FREGOSO (Campofregoso), Pietro
Secondo di questo nome, figlio di Battista (I) e della sua prima moglie, Violante Spinola di Opizzino, nacque intorno al 1417, presumibilmente a Genova. Trascorsa parte della giovinezza lontano da Genova, a causa delle alterne fortune della sua famiglia, il F. tornò in patria nel 1436 quando, cacciati i Visconti dalla città, Tommaso Fregoso salì per la seconda volta al dogato. La posizione di prestigio ricoperta dal padre nel nuovo regime, con la carica di capitano generale della Repubblica, lo avrebbe certo favorito nella carriera politica, se l'ambizione paterna non si fosse spinta a tentare di sostituirsi al fratello. Nel maggio del 1437 il F. seguì il padre nel suo volontario esilio da Genova, e lo accompagnò negli anni seguenti nel suo lungo vagabondare in cerca di alleati per tentare nuovamente l'assalto contro Genova.
Ancora giovanissimo militò in Lombardia con Francesco Sforza in diverse campagne contro Venezia e Firenze. Alla morte del padre, nel 1442, si riconciliò con lo zio Tommaso, che lo pose a capo del suo ramo familiare. Ereditati alcuni possedimenti territoriali, come il feudo di Gavi, dono dei Visconti, gli venne anche affidata la tutela dei fratellastri Pandolfo, Tommasino e Paolo, minori di età.
La deposizione di Tommaso Fregoso a opera degli Adorno, nel dicembre 1442, lo allontanò nuovamente da Genova. Rifugiatosi sotto la bandiera viscontea, ebbe in dono dal duca Filippo Maria il possesso di Novi, oltre alla riconferma del feudo di Gavi. Dai territori sottoposti alla sua giurisdizione si dedicò, negli anni del dominio degli Adorno su Genova, a una serie di imprese più simili alla pirateria che alla guerra aperta, per destabilizzare il governo genovese. Tali imprese, che videro tra i danneggiati anche Carlo VII re di Francia, non sembrano essere state condotte però secondo un disegno preordinato, a differenza dell'iniziativa condotta da Benedetto Doria, organizzatore di una vera flotta pirata in appoggio ai ribelli Giano e Nicolò Fregoso.
La conquista del potere da parte del cugino Giano, il 30 genn. 1447, lo innalzò alla carica di capitano generale, la seconda per importanza nell'ordinamento della Repubblica, a differenza del cugino Nicolò, rimasto fedele, insieme con Benedetto Doria, alla causa francese. Il primo incarico portato a compimento, fu proprio quello di stipulare una convenzione con il Doria, per ricondurlo all'obbedienza della Repubblica.
Il ritorno dei Fregoso al potere coincise con un'epoca di grandi rivolgimenti nella politica italiana, a causa della morte del duca di Milano Filippo Maria Visconti, avvenuta il 13 ag. 1447. L'incertezza riguardo alla sua successione ruppe il delicato equilibrio che teneva unite le diverse componenti dello Stato visconteo. Di tale situazione approfittò Giano, nell'intento di ricondurre sotto la sua sovranità i territori dell'Oltregiogo passati sotto il controllo milanese. Coinvolto in prima persona, in quanto beneficiario per investitura viscontea di uno dei territori oggetto della contesa, il F. rinunciò al feudo di Gavi, favorendo la dedizione della Comunità alla Repubblica. In seguito, passato il feudo sotto il controllo del cugino Spinetta (II), tentò invano di recuperarlo, per ricostituire l'unità dei propri possedimenti privati.
Posto dal doge a capo delle operazioni militari in Oltregiogo fin dall'inizio della guerra, il 15 ag. 1447, il F. riportò sotto il controllo della Repubblica, parte con la forza, parte con interventi di mediazione, le Comunità di Voltaggio, Gavi, Novi e Ovada. Eliminata, con un ardito assassinio politico, la minaccia costante rappresentata dal conte di Lavagna, Gian Antonio Fieschi, Giano Fregoso decise di affrontare, sempre nel corso dell'anno 1447, anche il marchese del Finale, Galeotto Del Carretto, oppositore della sua casa e pericoloso confinante con i territori della Repubblica, decisione che venne approvata, il 15 nov. 1447 dal Gran Consiglio cittadino. Chiamato da Giano a dirigere le operazioni militari, con la carica di luogotenente del doge, il F. procurò alla Repubblica una brillante serie di vittorie: nel giro di pochi mesi le milizie genovesi presero Castelfranco e Giustenice, avanzando velocemente all'interno del territorio nemico. Ferito nel corso di un attacco contro Castel Gavone, conquistò solo il 25 maggio 1449 la città di Finale.
