GAMBACORTA, Pietro (Piero)
, Pietro (Piero). - Figlio di Andrea di Gherardo, nacque a Pisa da eminente famiglia del ceto mercantile prima del 1319, dato che nel 1349 aveva già compiuto i trent’anni di età. Scarse sono le notizie circa la sua formazione e i suoi anni giovanili, che poté impegnare, com’era tradizione nella sua famiglia, in attività mercantili e imprenditoriali, ma nel corso dei quali fu senza dubbio avviato alla vita pubblica, in vista di una probabile successione al padre, «maggiore e capo» - come lo definisce un anonimo cronista coevo - della fazione bergolina, salita al potere dopo il tumulto del 24 dic. 1347 e la cacciata dei Della Rocca. Quando il suo nome comincia a ricorrere nella documentazione in nostro possesso, infatti, egli appare sostenere già, sul piano politico, ruoli di un certo rilievo.
Nel 1349, per conto del governo cittadino, fece parte di commissioni di savi e fu anziano per il bimestre novembre-dicembre. Di nuovo anziano per il bimestre settembre-ottobre del 1351, probabile anno della morte del padre, nel 1353, per conto del governo, fece ancora parte di commissioni di savi e fu, per la terza volta, anziano (bimestre maggio-giugno). Nel 1354 fu scelto, insieme con Albino Lanfranchi, Piero di messer Albizo e un Alliata, per partecipare all’ambasceria inviata nel tardo autunno dal governo pisano all’imperatore eletto Carlo IV di Lussemburgo, che si apprestava a scendere in Italia per cingervi la corona. Quando nel gennaio successivo, Carlo IV fece il suo solenne ingresso in Pisa, il G., che era stato eletto anziano per la quarta volta, lo ospitò nella sua residenza, che deve essere probabilmente identificata con uno degli edifici del complesso in carraia S. Gilio, nel quartiere di Chinzica.
La presenza in città dell’imperatore eletto esasperò le contraddizioni interne e fece precipitare la situazione. Nel violento scontro frontale tra le due maggiori fazioni in cui si trasformò allora la lotta politica cittadina, il G. ebbe, insieme con i suoi familiari, una parte di rilievo. Dei propri familiari condivise la sorte dopo i tragici eventi che nel maggio di quel medesimo 1355 posero fine al primo governo dei bergolini in Pisa e alla vita dei suoi maggiori esponenti: Francesco, Lotto e Bartolo Gambacorta. Fu infatti colpito da un decreto di bando, come accadde per altri importanti membri della sua famiglia, ma il luogo dell’esilio, in un primo tempo assegnato a Famagosta, gli fu poi mutato in un qualsiasi altro centro, purché al di fuori dei territori di dominio pisano. Il G. trovò rifugio prima a Venezia e quindi a Firenze. Già nel 1360, probabilmente con l’appoggio di quest’ultima, agiva nel tentativo di scalzare i raspanti. Nel gennaio del 1361, alla testa delle sue bande, operava nel territorio pisano. Nell’ottobre del 1362 insieme col fratello Gherardo, e con l’appoggio dei Fiorentini, che avevano conquistato Peccioli in Valdera, organizzò un colpo di mano per rientrare in Pisa, ma il tentativo fallì.
Ignoriamo quale atteggiamento abbia assunto il G. durante il dogato di Giovanni Dell’Agnello (12 ag. 1364 - 5 sett. 1368) nei confronti del nuovo padrone di Pisa. Poco note sono anche le vicende della sua vita in quegli anni: sappiamo soltanto che egli fu allora al servizio della Sede apostolica come vicerettore di Campagna e che di quest’ultima fu nominato riformatore dal papa Urbano V il 17 giugno 1367. Dopo il moto popolare che portò alla caduta del regime dogale e alla restaurazione delle tradizionali forme di governo in Pisa, si ebbe agli inizi del 1369 un provvedimento di clemenza in seguito al quale i fuorusciti e gli sbanditi per ragioni politiche furono riammessi, «salvo che messere Piero Gambacorta, lo quale non potendo intrare in Pisa, entrò in Calcinaia presso a Pisa dieci miglia» (Cronica di Pisa, col. 1051). Il problema del ritorno del G., tuttavia, fu risolto di lì a poco grazie all’interazione di altre forze e di altri interessi.
