. Branca, III, Firenze 1983, p. 434.