GIOIA, Pietro
GIOIA (Gioja), Pietro. -Nacque a Piacenza il 22 ott. 1795 da Lodovico, "uno dei negozianti più distinti" della città (Gioia, p. 5), e da Annunciata Arata. Nipote del celebre Melchiorre, crebbe in una famiglia in cui il peso della religiosità materna, quantunque forte, non lo fu tanto da indurlo a prendere l'abito talare, come invece era avvenuto con i suoi quattro fratelli: iscrittosi all'Università di Parma, il G. vi si laureò in giurisprudenza il 28 ag. 1817, avviandosi dopo un periodo di tirocinio alla professione legale e occupando a partire dal 1818 il posto di segretario della Camera di commercio piacentina a fianco del padre che la presiedette tra il 1817 e il 1848.
Malgrado si fosse rapidamente imposto come avvocato, anche in virtù di un'eloquenza forbita e dello stile classico delle sue arringhe, il G. uscì presto dai limiti della professione, spinto dalla sua stessa formazione e dalla tradizione familiare a interessarsi di problemi economici nella chiave filantropica e associazionistica con cui il romanticismo lombardo si era riallacciato al riformismo settecentesco piegandone la generica ricerca del benessere a un progetto di recupero anche morale delle componenti più deboli della società. Amico di P. Giordani, il G. fu da lui coinvolto in un'iniziativa per la diffusione della lettura tra quanti avrebbero avuto difficoltà a tenersi al corrente di ciò che si pubblicava nel resto d'Italia e più ancora fuori di essa.
Nacque così nel 1820 la Società di lettura che, rifuggendo volutamente dalla tradizione accademica ed erudita, portava a Piacenza, grazie soprattutto agli sforzi finanziari e all'impegno civile di un centinaio di soci, periodici e pubblicazioni italiane e straniere spazianti dal campo economico a quello scientifico e al letterario, con la sola pretesa di aiutare i lettori a "raccogliere le cognizioni praticamente utili" (Gioia, Discorsi e scritti letterari, p. 37) e così mettere in moto, sull'esempio della vicina Lombardia, il meccanismo dello sviluppo produttivo. Non a caso sempre nel 1820 il G., d'accordo con altri facoltosi cittadini, riprendeva e rilanciava attraverso la Camera di commercio il già esistente progetto di una Sala di lavoro (o d'industria) intesa a sostenere piccole attività imprenditoriali, soprattutto artigianali, e a creare occasioni di lavoro per i poveri con l'intento caratteristico di "preservarli dai vizi e dall'infingardaggine che sogliono accompagnare l'indigenza" (P. G. (1795-1865), p. 58).
Tutto questo fervore si bloccò improvvisamente nel 1822 allorché, arrestato nell'aprile e accusato di "carboneria e comunismo" per una presunta affiliazione alla società segreta dei sublimi maestri perfetti, il G. fu rinchiuso in carcere per nove mesi. Fu poi prosciolto per insufficienza di prove e rimesso in libertà, ma portò a lungo dentro di sé i segni dell'esperienza patita, pur essendone uscito con la coscienza di avere ammesso solo "alcune circostanze minori, onde potere più efficacemente negare le essenziali" (Castelli, I, p. 26): il che gli dava tranquillità ancora nel 1848, quando, fatto oggetto di una campagna di stampa per opera di un foglio della Sinistra piemontese, si difendeva rivendicando a sé il merito di non aver detto nulla agli inquirenti su una cospirazione che a ridosso dei moti del 1821 lo aveva già visto puntare le sue speranze su un assorbimento del Ducato parmense in una nuova compagine statale comprendente tutto il settentrione della penisola. Tornato in libertà, il G. lasciò cadere l'idea della Sala di lavoro - l'avrebbe ripresa nel 1836 - per concentrarsi tutto nella professione legale e per dedicare le energie restanti alla Sala di lettura, del cui fiorente sviluppo dava poi conto all'assemblea annuale dei soci con la precisione contabile dell'uomo di legge ma anche con l'orgoglio di chi vedeva così realizzata con le sole forze dei privati, e non senza sospetti da parte delle autorità ducali, un'opera pensata per la collettività (il testo di quattro sue lunghe relazioni per gli anni 1824, 1825, 1827 e 1830 sarebbe poi stato inserito dal figlio nella raccolta dei suoi Discorsi escritti letterari).
Mentre il clima politico si calmava e nel Ducato come nel resto dell'area padana si aveva un inizio di sviluppo economico, il G., rifacendosi ai principî pedagogici di F. Aporti, avviava l'esperimento degli asili d'infanzia. Lo ispirava ancora una volta il criterio dell'utilità sociale, che individuava non solo nell'elevazione intellettuale dei fanciulli poveri ma anche nella diminuita mortalità infantile dei piccoli ospiti degli asili (tra il 1841 e il 1845 il gruppo di benefattori che faceva capo al G. ne aprì tre) e nell'incoraggiamento che i genitori di bimbi esposti ne avrebbero avuto per un eventuale riconoscimento di paternità.
