RUBINO, Pietro Giacomo
– Nacque a Dervio il 22 giugno 1644, quartogenito di Giacomo, discendente da una famiglia originaria di Bellano, sul lago di Como, e di Pentasilea Airoldi.
I suoi avi paterni, dediti al commercio con i territori dell’area tedesca, avevano fatto fortuna già nella prima metà del XVI secolo: Antonio, discendente dal capostipite Maffeo, era definito molto ricco nel 1556, mentre a suo nipote Giacomo, nato nel 1607 da Taddeo e da Caterina Silvetti, padre di Pietro Giacomo, si ascrive l’aver compiuto il primo salto di qualità grazie all’inserimento nell’amministrazione pubblica milanese in qualità di cassiere nella Tesoreria generale e al matrimonio con una donna appartenente a una famiglia ricca e in ascesa, Pentasilea Airoldi appunto, sorella del ricco banchiere Marcellino; questi nel 1647 acquistò il feudo di Lecco, su cui nel 1649 fu appoggiato il titolo di conte. Ma i vantaggi del matrimonio non si fermarono qui, perché, sempre nel 1649, un altro fratello di Pentasilea, Cesare, acquistò la ‘futura’ di tesoriere generale.
Dopo avere intrapreso gli studi giuridici, Rubino seguì le orme dei parenti materni e, approfittando della venalità degli uffici, il 23 novembre 1689 entrò come soprannumerario nell’ufficio di avvocato fiscale, ovvero acquistò la futura successione all’incarico senza percepire salario ed emolumenti. Da quel momento la sua carriera ebbe una rapida ascesa: nel luglio del 1694, alla morte del marchese Antonio Maria Erba, divenne senatore. Come è noto il Senato fu solo marginalmente toccato dalla venalità, che ebbe invece particolare applicazione nei magistrati delle Entrate e nell’Avvocatura fiscale, tuttavia il caso di Rubino conferma che l’acquisto di una carica in queste magistrature rendeva più semplice per chi apparteneva a famiglie nuove ottenere visibilità tale da esser preso in considerazione per l’ambito posto di senatore.
Durante gli anni del suo servizio presso il tribunale milanese, Rubino proseguì l’attività, già avviata dal padre, di ampliamento del patrimonio fondiario familiare: nel 1695 rogò presso il notaio Pietro Francesco Avogadro l’acquisto di alcune terre situate nel territorio di Saronno precedentemente appartenute ad Anselmo Visconti, ma già nel 1693, nello stesso comprensorio, aveva acquistato beni dai fratelli conti Bartolomeo e Geronimo Rossi, proprietari a Saronno, Ceriano e Solaro; nel 1696 fece altri acquisti nel territorio di Gerenzano, pieve di Appiano.
Il prestigioso seggio di senatore costituiva per molti un vero e proprio punto di arrivo, ma Rubino l’occupò per meno di due anni in quanto nel giugno del 1696 giunse per lui la nomina al grado di reggente nel Supremo Consejo de Italia a Madrid. Si trattava di un premio di altissimo valore in quanto diventare reggente costituiva per un individuo proveniente da uno dei Reynos o dei territori provinciali il massimo onore, la possibilità di rappresentare gli interessi della patria e di mediare con la corte.
Va ricordato che questo incarico per tradizione era stato quasi sempre attribuito a membri del patriziato e, se si considera che Rubino non era ancora pervenuto al titolo nobiliare, si può comprendere cosa potesse costituire per lui una simile nomina e quale intrico di risentimenti e invidie potesse generare tra i suoi concittadini. Infatti, sebbene dal 1675 questo ufficio fosse stato assegnato anche a personaggi ‘nuovi’ come Luca Pertusati, i Clerici, padre e figlio – prima Carlo (1676-78) e poi Giorgio (1686-95) –, Danese Casati e Cesare Pagani, si può dire che la nomina di Rubino abbia costituito un’ulteriore evoluzione nell’assegnazione di questo posto, perché dopo il monopolio esclusivo da parte dei patrizi e la nomina di individui appartenenti alla nobiltà di recente estrazione, con lui, invece, la carica venne assegnata a un personaggio che non possedeva neppure lo status nobiliare.