L’attività e le scelte politiche dell’amministrazione nata dal moto del 5 sett. 1368 erano fortemente condizionate dalla Compagnia di S. Michele, un organismo sorto con l’obiettivo di controllare e contenere le tensioni che la lotta tra raspanti e bergolini aveva generato. Costituita all’inizio solo da cittadini di indirizzo moderato, appartenenti al ceto degli artigiani e dei mercanti, in genere ben disposto nei confronti del G. e dei suoi consorti, la Compagnia portò le autorità municipali a riammettere in città anche i Gambacorta. Al provvedimento, che fu accolto da un ampio consenso popolare, non dovettero rimanere estranee le pressioni esercitate da un alleato del G., Jacopo Appiani, che godeva di una certa influenza negli uffici dell’amministrazione cittadina (suo padre era stato per lunghi anni cancelliere del Collegio degli anziani) e di un certo seguito tra i ceti medi.
Si erano inoltre senza dubbio avuti, in quella medesima congiuntura, contatti tra il G. e l’imperatore. Siamo infatti informati che il G. si impegnò a versare a Carlo IV, per la cancellazione del bando del 1355, la cospicua somma di 12.000 fiorini d’oro. Essa fu puntualmente pagata il 4 marzo 1369, nonostante le difficoltà economiche (l’autore anonimo della Cronica di Pisa afferma che i Gambacorta all’epoca del loro rientro in città «erano poveri e vivevano come soldati»: col. 1052) che il G. stava allora attraversando.
Quando, il 24 febbr. 1369, il G. rientrò in Pisa, apparve già come il capo riconosciuto della propria casata e come il massimo esponente della fazione bergolina. Lo stesso cronista riferisce che egli, poco dopo la sua riammissione in città, giurò davanti all’altare di S. Michele «d’essere amadore e servidore del Comune e popolo di Pisa, e dell’Anzianatico e della Compagnia di San Michele, e dell’Imperadore, ello e tutti suoi figliuoli e consorti, e vivere in pace come cittadino» (ibid., col. 1050). Allo scopo di scongiurare prevedibili atti di rivolta da parte dei fuorusciti appena richiamati entro le mura, nel marzo il governo pisano emanò due provvedimenti in favore dei ceti popolari, che sostenevano allora i bergolini. Ciò non impedì, tuttavia, ai Gambacorta di compiere le loro vendette nei confronti di esponenti della fazione avversaria: a esse si sarebbero sottratte, stando alle fonti coeve, alcune famiglie, come quelle dei Benetti e degli Aiutamicristo, legate al G. che in questo momento appare fautore di una pacificazione delle parti.
Ciò nonostante, i tumulti continuarono così come continuarono gli scontri tra i bergolini e i raspanti senza che le autorità riuscissero a ristabilire l’ordine pubblico. Tra il 3 e il 4 aprile la situazione precipitò: un nuovo colpo di Stato rovesciò il governo in carica e portò al potere i bergolini. Uomini fedeli al G. furono eletti anziani con la connivenza - se non con il sostegno - della compagnia di S. Michele. Il G. preferì non assumere per il momento cariche ufficiali: si assunse, in ogni modo, il compito di risollevare - attraverso il nuovo governo, di cui era l’anima e il moderatore, e gli esponenti dei gruppi di pressione, che lo sostenevano – le compromesse sorti del Comune pisano: impresa non facile sia per la situazione militare - Carlo IV subito dopo il colpo di Stato aveva inviato truppe contro il territorio di Pisa e aveva riconosciuto la libertà di Lucca -, sia per le condizioni generali della città, su cui pesavano gravi difficoltà finanziarie e una forte instabilità politica interna. L’accordo con il Comune di Firenze, al quale da tempo la famiglia Gambacorta era vicina, fu rapidamente raggiunto, e da Firenze la nuova amministrazione pisana fu soccorsa fin dai suoi primi passi. Date tali premesse, anche l’accordo con Carlo IV fu presto trovato: il 1° maggio 1369 Pisa concluse la pace con l’imperatore, sia pure al prezzo di gravi sacrifici territoriali. Il 16 giugno essa accordò ai Fiorentini vantaggiose concessioni relative all’uso del suo porto. Contemporaneamente si procedette a un alleviamento dei gravami fiscali che pesavano sulle popolazioni del conta do danneggiate dalle recenti vicende militari e si diede avvio all’unificazione del debito pubblico (febbraio 1370). Nella primavera del 1370 Pisa aderì alla lega antiviscontea promossa da Firenze e da Urbano V.