Arrivata presto a contare 700 sottoscrittori, la Società degli asili si reggeva su lasciti, donazioni, lotterie, proventi di spettacoli di beneficenza e di vendite di Strenne; stando inoltre alle relazioni del G. per gli anni 1842, 1843 e 1845, essa chiuse sempre in attivo i bilanci, riscuotendo ampio consenso presso la popolazione per l'estrema cura professionale con cui era selezionato il personale docente e per la praticità degli insegnamenti impartiti, un elemento, questo, non privo di inflessioni ideologiche in quanto connesso nel G. al rifiuto dell'astratto egualitarismo di chiunque avesse preteso con la scuola di "ispegnere le distinzioni sociali e sollevare il popolo a speranze e ambizioni inusitate" (Discorsi e scritti letterari, p. 220). Giudicato variamente dalla storiografia come espressione di conservatorismo estremo (Viglio) o come esempio sia pure episodico di aperture verso le teorie socialiste (Timpanaro), l'impegno pedagogico faceva del G. un uomo attestato costantemente sulla linea di demarcazione tra passato e presente, tra tradizione e modernità, tra anticlericalismo e opportunismo religioso: a volte retore nostalgico, a volte personaggio proiettato verso l'innovazione (la stessa nascita degli asili per lui non si intendeva se non come premessa alla fondazione di una Cassa di risparmio, obiettivo che conseguì nel 1846), egli esprimeva la ricerca del nuovo attraverso uno spirito borghese che non temeva il cambiamento ma cercava di piegarlo alle proprie vedute, privilegiando su ogni altra considerazione il tema dell'indipendenza nazionale.
In politica ciò significava adesione a una soluzione monarchica moderata a guida piemontese. Su questa via l'ostacolo era costituito non dal governo ducale ma dall'Austria: perciò, quando fu chiamato a far parte della reggenza creata per gestire il potere dopo l'insurrezione piacentina del 20 marzo 1848, se ne distaccò dopo pochi giorni, avendo constatato che il Ducato non era pronto per una politica nazionale. Fu messo alla testa di un governo provvisorio che condusse Piacenza a un plebiscito che la separava da Parma e preparava l'atto di dedizione del 10 maggio a Carlo Alberto.
Il trasferimento a Torino (con la moglie Maria Sacchini e con gli otto figli che da lei aveva avuto) aprì al G. le porte della politica subalpina: eletto tre volte alla Camera tra il giugno del 1848 e il dicembre del 1849 in rappresentanza di vari collegi (Piacenza 1°, Bardi, Alassio e Staglieno), il 29 luglio 1848 ebbe la prima esperienza governativa come guardasigilli nel ministero Casati, dimissionario già il 17 agosto; a dicembre, in occasione della crisi aperta dalle dimissioni del governo Perrone, non ebbe successo l'incarico che il re gli aveva conferito per la creazione di un gabinetto di conciliazione con la Sinistra: nella circostanza il conte C. di Cavour, dal quale in passato era stato invitato a inviare corrispondenze al Risorgimento, scrisse che il tentativo era fallito "car Gioia n'est pas homme à transiger avec les idées exagérées" (Epistolario, V, p. 374). Mentre era fatto oggetto di attacchi da parte dei democratici che ne denunziavano le presunte, e probabilmente inesistenti, collusioni con i gesuiti e mentre da Parma gli si notificava un ordine di espulsione dal Ducato (14 maggio 1849), il G. otteneva, in forza della competenza nel campo del diritto ma anche come premio per il suo piemontesismo, altri importanti riconoscimenti con la nomina a consigliere di Stato (luglio 1849) e a membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione (ottobre 1849). Infine un decreto del 22 marzo 1850 lo nominava senatore. Pochi mesi dopo la sua carriera politica toccava il punto più alto con la designazione a ministro della Pubblica Istruzione nel governo Azeglio (10 nov. 1850).
Lo aveva indicato il Cavour, che lo conosceva come elemento di sicura fede laica e che aveva posto come condizione per il proprio ingresso al governo il licenziamento del predecessore del G., il conservatore C. Mameli. In effetti l'avvocato piacentino appariva solidissimo nelle sue certezze di liberale, tra le quali primeggiava, come aveva dimostrato la rigida posizione statalista da lui presa nel dibattito sulle prime leggi Siccardi con il discorso del 6 apr. 1850, l'idea della netta separazione tra Chiesa e Stato (e della preminenza del potere civile) in tutto ciò che non rientrava nella sfera del trascendente. Nella sua veste di ministro il G. si rivelò anche più perentorio, tanto da trovarsi presto in conflitto con il Cavour e con gli altri colleghi per la risolutezza con cui, discutendosi di libertà d'insegnamento, respinse ogni ipotesi di mediazione con la Chiesa e difese il diritto di controllo che lo Stato doveva mantenere nei seminari e nelle scuole di teologia da esso sovvenzionati. Resosi impopolare anche per essersi opposto alle richieste di aumento salariale dei maestri e al progetto che voleva dotarli di una cassa pensione e sussidi, il 17 ott. 1851 il G. si dimise e in una lettera confidenziale dello stesso giorno a M. d'Azeglio attribuì l'origine del suo abbandono a un non meglio specificato "puntiglio individuale". Di recente è stata prospettata l'ipotesi di una decisione presa per le polemiche provocate dal suo avallo alla censura pontificia nei confronti di un trattato di diritto canonico d'indirizzo giurisdizionalista da poco pubblicato in Piemonte.