Sostenuto da un sostanzioso rimborso per le spese di viaggio (Archivio di Stato di Milano, Uffici Regi, p.a., cart. 42), Rubino partì per Madrid, dove rimase dieci anni, dal 1696 al 1706 (Madrid, Archivo histórico nacional, Estado, legajos 1907, 1913, 1955, 2270), attraversando indenne i grandi rivolgimenti connessi con il declino del regno di Carlo II e i primi anni della monarchia borbonica di Filippo V e della guerra di successione spagnola. Il 19 novembre 1705 ottenne l’investitura del feudo di Colico, la cui assegnazione va in-quadrata nell’ambito della politica borbonica di reperimento delle risorse e contenimento del dissenso.
Con ordine a stampa datato 18 dicembre 1703 Filippo V, di fronte alla strettezza delle rendite camerali, aveva deciso di concedere al governatore Charles-Henri de Lorraine-Vaudémont la possibilità di alienare rendite, feudi o terre devoluti alla Camera per qualunque causa. Il governatore aveva successivamente pensato di considerare alienabili i feudi appartenenti a chi non aveva prestato giuramento di fedeltà al sovrano (Archivio di Stato di Milano, Feudi Camerali, p.a., cart. 217, Colico). Tra questi vi era il feudo di Colico della dimensione di cento fuochi, infeudato dal 1572 alla famiglia Alberti: il 29 aprile 1704 questo territorio veniva considerato alienabile stante che il suo feudatario, Gian Francesco Alberti, abitava a Trento e non aveva prestato giuramento a Filippo V. Il 16 settembre 1705 «nel luogo solito della Ferrata posto sopra la piazza de Mercanti di questa città», fu esposta la cedola per la vendita di Colico. La base d’asta fu fissata nel prezzo di £ 40 per fuoco e Rubino, il quale si trovava allora a Madrid, se ne aggiudicò l’acquisto con un’offerta di £ 48 per fuoco tramite la mediazione di Geronimo Tizzoni. L’investitura prevedeva che, in mancanza di una discendenza, il feudo potesse passare nelle mani del fratello Giambattista o di «persona da nominarsi da uno di loro» (Casanova, 1930, p. 13).
Nell’estate del 1706 il reggente ottenne la licenza di lasciare la Spagna per tornare in patria, dove era sua intenzione rivestire nuovamente la carica di senatore (Archivio di Stato di Milano, Uffici Regi, p.a., cart. 39). Si aprì allora un piccolo conflitto di precedenza, perché essendogli stata concessa la facoltà di conservare la dignità di reggente (come già era accaduto a Danese Casati e al marchese Erba), Rubino avrebbe potuto avere accesso al Consiglio segreto e nel Senato stesso con un grado che superava quello dello stesso presidente del Senato, suo diretto superiore. Mentre si cercava di risolvere la questione sollevata dal supremo tribunale dello Stato, il 26 settembre 1706 le truppe imperiali guidate dal principe Eugenio di Savoia entrarono a Milano, ponendo fine al regime borbonico e avviando quel periodo di governo in cui lo Stato rimase conteso tra le direttive della corte asburgica di Barcellona guidata da Carlo III e quelle della corte imperiale di Vienna guidata da Giuseppe I.
