ELLERO, Pietro
Nacque a Cordenons (presso Pordenone), nel Lombardo-Veneto austriaco, l'8 ott. 1833 da Sebastiano e da Anna Poletti. La famiglia, friulana e cattolica, le cui origini secentesche furono ricostruite dal cugino Carlo Ruggiero, "era ricca ma non aveva titoli di nobiltà" (Arch. Ellero, XII, I) e poté offrirgli sino alla laurea l'adeguato sostegno economico per i suoi studi. Nella città natale ebbe luogo la prima formazione, che egli cominciò frequentando, dal 1840 al 1845, la scuola elementare privata del sacerdote Luigi Lavagnollo. Iscrittosi all'università di Padova nel 1851, ne seguì con profitto i corsi politico-legali sino al 1855 accostandovi, negli anni 1857-58, studi di storia austriaca, di storia universale e di numismatica. Dall'ottobre 1855 fu per alcuni mesi praticante presso il tribunale provinciale imperial-regio di Venezia, e poi ascoltante presso il tribunale d'appello, assegnato a Udine dall'aprile del 1856. A tale incarico rinunciò nel marzo dell'anno seguente, per poi conseguire il titolo di dottore in leggi difendendo le sue tesi (Padova 1858) nell'imperial-regia università di Padova il 23 dic. 1858. Contemporaneamente dava alle stampe la prima monografia, Della pena capitale (Venezia 1858), in cui affrontava l'argomento con appassionato entusiasmo, schierandosi apertamente contro "il boia".
La sua fama di penalista rimase legata in seguito proprio alla partecipazione alla campagna abolizionista, che lo vide al centro di numerose iniziative risonanti, dalle quali scaturirono rapporti scientifici ed epistolari anche rilevanti con studiosi italiani e stranieri.
La dissertazione giovanile costituì dunque il primo passo di una lunga battaglia, costandogli per il momento una imputazione da parte dell'autorità austriaca di "perturbazione della pubblica tranquillità". Il procedimento avviato a suo carico dalla direzione veneziana di polizia, che aveva bloccato la diffusione dell'opera, proseguì poco oltre il dettagliato interrogatorio, in cui gli vennero contestate le pagine più ardite, e fu chiuso nel 1859 "per ossequiata volontà sovrana" (Arch. Ellero, XII, 3º plico).
Il volumetto poté così apparire nel 1860 in una seconda edizione veneziana, che nel luglio gli valse la medaglia d'oro del re di Sardegna. L'opera godette di una certa notorietà: ancora nel 1907 Antonio Gomez Tortosa, ex rettore del Collegio di Spagna in Bologna, prendeva l'iniziativa di curarne una traduzione spagnola, destinata ad aprire "los ojos del legislador" (J. Canalejas, Prologo, in P. Ellero, Sobre la pena de muerte, Madrid 1907, p. 14).
Conquistata la benevolenza della Corona sabauda, l'E. ottenne la cittadinanza nello Stato sardo, con lo svincolo, nel dicembre 1860, dalla sudditanza austriaca e l'autorizzazione a emigrare. Intanto pubblicava il secondo lavoro monografico, Della critica criminale (Venezia 1860), in cui sin dalla scelta del titolo ("scelsi nova parola o meglio antica parola a novo concetto applicai") si proponeva ambiziosamente di non limitarsi a trattare il già rilevante tema delle "sole prove", bensì, giusta la definizione di critica come "disciplina del certo", di illustrare ciò che "come teoria o come pratica" costituisse "la scienza o l'arte d'acquistar certezza ne' giudizi criminali" (p. 5). Parallelamente iniziava la sua carriera di insegnante. L'E., infatti, pur vedendosi respinta in luglio l'istanza presentata allo Studio politico-legale di Padova per ottenere la privata docenza in diritto penale, ricevette la nomina a professore straordinario di filosofia del diritto presso l'Accademia scientifico-letteraria di Milano, fondata con legge del 13 nov. 1859 e destinata a raccogliere l'eredità dell'antica facoltà filosofico-letteraria dell'università di Pavia.
All'Accademia - dove quell'anno ebbe collega, tra gli altri, Augusto Vera, con il quale si sarebbe scontrato di lì a qualche tempo sul problema della pena di morte - inaugurò il suo corso con la prelezione, letta l'8 febbr. 1861, Della filosofia del diritto (Milano 1861), che, se non si segnalava per originalità, dava tuttavia conto di una notevole erudizione e conteneva certo, anche nello stile, alcuni dei tratti tipici della successiva, copiosissima produzione di giurista e poligrafo, specie quella di natura politico-filosofica e sociale. Al termine del corso l'Accademia doveva però fare a meno della sua collaborazione (come anche di quella del Vera), a seguito della sua nomina a professore straordinario di diritto penale nell'università di Bologna per l'anno accademico 1861-62, dove aprì il corso con la prelezione Delle origini storiche del diritto di punire (Bologna 1862, poi in Opuscoli criminali, ibid. 1874, pp. 5-40).