La morte di Giano, sopraggiunta nel dicembre 1448, interruppe il sodalizio tra le due massime cariche della Repubblica, fondato su affinità di carattere che con il tempo si sarebbero manifestate in maniera sempre più evidente. Parve naturale, quasi per una sorta di continuità dinastica, che al defunto doge succedesse il fratello Ludovico, nonostante le tante prove di valore fornite dal Fregoso. Scelta che non si rivelò felice, pur permanendo il F. nel suo ruolo di supremo comandante militare. La mancanza di carattere del nuovo doge, unita al sopraggiungere di difficoltà contingenti, vanificò ben presto molti dei successi conseguiti ai tempi del governo di Giano. L'8 sett. 1450, il governo della Repubblica, sfibrato da mesi dall'infuriare di una pestilenza e minacciato dagli attacchi dei fuorusciti e dalle continue azioni di disturbo dei pirati catalani, depose Ludovico Fregoso. Dopo aver rifiutato la carica offertagli dall'assemblea per il tramite di un'ambasceria, il vecchio Tommaso Fregoso, suo zio, propose la candidatura del F., "qui et imperare sciret et vellet et posset". L'assemblea, approvata la nomina, lo elevò al dogato con le stesse prerogative di cui un tempo aveva goduto Giano; con lo stesso numero di preferenze, 317 voti, venne anche approvata la nomina di Nicolò Fregoso a capitano generale della Repubblica.
L'ascesa al dogato del F., anche nell'ambito della stessa famiglia Fregoso, fu forse meno pacifica di quanto lo stesso verbale del Consiglio possa far supporre. L'offerta dell'incarico a Tommaso, personalità in età più che avanzata e famosa per la sua cavalleresca generosità nei confronti degli avversari, era indubbiamente anacronistica nella difficile situazione che la Repubblica si trovava ad affrontare, tanto più che non era stata presa in considerazione nemmeno anni prima, né al momento della cacciata degli Adorno, né dopo la morte di Giano. L'assemblea tentava forse, proponendo il nome di Tommaso, di porre un autorevole argine alle ambizioni di un uomo quale il F. che si era già fatto notare per energia e spirito d'iniziativa; il rifiuto dell'ex doge dovette essere almeno in parte frutto di strategie familiari precise all'interno della fazione Fregoso. Dovettero influire in maniera rilevante anche le aderenze politiche del F. all'interno e all'esterno del Dominio genovese. Le rivalità tra Tommaso e la corte milanese erano risapute, e avrebbero potuto compromettere le nuove alleanze della Repubblica, che aveva da poco contribuito alla successione di Francesco Sforza nel Ducato. Anni più tardi, nel 1454, lo stesso F. ricordava al duca di Milano, tra i propri meriti, quello di aver accettato la carica di doge per favorirlo, e per impedire che Tommaso stipulasse un'alleanza con Venezia.
Il dogato del F., che già iniziava in circostanze sfavorevoli, era ulteriormente minato alla base dalla necessità di mantenere un equilibrio, per quanto precario, tra le tante signorie di carattere quasi privato venutesi a creare, all'interno dello stesso Dominio genovese, per tacitare rivali o favorire alleati e congiunti potenzialmente pericolosi. Le stesse rivalità interne alla fazione Fregoso costituivano un fattore destabilizzante per il nuovo regime: la scelta - o l'imposizione - di Nicolò Fregoso, le cui ambizioni erano già apparse in maniera manifesta all'inizio del dogato di Giano, quale capitano generale privava ad esempio il doge dell'appoggio di una persona più fidata, quale avrebbe potuto essere uno dei suoi fratelli. Il costante atteggiamento di ostruzionismo, se non di aperta ribellione, adottato dal cugino Ludovico Fregoso, prima con il rifiuto di cedere la fortezza di Lerici, poi con il palese appoggio offerto ai fuorusciti, era inoltre causa di continue tensioni.
Salito al potere sulla base di difficili accordi tra le fazioni, in particolare con i Fieschi, il F. non aveva altra scelta per affermare la propria autorità che tentare un atto di forza che gli consentisse almeno all'interno una certa libertà d'azione. Le continue guerre condotte, durante tutto il suo dogato, contro gli alleati del passato ne furono l'inevitabile conseguenza.
Posto nell'impossibilità di conferire cariche di particolare prestigio ai fratelli Pandolfo e Tommasino, cercò di favorire la carriera ecclesiastica di Paolo, il minore della famiglia, per la cui elevazione alla cattedra arcivescovile avviò intensi rapporti epistolari con la Curia pontificia. Ottenuta la carica richiesta, dovette attendere non poco perché alla nomina, conferita in difetto d'età, facesse seguito la necessaria consacrazione avvenuta solo nel febbraio 1453. Nel frattempo, lo stesso F. aveva ottenuto dignità e onori confacenti al suo nuovo ruolo politico: il titolo di cavaliere, conferitogli dall'imperatore Federico III, e l'omaggio della Rosa d'oro, concessagli da papa Nicolò V.