Rubino non dovette attendere a lungo la disponibilità degli ambienti imperiali a reintegrarlo nella nuova amministrazione asburgica dello Stato di Milano: il 10 dicembre 1706 il nuovo governatore principe Eugenio di Savoia inviò al Senato il proprio parere favorevole affinché egli, ritornando in patria in qualità di senatore, conservasse la dignità di reggente. Tuttavia, quale prova delle ricadute concrete del conflitto che caratterizzò tra 1705 e 1711 i rapporti e i progetti delle due corti asburgiche, Carlo III preferì invece convogliare Rubino ad altra destinazione e nominarlo nel 1707 luogotenente della Regia Camera di Napoli, allontanandolo dallo Stato di Milano. In realtà risulta che Rubino per tutto il 1707 abbia preso parte a numerose giunte governative (Archivio di Stato di Milano, Uffici Regi, p.a., cart. 148). Sebbene un decreto governativo del 28 marzo 1707 avesse annullato «tutte le alienazioni, concessioni, mercedi, grazie fatte dal signor duca d’Angiò e suoi ministri» (Archivio di Stato di Milano, Feudi Camerali, p.a., cart. 217), per cui il contratto di acquisto di Colico diventava nullo, con diploma datato 15 dicembre 1708 Rubino ottenne il titolo di conte.
Qualche anno più tardi, nel 1713, Rubino ottenne dall’imperatore la giubilazione dall’incarico napoletano di presidente della Camera di S. Chiara e la possibilità di ritornare in patria con la nomina a consigliere segreto e il privilegio di poter conservare a titolo onorifico il «carattere di reggente» del Supremo Consiglio di Spagna e perciò di poter sedere nel Consiglio segreto di Milano ancora con un grado privilegiato. Il 7 giugno 1717, per decreto di Carlo VI, Colico fu restituito al conte Bonaventura Alberti, il quale prestò giuramento di fedeltà nelle mani del gran cancelliere Pirro Visconti «in nome di S.A.S. il principe di Löwenstein», nuovo governatore di Milano (ibid.). Rubino, rimasto senza feudo «e senza il prezzo sborsato» (ibid.), tentò di farsi concedere in cambio il feudo di «Mezzana Valverghentino pieve di Garlate et Imberido pieve di Oggiono devoluti alla Regia Camera per la morte del fu marchese Giovan Battista Airoldi morto senza figli maschi legittimi e naturali» (ibid.), il quale era suo lontano parente e si era trasferito in Sicilia dove era morto nel 1713. Non si hanno notizie del fatto che la sua richiesta sia stata accolta. Rubino non si sposò e lasciò il titolo di conte e le proprie cospicue sostanze al nipote Diego Rubino con testamento datato 24 febbraio 1724.
Morì a Milano il 7 agosto 1728 nella parrocchia di S. Protaso ad Monachos.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Dispacci Reali, cart. 126; Feudi Camerali, p.a., cart. 217, Colico; Uffici Regi, p.a., cartt. 39, 40, 42, 148; Madrid, Archivo histórico nacional, Estado, legajos 1907, 1913, 1955, 2270; Milano, Archivio storico civico, Famiglie, cart. 1346; Biblioteca Ambrosiana, Mss., M.80 sup.; Simancas, Archivo general, Secreterias Provinciales, leg. 1295.
E. Casanova, Dizionario feudale delle province componenti l’antico stato di Milano all’epoca della cessazione del sistema feudale (1796), Milano 1930, pp. 13, 35; C. Cremonini, Il Consiglio Segreto tra interim e prassi quotidiana (1622-1706), in La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di E. Brambilla - G. Muto, Milano 1997, pp. 246 s.; A. Álvarez Ossorio Alvariño, Milán y el legado de Felipe II. Gobernadores y corte provincial en la Lombardía de los Austrias, Madrid 2001, pp. 271, 277, 287, 305; Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi. Riproduzione del manoscritto 11500-11501 della Biblioteca Nacional di Madrid, a cura di C. Cremonini, II, Mantova 2003, p. 205; Alberi genealogici delle case nobili di Milano. Edizione del manoscritto di proprietà della Società storica lombarda, Milano 2008, p. 313; C. Cremonini, Mobilità sociale, relazioni politiche e cultura della rappresentazione a Milano tra Sei e Settecento, in La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento. Discontinuità e permanenze, a cura di R. Carpani-A. Cascetta-D. Zardin, in Studia Borromaica, XXIV (2010), p. 20.