Tornato allora alla professione forense e alle mediazioni di affari per conto di banchieri, il G. conservò della precedente attività pubblica le funzioni rivestite nelle istituzioni consultive e nelle commissioni parlamentari. La battaglia combattuta da ministro per il conferimento di una cattedra di diritto internazionale al napoletano P.S. Mancini doveva averlo avvicinato alla Sinistra se il 14 luglio 1852 poté essere eletto al Consiglio comunale di Torino in una lista presentata dalla Gazzetta del popolo: ma in verità il G. non era uomo di partito, politicamente era un isolato, e la sua restante vita parlamentare lo confermò, così come la partecipazione al Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, dove sedette dal 29 genn. 1858 al 7 luglio 1860, ne ribadì la fermezza dei principî in materia di sovranità dello Stato. La medesima coerenza aveva sorretto i suoi interventi in Senato, quando il 17 dic. 1852 aveva parlato in favore del matrimonio civile o quando il 25 apr. 1855, con un discorso che un uomo della Sinistra estrema aveva giudicato "ricco di filosofici pensieri, ornato e bellissimo" (Asproni, I, p. 178), aveva appoggiato il progetto di legge presentato da U. Rattazzi in materia di conventi e istituti religiosi. In fondo anche l'ultimo discorso del G., pronunziato il 5 dic. 1864 per combattere la convenzione di settembre, nel condannare la subordinazione del governo italiano a una decisione presa a Parigi e nel difendere i diritti di Torino, era sorretto dalla linearità con cui egli aveva sempre guardato al ruolo egemone del Piemonte.
Il G. morì a Torino il 17 luglio 1865 dopo aver ricevuto i conforti religiosi; tre giorni dopo fu sepolto nel cimitero della città natale.
Scritti minori del G.: nella raccolta dei suoi Discorsi e scritti letterari curata dal figlio (Piacenza 1879; nuova ed., ibid. 1911) non furono compresi alcuni contributi alla Strenna piacentina a benefizio degli asili d'infanzia: per quella del 1842 Del valore plateale corrente delle monete; per quella del 1844 Se convenga o no accrescere il dazio di certi tessuti forestieri.
Fonti e Bibl.: Lettere del G. o a lui dirette, conservate nel Museo del Risorgimento di Milano o nella Biblioteca Laurenziana di Firenze (le lettere di P. Giordani, edite nell'opuscolo Nozze Borghese Monghini - Serena, Piacenza 1879), sono state in parte utilizzate o pubblicate nei lavori su di lui (quella a M. d'Azeglio citata sopra è consultabile nell'Archivio del Museo centr. del Risorgimento di Roma, b. 562/43): particolarmente ricchi sotto tale aspetto sono S. Fermi - F. Picco, L'opera di P. G. per Piacenza e per l'Italia, Piacenza 1920, e il volume dedicatogli per il centenario della morte, P. G. (1795-1865), Piacenza 1965, con saggi di S. Maggi, G. Berti, G.S. Manfredi, E. Nasalli Rocca, D. Rabitti, G. Forlini, C. Sforza Fogliani e con un'ampia rassegna bibliografica curata da E. Nasalli Rocca. Integrazioni sono possibili con alcune fonti: M. Castelli, Carteggio, a cura di L. Chiala, I, Torino 1890, ad indicem; G. Asproni, Diario politico, 1855-1876, I, Milano 1978, ad indicem; C. Cavour, Epistolario, a cura di C. Pischedda et al., V-IX e XI, Firenze 1980-86, ad indices. Sul piano storiografico offrono approfondimenti: A. Gambaro, La celebrazione centenaria di P. G., in Boll. storico-bibliografico subalpino, LXIV (1966), pp. 275-278; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, Bari 1977, ad indicem; R. Schippisi, Un'istituzione giordaniana: il Gabinetto di lettura di Piacenza, in Cultura piacentina tra Sette e Novecento. Studi in onore di G. Forlini, Piacenza 1978, pp. 129-144; P. Viglio, La nascita degli asili infantili a Piacenza, in Boll. stor. piacentino, LXXIV (1979), pp. 107-134; S. Timpanaro, P. G., Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846, ibid., LXXV (1981), pp. 1-31 (poi in Id., Nuovi studi sul nostro Ottocento, Pisa 1995, pp. 69-101); G. Ciampi, Il governo della scuola. Il Consiglio superiore della Pubblica istruzione…, Milano 1983, ad indicem; A. Appari, P. G., in Il Parlamento ital., 1861-1988, I, Milano 1988, p. 300; S. Polenghi, La politica universitaria italiana nell'età della Destra storica, 1848-1876, Brescia 1993, ad indicem; Diz. del Risorgimento nazionale, III, sub voce.