Il mutamento di regime attuato l'8 sett. 1450 non valse a scongiurare la sconfitta genovese nella guerra del Finale. Riuscita vittoriosa sul campo, la Repubblica dovette soccombere davanti all'intervento del re di Francia in favore del marchese Giovanni Del Carretto, al quale, con il trattato del 7 ag. 1451, vennero restituiti i territori già sottratti al predecessore Galeotto. Il 14 nov. 1451, per far fronte alle minacce esterne, il F. stipulò con Milano e Firenze una lega difensiva in opposizione all'alleanza tra Venezia e re Alfonso I d'Aragona. Fallito il tentativo di accordarsi con Caterina Appiani per la dedizione di Piombino a Genova, il F. instaurò con il successore di lei, Emanuele, amichevoli relazioni poi corroborate dal matrimonio tra Battistina Fregoso, sua sorella, e il figlio dell'Appiani, il futuro signore di Piombino, Jacopo (III).
Risolto il problema dell'isolamento politico di Genova, il F. affrontò le opposizioni interne al suo dogato con la stessa spregiudicatezza già manifestata da Giano Fregoso in circostanze analoghe: all'impiccagione di Galeotto De Mari, reo di aver "troppo parlato", fece presto seguito, nel giugno del 1452, l'assassinio dello stesso capitano generale Nicolò, annunciato alla famiglia dallo stesso F. come una dolorosa necessità, determinata dal palese tradimento del congiunto. Per evitare il sospetto di aver agito per favorire uno dei propri fratelli, il F. sostituì immediatamente l'ucciso con il fratello di lui, Spinetta (II).
Nel corso del 1452, il F. attese inoltre all'emanazione di nuove leggi suntuarie, volte soprattutto a limitare il lusso negli ornamenti femminili, e a stringere nuovi accordi di carattere commerciale con il sultano di Tunisi. Nel mese di luglio, a seguito dell'arrivo di richieste di aiuto da parte della colonia genovese di Pera, minacciata dai preparativi di guerra di Maometto II, organizzò l'arruolamento di un contingente di armati, affidato al cognato Giovanni Giustiniani Longo marito della sorella Clemenza, per la difesa di Costantinopoli.
Mentre il conflitto con il conte di Lavagna Gian Filippo Fieschi e con i fuorusciti Adorno e Spinola si trascinava, nonostante i tentativi di mediazione del duca di Milano, e la frequente stipulazione di tregue tra le parti, i già tesi rapporti con Alfonso d'Aragona si aggravarono ulteriormente, a causa degli attacchi condotti dai Catalani contro la Corsica. Conclusasi senza alcun esito l'ambasceria a Napoli di Gaspare Sauli, il gran consiglio della Repubblica decretava, il 19 maggio 1453, la cessione al Banco di S. Giorgio dell'isola di Corsica e di tutti i diritti di Genova su di essa, affidando ai Protettori l'incarico di riconquistare la città di San Fiorenzo, occupata dai Catalani. Nel mese di luglio il F. organizzò il viaggio di Renato d'Angiò giunto in Italia alla ricerca di nuovi alleati contro Alfonso d'Aragona.
Le continue tensioni interne provocate dal conflitto con Gian Filippo Fieschi, che il 17 apr. 1453 arrivò a spingersi con le sue truppe contro il Castelletto, furono messe a tacere, il successivo 4 luglio, dall'arrivo a Genova della notizia della cattura della nave di Oberto Squarciafico da parte di vascelli catalani. L'avvenimento - che dimostrava nel contempo la malafede di Alfonso d'Aragona e il costante pericolo costituito dai Catalani per le rotte di navigazione genovesi - suscitò una tale risonanza presso la popolazione, da offuscare, due giorni più tardi, l'emozione suscitata dalle prime notizie relative alla caduta di Costantinopoli e Pera in mano turca.
La tragedia della capitale d'Oriente, segnalata dagli storici come il massimo avvenimento verificatosi nel corso del suo dogato, non portò in realtà al F. altra conseguenza se non la cura degli interessi della sorella Clemenza, rimasta vedova, e della risoluzione dei contrasti con la Comunità di Ancona, conseguenti a un'azione corsara condotta da Giovanni Giustiniani Longo. Inviata un'altra ambasceria al sultano turco per saggiare la possibilità del recupero di Pera, il F. si risolse, il 15 nov. 1453, ad approvare la cessione delle colonie genovesi nel Mar Nero al Banco di S. Giorgio.