L'incarico, confermatogli per l'anno seguente, segnava l'inizio della lunga permanenza bolognese con cui sostanzialmente coincise l'intera sua carriera universitaria: al suo magistero bolognese si sarebbero poi riferiti a diverso titolo, fra i tanti, Roberto Grossi ed Enrico Ferri, più indirettamente Achille Loria ed Emilio Costa, ma soprattutto Giuseppe Brini, il più caro degli allievi, che dedicò grandissima cura allo studio e alla divulgazione del pensiero del "venerato maestro" e al quale spettò il compito di custodirne, dopo la morte, l'archivio. A Bologna, infatti, auspice Francesco Carrara, che aveva segnalato al ministro C. Matteucci il "sapere e l'abilità" dell'uomo nonché "le opere di peso … nella scienza criminale, apprezzate anche all'estero ed elogiate" (lettere da Pisa, 22 apr. 1862, e da Lucca, 18 ott. 1862: Roma, Arch. centrale dello Stato, Min. d. Pubbl. Istr., b. 649), l'E. ottenne l'ambito ordinariato in diritto penale con decorrenza dal 16 nov. 1862. Nella stessa città conservò la cattedra fino al 1880, senza peraltro nascondere propositi di trasferimento, "per ragioni gravi e irresistibili e sopra tutto ragioni di salute", che non vennero però realizzati (lettera a G. Tolomei, Pordenone, 10 luglio 1869: ibid.). Il primo tentativo di trasferirsi a Padova, nel 1869, generò infatti imbarazzate ma salde opposizioni dei colleghi, e finì con l'incontrare un secco rifiuto ministeriale garbatamente velato da motivazioni di carattere formale. La manovra per trasferirsi nell'università di Roma, avviata nel 1870 e perseguita esercitando decise pressioni, si prolungò invece per oltre due anni, sino a quando il suo rifiuto fiero e indispettito di un provvedimento finalmente concessogli dal ministro A. Scialoja dopo "penosa incertezza" - che forse gli apparve tardivo e che giudicava "non conforme ai patti convenuti" - risolse l'intera vicenda in una serie di revoche a catena, non prive di strascichi accademici ed amministrativi (lettere a Scialoja, da Bologna, 22 dic. 1872; 5 genn. 1873, e risposta del ministro, da Roma, 2 genn. 1873: ibid.). A Roma sarebbe giunto invece nel 1880, in veste di magistrato della Corte di cassazione, dopo aver abbandonato definitivamente l'insegnamento universitario.
Il primo decennio bolognese, denso di avvenimenti, gli era valso comunque l'acquisizione di un notevole prestigio scientifico ed aveva rivelato le sue doti di lavoratore tenace, di organizzatore di cultura capace di tessere con costanza ampie reti di rapporti e di relazioni. Il periodo, proficuo anche sotto il profilo della produzione propriamente penalistica, fu tra i più intensi della sua biografia intellettuale, in quanto lo vide fondatore e direttore di due riviste che, in diverso modo, acquisirono posizioni di grande rilievo nel panorama della cultura giuridica contemporanea: il Giornale per l'abolizione della pena di morte e poi l'Archivio giuridico.