Bernabò Visconti rispose all’iniziativa stipulando con Giovanni Dell’Agnello un accordo che aveva come obiettivo l’abbattimento del regime nato a Pisa l’anno precedente e la restaurazione dell’antico doge. Poco dopo, infatti, il Dell’ Agnello, alla testa di un corpo d’esercito al soldo del signore di Milano, assalì il territorio di dominio pisano, occupando per qualche tempo Livorno e conseguendo successi tattici in Maremma, nel Valdarno e in Valdiserchio. Grazie all’aiuto di Firenze, tuttavia, il G. riuscì a rintuzzare il pericolo: il Dell’Agnello fu bloccato, contenuto e respinto. Sul finire di giugno fu costretto a ripiegare su Sarzana.
All’inizio dell’autunno il G. venne eletto dagli Anziani, su mandato del loro Consiglio e del Consiglio generale, a due delle più importanti magistrature municipali: quella di «capitano di Guerra e difensore del Popolo» (21 settembre) e quella di «soprastante delle masnade a cavallo del Comune di Pisa», carica che comportava il comando - e, dunque, il controllo - delle migliori risorse militari del Municipio (23 settembre). L’evento rappresentava non solo il riconoscimento sul piano istituzionale della posizione di preminenza del G., ma anche l’ampiezza del consenso di cui egli godeva in quel momento tra i «poteri forti» cittadini.
Che la nomina del G. a «capitano di Guerra e difensore del Popolo» sia stata determinata non solo dalla volontà della sua fazione ma anche dall’intervento di altri centri di potere, risulta chiaramente da quanto ci riferiscono in proposito le fonti coeve. Siamo informati, ad esempio, che a essa fu pregiudiziale un accordo segreto stretto tra lo stesso G. e Jacopo Appiani, dopo che questi era stato eletto, per la seconda volta, ai primi di luglio del 1370, cancelliere degli Anziani; e che, in forza di tale accordo, furono concessi all’ Appiani, in quanto cancelliere, poteri particolarmente estesi, tali da consentirgli il più stretto controllo della cancelleria degli Anziani, da cui dipendeva tutta l’organizzazione amministrativa e politica del Comune (provvisione degli Anziani del 27 ott. 1370).
Ottenuto in tal modo il riconoscimento ufficiale della sua posizione di dominio, il G. si volse ad affrontare con forza e determinazione i gravi problemi che incombevano su Pisa. Sul versante interno mirò a consolidare la propria autorità senza abolire le antiche istituzioni comunali, ma accentrando i poteri e le principali cariche pubbliche nella sua persona e in quelle di membri della sua famiglia e della sua fazione o dei suoi alleati politici. A lui si deve, in ogni modo, una precoce opera di riforma di istituti quali il Consiglio generale (gli Anziani deliberarono già il 27 ottobre che dovesse essere riunito solo in casi eccezionali) e lo stesso Consolato del mare; a lui pure sono da attribuire l’istituzione di due Consigli di savi dotati di ampi poteri - attraverso i quali soprattutto il G. governò in città - e il provvedimento con cui fu ristretto drasticamente il numero degli elettori alle cariche più importanti. La volontà del G. si espresse in particolar modo nelle deliberazioni dei savi, i cui Consigli furono gli istituti attraverso i quali egli governò effettivamente la città.
Sul piano economico e finanziario il G. seguì una politica di sostegno degli interessi mercantili. In questo senso vanno interpretati l’impulso da lui dato allo sviluppo di Porto Pisano, le drastiche riduzioni delle spese militari, le imposte, le prestanze, e soprattutto l’unificazione del debito pubblico, attuata in più riprese tra il 1370 e il 1378. Il governo guidato dal G. tentò anche ripetutamente di applicare un estimo della popolazione (1371, 1379 e 1386), che fu però energicamente osteggiato dai ceti artigianali e mercantili più abbienti. Lo sforzo di incrementare le entrate del Comune si indirizzò verso lo sfruttamento del porto: tutte le tasse di ancoraggio furono aumentate, con la significativa eccezione di quelle dovute dalle navi fiorentine che ne furono esentate. Il «tempo di Pietro Gambacorta» sarebbe rimasto a lungo a indicare, per i Fiorentini, una situazione ideale di sfruttamento delle franchigie commerciali e portuali.