Tale provvedimento, insieme con gli altri che seguirono tra il 1453 e il 1454, fu almeno in parte conseguenza del progetto concepito dal doge di risolvere il conflitto con l'Aragona attraverso un imponente attacco navale contro il porto di Napoli. Approfittando della mediazione del cardinale Domenico Capranica, giunto a Genova per organizzare una crociata contro i Turchi, il F. stipulò il 1° genn. 1454, dopo una vana attesa del lodo arbitrale promessogli da Francesco Sforza, un trattato di pace con Gian Filippo Fieschi. L'accordo, che sanciva la divisione del Dominio genovese in due distinte aree di influenza, ponendo, di fatto, la Riviera di Levante sotto il controllo del conte di Lavagna, fu la premessa indispensabile per ottenere non solo l'appoggio del Fieschi all'impresa, ma anche la sua diretta partecipazione in qualità di ammiraglio.
Il 7 apr. 1454 la flotta genovese, composta da otto navi e da un balenerium, salpava alla volta di Napoli; pochi giorni più tardi, l'11 aprile, giungeva a Genova la notizia della stipulazione, a Lodi, di una pace separata tra Venezia e Francesco Sforza. Ratificato il trattato con una clausola limitativa, per poter continuare le ostilità contro Alfonso d'Aragona, il F. stipulò, il 9 maggio 1454, una convenzione privata con gli artifices di Genova, nel tentativo di allargare la base del proprio potere guadagnandosi il favore delle classi popolari per condurre più energicamente la guerra contro gli Aragonesi. A tale scopo abrogò, alcuni mesi più tardi, la tassa sul vino, le cui rendite erano amministrate dal Banco di S. Giorgio.
Le richieste, sostenute dal Fieschi, di una flotta di galee in appoggio alle sue navi, indusse il F. ad acconsentire al consolidamento della Compera del capitolo del Banco di S. Giorgio, in cambio del necessario finanziamento. Affidato il comando della nuova flotta al fratello Tommasino, il F. dovette rimandarne la partenza prima a causa dell'arrivo di offerte di pace, poi per aver modo di organizzare, in appoggio al marchese Antonio Centelles, una congiura per spodestare il sovrano aragonese. Fallito l'attacco contro Napoli a causa di un probabile tradimento da parte del Fieschi e dell'imperizia di Tommasino, Genova dovette affrontare, praticamente priva di alleati esterni, il contrattacco di Alfonso, appoggiato anche dai fuorusciti genovesi. Nel 1455, il F. riuscì con uno stratagemma a respingere le forze riunite di Aragonesi, Fieschi e Adorno, già penetrati entro le mura; nello stesso anno riuscì a stabilire una fragile tregua con Alfonso grazie alla mediazione pontificia.
Negli anni successivi, stante il veto posto da Alfonso d'Aragona all'ingresso di Genova nella Lega italica, il F. dovette affrontare con le sue sole forze sia l'aggressione catalana sia le frequenti rivolte interne, ulteriormente aggravate dalla ribellione di Benedetto Doria, capitano della Riviera di Ponente. Nel febbraio 1458, stretto da ogni parte dagli avversari e minacciato dalla flotta dell'ammiraglio catalano Bernardo Villamarina, si risolse a cedere al re di Francia il dominio su Genova. L'11 maggio 1458, alla presenza di Giovanni d'Angiò, duca di Calabria inviato come luogotenente, il F. prestò giuramento di fedeltà a Carlo VII insieme con i rappresentanti del popolo genovese. Ne ricavò in cambio una lauta pensione, per il pagamento della quale gli vennero assegnati, a titolo di garanzia, i borghi di Novi e Voltaggio. Pentitosi ben presto della decisione presa, anche a causa dell'improvvisa morte di Alfonso, seguita a breve termine da quella dei capi della fazione Adorno, prese a pretesto il mancato pagamento dei suoi appannaggi per scendere in rivolta contro il governatore regio. Allontanato da Genova, si rifugiò a Milano dove ottenne l'appoggio dello Sforza e di Ferrante I d'Aragona, re di Napoli. Fallito un primo colpo di mano, organizzato con l'aiuto di Gian Filippo Fieschi, penetrò entro le mura di Genova il 14 sett. 1459 ma, rimasto isolato all'interno della città, vi trovò la morte per mano di Giovanni Cossa.
Aveva sposato Bartolomea Grimaldi, figlia di Giovanni, signore di Monaco. Dei suoi figli, Battista fu doge di Genova tra il 1478 e il 1483.
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