Giordani, Pietro
Il G. (Piacenza 1774 - Parma 1848) va ricordato nella storia della fortuna dantesca dell'Ottocento, sia per l'influsso che esercitò sul gusto degli uomini della sua generazione e lo stimolo che ne venne direttamente o indirettamente al culto e all'intelligenza di D., sia per le considerazioni critiche, non di rado persuasive e penetranti, sparse nei suoi scritti, principalmente nelle lettere. Sono giudizi e impressioni per lo più occasionali, che rivelano una schietta reazione di lettore e di uomo, tanto più validi delle poche pagine dantesche che si leggono in scritti di più studiata architettura, come il Panegirico ad Antonio Canova (1810) o la conferenza Meriti di D. sulla musica (1811) o il discorso Delle sculture ne' sepolcri (1813), ove l'impegno retorico predominante soffoca il pensiero.
Non diversamente dai suoi contemporanei, il G. condanna l'atteggiamento settecentesco nei confronti di D., senza comprendere le ragioni di cultura e di gusto che lo condizionarono (lettera a V. Dodici, del 1825). Ai detrattori settecenteschi accomuna quanti, allo scopo di farne bandire lo studio da parte dei governi conservatori, insinuano che al pensiero e agl'ideali del poeta possano ispirarsi oscure sette politiche. La passione dantesca del G. sembra dettata da un amor patrio sincero, ma generico e letterario: la Commedia, egli dice, è il poema che ogni Italiano dovrebbe conoscere a memoria, il libro " che incuora tanto amore verso la madre Italia, e santissimo sdegno contra gli estranei e contra gl'interni suoi nemici " (Elogio funebre al conte Pompeo Dal Toso, 1819). D. gli appare poeta nazionale, in quanto la Commedia è " un tesoro di sapienza civile " per gl'Italiani, come lo sono l'Iliade e l'Odissea per i Greci; nessun altro poeta può essere definito nazionale, se non dando un significato approssimativo a questo epiteto (al marchese di Montrone, 24 sett. 1806).
L'accostamento di D. a Omero s'incontra anche a proposito della struttura narrativa e dello stile, sul quale più volte si sofferma il G.: molti poeti di varie nazioni hanno seguito l'Iliade, mentre può dirsi che solo D. abbia seguito l'Odissea: se il suo viaggio si svolge in un mondo puramente immaginario, in questo mondo " il nostro è variamente ripetuto " (allo stesso, 4 febbraio 1808). Omero e D. sono i soli poeti capaci di rendere compiutamente i particolari: capacità, a dir del G., propria dei sommi; in questa attitudine D. riesce superiore all'antico per una maggiore forza di sintesi: " Danteggiando tu puoi con un volume la metà o da un terzo meno dell'Odissea dire di gran cose " (allo stesso, 20 marzo 1808). Felice è la pagina in cui, discorrendo dello stile di G. Maffei, che " volle somigliare al niente virgiliano Dante ", il G. distingue la poesia dantesca, che aderisce, nella svariata gamma dei toni, alle diverse situazioni, obliandosi il poeta nelle cose; e la poesia virgiliana, che non lascia il lettore mai del tutto intento alle cose, attirando non poca dell'attenzione sul poeta: in questa differenza scorge un segno della superiorità del moderno sull'antico. Altra volta osserva che lo stile perfetto dovrebbe avere geometria, pittura e musica: " In Omero e Dante prevale la pittura: pittura distesa in Omero, di scorcio in Dante. Eminente in Virgilio la musica: né quasi altro si sente in Petrarca " (Storia dello spirito pubblico in Italia per seicento anni, considerato nelle vicende della lingua, 1811). Nessuno, scrive a L. Cicognara (lettera del 4 gennaio 1812), fu in poesia " sommo e meraviglioso dipintore " come D., che " espresse mille invenzioni nuove, e tutti quanti mai gli effetti de' quali è capace l'umana fantasia ". In questa attitudine del suo