In politica estera il G. mirò a far svolgere a Pisa un ruolo di mediazione fra le potenze italiane, curando la neutralità del Comune nel rispetto comunque della fedeltà alla linea di accordo con Firenze adottata fin dall’inizio della sua attività pubblica - nelle guerre che travagliarono allora quell’area. Il suo governo rappresentò dunque per Pisa un lungo periodo - oltre vent’anni - di pace. Fedele al suo compito di mediatore, nel marzo del 1378 si recò a Firenze per indurre quel governo a porre fine alla guerra degli otto santi e a riconciliarsi col papa Gregorio XI. Analogamente si contenne il G. quando, dieci anni dopo, si aprì il conflitto tra l’alleata Firenze e il duca di Milano Gian Galeazzo Visconti. Pisa non aderì alla lega antiviscontea promossa da Firenze nell’agosto del 1388 e il G. si fece promotore di ripetuti tentativi di conciliazione tra le parti in conflitto finché, all’inizio dell’estate del 1389, nonostante l’età avanzata e i rischi per l’ordine pubblico che l’allontanamento da Pisa comportava in un momento così critico, si recò personalmente a Pavia, lasciando temporaneamente le redini del governo al figlio Benedetto. Suo fine era quello di discutere con il duca dì Milano una bozza di accordo che avrebbe poi comunicato al governo fiorentino (21 giugno 1389). Le trattative ulteriori, che si svolsero in Pisa sotto la direzione del G., procedettero con difficoltà e si conclusero soltanto il 9 ottobre. Non si ebbe - come il G. aveva invece sperato - una pace duratura: si trattò di una tregua di breve durata.
Il conflitto tra Milano e Firenze ebbe effetti destabilizzanti nella situazione interna di Pisa, perché l’attività degli agenti viscontei, tra i quali si è voluto indicare lo stesso Jacopo Appiani, si innestò su quella promossa dagli oppositori del regime del G. e sul malcontento dei produttori, i cui interessi sembravano compromessi dagli accordi commerciali con Firenze.
Nuove tensioni, tra l’ottobre del 1389 e l’aprile del 1390, provocarono la riapertura del conflitto e ciò ebbe gravissime conseguenze per il G. e per il suo regime. Il partito filovisconteo si andò rinforzando sotto la guida dell’ Appiani, mentre a Pavia si raccoglievano presso la corte viscontea numerosi esuli pisani. In tale contesto maturò il colpo di Stato dell’Appiani, che il 21 ott. 1392 pose fine alla vita e alla signoria del G. e nel quale trovarono la morte anche due dei suoi figli e Giovanni Rosso dei Lanfranchi, consanguineo e stretto collaboratore.
Il corpo del G. fu sepolto nella notte del 23 ottobre nella chiesa di S. Francesco.
Alla data del 1386, quando fu compilato un inventario dei suoi beni immobiliari, i possessi del G. erano diffusi in varie località del Pisano, in zone non sempre coincidenti con quelle di elezione dei possessi della famiglia Gambacorta. Abbiamo già ricordato, in Pisa, la casa e il giardino nel quartiere di Chinzica, detenuti in proprietà con il fratello Gherardo; il G. fece inoltre edificare un palazzo nella cappella di S. Sebastiano in Chinzica, che Ranieri Sardo ricorda come la «chasa nuova di misser Piero», presso la quale sarebbe stato consumato il suo assassinio nel 1392; possedeva due palazzi nella «cappella» di S. Lorenzo in Chinzica, in uno dei quali risiedeva con i suoi familiari, mentre l’altro era adibito a scuderia. Le proprietà nel contado nel 1386 erano concentrate soprattutto nelle località di Livorno, Forcoli, Marti, Castel del Bosco, Casciana, Usigliano, Lari.
Il G. è ricordato anche per l’opera di abbellimento della città: degni di nota i lavori di ricostruzione in pietra del ponte Vecchio, che si cominciò a disfare nel 1383.
Stando al Litta, morta la prima moglie nel 1381, sposò Oretta Doria; ebbe cinque figli maschi: Benedetto, Andrea, Matteo, Lorenzo e Giuliano, l’ultimo dei quali naturale; la figlia Tora, entrata nella vita religiosa con il nome di Chiara, fu beatificata. Dei figli, soprattutto di Lorenzo e di Benedetto, è noto l’interesse per gli studi letterari; a Lorenzo diresse una lettera Coluccio Salutati.
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