Con il Giornale, fondato nel 1861, l'E. realizzò con successo il proposito di "riunire in un campo franco valenti combattitori, italiani e stranieri, senz'accettazione di partiti e di scuole" (Manifesto dell'Archivio giuridico, in Arch. giur., I [1868], p. 11), intorno ad uno scopo reso particolarmente vivo ed attuale dalla recente realizzazione dell'Unità nazionale, che imponeva una reale unificazione legislativa per smussare le più eclatanti diversità tra gli ordinamenti e superare la soluzione, provvisoriamente adottata, di estendere la vigenza del codice sardo. Il Giornale si collegò con i principali movimenti europei avversi alla pena capitale, accogliendo contributi o stabilendo contatti con giuristi della statura di K. J. Mittermaier, Fr. v. Holtzendorff, Ch. Lucas, ed ebbe il merito di coordinare sforzi isolati rendendo tangibile l'esistenza di una vera e propria corrente abolizionista italiana, le cui sorti esso accompagnò per un triennio con attacchi decisi, sebbene non risolutivi, al sistema penale vigente, suscitando echi significativi nella concomitante discussione parlamentare. Al di là dei materiali scientifici, di diverso peso e di diversa qualità, che esso offriva unitamente a brevi novelle edificanti, il periodico rappresentò un luogo simbolico di difesa del valore della persona umana. Del resto l'intero dibattito sulla pena di morte aveva assunto in quegli anni valore simbolico: il problema, non appassionante per spessore tecnico-scientifico, era però essenziale nel suo significato generale, come discrimine per contrassegnare le opzioni etico-politiche di fondo dell'intero ordinamento penale. Com'è noto la discussione, che avrebbe concluso la sua lunga ed incerta parabola molto più tardi, si ritrasse per qualche tempo dalla ribalta politica. Parallelamente la direzione del Giornale ritenne di doversi accontentare, pur con grande amarezza, dei risultati morali che aveva conseguito. Nel 1865 un lungo Epilogo a firma del direttore, pubblicato nel fascicolo XII, chiudeva la terza ed ultima annata, mentre l'abolizione della pena capitale, sancita dalla Camera con una proposta di legge del 16 . marzo 1865, trovava nel voto contrario del Senato un ostacolo per il momento non superabile.
L'eco suscitata sia in patria sia all'estero dal "nostro giornaluccio" fu certo anche alla base di un esordio felice nella comunità scientifica e della considerazione relativamente ampia conquistata dal giovane penalista, che dopo tre anni di cura sapiente per la diffusione della rivista conservava oltre duecentotrenta lettere ricevute in qualità di direttore, tra le quali spiccavano i nomi dei più eminenti studiosi di diritto penale del tempo. Anche i suoi lavori precedenti ricevettero un'attenzione rinnovata, meritando, ad esempio, una lunga relazione di Victor Molinier all'Académie de legislation di Tolosa nel luglio 1861, poco dopo la nascita del periodico (Rapport sur les travaux de M. E., in Recueil de l'Académie de legislation, Toulouse 1862). Anche in Italia l'E. cominciò a ricevere qualche riconoscimento per il suo lavoro scientifico: con una memoria sull'Emenda penale nel 1863 vinceva il concorso annualmente indetto dall'Accademia di scienze, lettere e arti di Modena, che ne curò poi la pubblicazione (Modena 1864), tempestivamente messa in luce da una accurata e benevola recensione di F. Carrara (in La Gioventù [Firenze], 1864, pp. 224-228). Lo stesso premio gli fu attribuito anche nel 1865, per uno scritto intitolato Del duello (poi in Opuscoli criminali, pp. 164-244): il "coraggio civile" che vi manifestava attaccando con asprezza ogni favore legislativo per i duellanti gli valse tra l'altro la favorevole Relazione di Enrico Pessina alla R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli (Rendiconti delle tornate, giugno-settembre 1866, pp. 122-125), nonché l'accurata ed equanime analisi di Filippo Ambrosoli (in Monitore dei tribunali [Milano], VII [1866], 13, pp. 297-302).
Con il 1866 per l'E. si apriva intanto l'esperienza di una candidatura politica che gli procurò non poche delusioni, acuite dalla cronaca puntuale che amici friulani gli fornivano di "un continuo, stomachevole brogliare" ai suoi danni con i "mezzi più disonesti e ridicoli" (F. Deciani da Udine, 26 nov. 1866: Arch. Ellero, XV, 11). Fu eletto deputato per il collegio di Pordenone, Aviano e Sacile, dopo una battaglia elettorale durante la quale aveva dovuto difendersi, tra l'altro, da quanti lo accusavano di clericalismo, di essere un "ministeriale sfegatato ed in certi punti anche quasi un codino" (V. Candiani da Pordenone, 17 nov. 1866: ibid., XV, 1, 5b): accuse che certo mal si conciliavano con alcuni tratti della sua composita personalità intellettuale e con i rapporti intrattenuti con esponenti di rilievo di alcune logge massoniche (è probabile, anche se non precisamente documentato, che egli stesso ne facesse parte).
Tuttavia, in mancanza di una sua teoria politica organicamente formulata, sia le posizioni in suo favore sia le critiche espresse nel corso della campagna elettorale fecero perno essenzialmente su un discorso (Primo manifesto agli elettori del collegio di Pordenone, 2 nov. 1866, in Scritti politici, pp. 263 ss.) e soprattutto sulle Doglianze di ser Giusto (Firenze 1866), un pamphlet in forma di soliloquio, dal quale emergeva una appassionata partecipazione agli ideali risorgimentali dell'unificazione nazionale e che raccoglieva "verità spiacevoli" e giudizi pessimistici su vari temi di attualità politica, sociale e culturale: sulla questione dei partiti in Italia, dei democratici e della "schifezza loro", dei moderati e delle "languidezze dei medesimi"; sul Parlamento; sulla religione: ii cattolicesimo e il "suo conflitto col progresso"; oppure ancora sull'istruzione universitaria, su Roma e Venezia, su Mazzini e Garibaldi.