ingegno va ricercata la grandezza della Commedia e non nella concezione religiosa, che è l'ostacolo con cui lotta e vince l'ingegno sovrano. Nel Guerrin Meschino troviamo " assai più che abbozzato l'inferno dantesco ": " gli stessi giri, le stesse pene alle medesime cagion di peccati ". Ma se D. prese " da quel veramente meschino romanzo " la sua invenzione, seppe trasformare " quelle scempiaggini " in " cosa divina " (al cav. Giusti, 1808). Lo spirito laico, l'eredità illuministica, il rifiuto dello storicismo romantico sono alla base del giudizio sulla terza cantica della Commedia, per la quale il G. non ha una pregiudiziale avversione. La sua condanna non è della poesia del Paradiso, ma delle disquisizioni dottrinarie che soffocano ampiamente quella poesia e sono il tributo pagato a tempi barbari dominati da una concezione teologica dell'universo. Anzi nel Paradiso gli sembra che l'ingegno e l'arte di D. s'innalzino più che nelle altre cantiche: se la poesia " non d'altro può farsi che d'immagini e d'affetti ", D. deve avere compiuto uno sforzo grande per introdurre sentimenti umani e memorie della terra in un regno chiuso nella sua astratta trascendenza; ma questo sforzo non è riuscito a vincere se non parzialmente la materia riottosa: " quei beati sono perpetui disputatori d'inconcepibili sottigliezze, che né intender si possono né parlarsi " (al marchese di Montrone, 2 maggio 1807). L'intuizione centrale del G., colta bene dal Gioberti in una pagina del Rinnovamento, è che la poesia di D. si realizzi, " non ostante il teologico del suo barbaro secolo ", in proporzione alla capacità di assorbire nell'oltremondo la terra con le sue passioni. In un abbozzo del 1828, Pensieri per uno scritto Sopra a D., è rinnovata ancora una volta la polemica contro la teologia versificata che soffoca il Paradiso: non si tratta solo di un'insistenza ispirata dalla vena laicista del G., ma anche della reazione di un gusto che nel pensiero vede la morte della fantasia e rifiuta pregiudizialmente la poesia delle idee. D. " avrebbe potuto in Paradiso fare che i santi rimemorassero quelle virtù ed opere virtuose che variamente a loro meritarono l'eterno premio ": non solo ne avrebbe guadagnato sul piano estetico, ma anche su quello della coerenza morale con la prima cantica, conciliando l'esaltazione del merito alla pratica della virtù, come la dipintura del castigo aveva suscitato l'orrore del vizio. Per quanto riguarda la fede religiosa del poeta, il G. non ha il minimo dubbio che s'inscriva nella più scrupolosa ortodossia cattolica; di questa tesi si fa sostenitore in decisa opposizione al Foscolo: D. " non sognò mai di avere avuto in Paradiso da San Pietro non so quale consagrazione di vescovo, e missione di riformare il cristianesimo ". Il D. riformatore della disciplina, dei riti, dei dogmi della Chiesa papale, che si accampa nel Discorso sul testo della Commedia, gli appare un mero parto di fantasia (Delle finali e meno palesi intenzioni di alcuni poemi, 1838).
Si possono tralasciare come scarsamente significative altre pagine del G. in cui compare il nome di D., come quella dove si discute della variante " sugger dette " da preferirsi a " succedette " (If V 59) o quelle in cui, sotto lo stimolo di un'entusiastica adesione al gusto contemporaneo, D. viene accomunato al Monti o al Canova; né particolarmente bella è l'epigrafe dettata per una statua del poeta. Ma non va dimenticato il brano di una bella lettera del 1807, in cui il G. con parole semplici ed efficaci esprime l'effetto prodotto sul suo animo da una rilettura del Purgatorio, considerato il vertice della poesia di D., anzi della poesia.
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