Non si può dire comunque che le opinioni espresse dall'E. a quella data, pur se di frequente riconducibili ad elevati principi morali e non lontane, di massima, dal comune buon senso, apparissero del tutto limpide e univoche. Tra i contemporanei, che pure ne apprezzavano le iniziative, non mancavano le perplessità: così ad esempio Cesare Cantù, costretto a rispondere alla curiosità di Charles Lucas sul colore politico dell'E., esprimeva un visibile imbarazzo, (lettera da Milano, 20 febbr. 1869: Arch. Ellero, XV, IV, 6) e la stampa quotidiana, se non sostenuta da intenti di parte, si sarebbe rassegnata, anche in seguito, a dipingerlo, nel bene e nel male, come un "solitario" difensore della rigenerazione morale del paese. In pochi, insomma, avrebbero azzardato un giudizio sintetico e preciso, appena fuori dalla ristretta cerchia di amici come Giosue Carducci, che non a caso ne individuava la caratteristica principale nel far parte a sé (ibid., X, V, 28), o ancora come Filippo Serafini, che ne disegnava un profilo ispirato dai rapporti personali più che dagli scritti: "governativo sino a un certo punto, ma indipendente. Questa mi pare la tua divisa, ed io l'approvo. Lontano dall'estrema sinistra, ma più lontano ancora dall'eccessivo ministerialismo, soprattutto contrario a tutte le leggi che ci vorrebbero condurre al medio evo. I preti sono i nostri peggiori nemici. Libertà senza licenza, sempre progressivo" (lettera da Pavia, s.d. [ma giugno 1866]: ibid., XV, II, 9). Certo è che solo più tardi, con la pubblicazione, tra gli anni Settanta e Ottanta, delle sue maggiori opere "sociali", sarebbero emersi più chiaramente alcuni tratti distintivi del suo pensiero, peraltro non scevri da contraddizioni: l'ostilità verso la borghesia come élite di potere, ad esempio, o l'impostazione cristiana, ma anticlericale, della sua visione dello Stato, la condanna del parlamentarismo insieme con il favore per il suffragio universale.
La critica anche aspra dell'esistente rimase tuttavia negli anni l'elemento di maggior peso nelle sue argomentazioni, prevalente e più attenta rispetto all'elaborazione di soluzioni alternative, sebbene proprio a quest'ultimo scopo fosse destinata ad esempio La riforma civile (Bologna 1879, poi Torino 1881), pensata come pars construens di una trilogia di scritti degli anni Settanta, il primo dei quali, La questione sociale (Bologna 1874), attrasse l'attenzione di molti e fu oggetto di numerosissime note e recensioni sulla stampa giuridica e politica. In essa l'E. aveva indicato in una chiave universalistica i "mali" che generalmente affliggono "l'umano consorzio", l'imprescindibilità di taluni di essi e l'emendabilità di altri all'interno degli ordini civili, di cui comunque escludeva ogni repentino sovvertimento di natura rivoluzionaria. Era seguito poi il volumetto, assai noto, su La tirannide borghese (Bologna 1879), che al successo del suo titolo, troppo spesso ripetuto e parafrasato, deve molta della sua fama, ma anche numerosi fraintendimenti. L'E. vi aveva illustrato il concreto manifestarsi dei mali sociali nell'Italia del tempo, considerati non solo da un punto di vista economico e politico bensì anche etico, individuandone "la fonte suprema" nell'"instaurazione del dominio borghese". Infine, con la terza monografia aveva inteso formulare un sistema virtuoso di riforma, ispirato al culto della civiltà classica e della romanità non meno che ad un ideale evangelico di fratellanza universale, giungendo a riassumerne i capisaldi in 350 aforismi, ordinati curiosamente in "dodici tavole".
La sua prosa, retorica ed ampollosa, si rivelava però, specie nella parte propositiva, più spesso allusiva che concreta, attirandosi talora il giudizio severo che andava diffondendosi Oltralpe sulla produzione italiana di tal genere, e che accreditava lo stereotipo dell'eccessiva verbosità e astrattezza di questa ai danni della solidità argomentativa. Non meraviglia, dunque, se ancora nella storiografia recente i rari giudizi sull'E. discordino spesso proprio sulle definizioni più generali, al punto da collocarne la figura di volta in volta tra i liberali conservatori, tra i "socialisti conservativi", tra gli antisocialisti. Se comunque è possibile inquadrare da un punto di vista scientifico alcune parti della sua opera nel filone del socialismo giuridico o, com'è stato opportunamente scritto, tra gli "incunaboli" di tale corrente, se vi si possono riconoscere numerosi elementi della successiva dottrina della classe politica di Gaetano Mosca, rimane arduo riassumere in una prospettiva generale, che restituisca un'immagine coerente ed esaustiva, la sua attività intensissima protrattasi per oltre sessant'anni e rifluita in una produzione consistente e differenziata.
La vittoria elettorale del 1866 sull'avversario avvocato Valentino Galvani fu ben accolta negli ambienti governativi e particolarmente da Quintino Sella, che, reduce dall'incarico di commissario del re a Udine, conosceva i circoli politici friulani e ne seguiva con interesse le sorti dopo la recente annessione. Il mandato parlamentare fu assai breve, ma fu seguito immediatamente da una seconda elezione per la quale l'E., riconfermato il programma politico dell'anno precedente (Secondo manifesto agli elettori del collegio di Pordenone, 18febbr. 1867, in Scritti Politici, pp. 289 ss.), poté giovarsi del pubblico appoggio del generale Garibaldi, con cui era entrato in contatto come direttore del Giornale per l'abolizione della pena di morte, grazie alla mediazione del penalista massone Luigi Zuppetta.
Nell'attività di deputato ebbero sempre posto di rilievo i temi cari al penalista e al docente. Il rigoroso attaccamento a principi morali lo condusse ad assumere atteggiamenti di critica radicale e a formulare, contro il consiglio di molti amici e colleghi, fermi propositi di dimissioni già nel marzo 1867. In seguito sarebbe stato sollecitato a candidarsi da diversi comitati democratici, liberali e progressisti e da circoli elettorali veneti e friulani, che lo dispensavano dal fornire un programma citando La tirannide borghese. Ma a parte la breve parentesi di una infruttuosa candidatura alla Camera nella II circoscrizione provinciale di Padova, in occasione delle elezioni del 1882 (Arch. Ellero, XV, V), l'E. rimase a lungo lontano dal Parlamento, per riaffacciarvisi solo nel 1889, con la nomina a senatore del Regno. Costante negli anni fu comunque il suo rapporto di collaborazione con le numerose commissioni legislative e di studio cui prese parte in vesti diverse.
Tra queste vanno ricordate almeno la commissione per la stesura del trattato di pace con l'Austria; la sottocommissione per il riordinamento degli studi di giurisprudenza; la commissione per il progetto di legge sull'estradizione, in seno alla quale si batté contro la formulazione categorica dei reati da considerare, sostenendo l'opportunità di valutare i singoli casi per tener conto della "realtà sostanziale delle cose", giacché "fin lo stesso veneficio e parricidio (come gli esempi storici ammaestrano) può in date contingenze divenire reato politico" (Progetto preliminare di una legge sull'estradizione, s. d., con osservazioni manoscritte: ibid., V, 8).
Ma soprattutto costante fu la sua partecipazione alle diverse fasi di elaborazione, revisione e modifica del progetto di codice penale per il Regno d'Italia, al cui iter egli contribuì sin dal primo avvio. Il suo nome compare puntuale tra quelli dei principali protagonisti ed artefici della lunga vicenda legislativa, chiamati ripetutamente a raccolta dai giuristi e politici che nel corso degli anni si trovarono a guidarne gli sviluppi dal vertice del ministero. Ripercorrendone solo alcune tappe principali, lo ritroviamo di volta in volta al fianco di Pisanelli nel 1863; di De Falco nel 1866, di Mancini nel 1876 ed infine nel 1888, per le modifiche da apportarsi al codice già approvato, con Zanardelli, che del consiglio dell'E. aveva voluto giovarsi già nel 1881 nella commissione di riforma del codice penale militare. L'E. non mancò mai di fornire argomenti alla discussione, rifluiti in gran parte in una serie di articoli apparsi sul Giornale e sull'Archivio giuridico (poi raccolti in Opuscoli criminali), in cui ne criticava minuziosamente l'andamento.
Persuaso che "i codici sono monumenti che solo la scienza e la coscienza di un intero popolo aderge grandi e incrollabili", auspicava che le commissioni legislative operassero in un'armonia sociale ed istituzionale perfetta, quasi utopistica, grazie cioè a "persone che a ciò solo dedichino tutta la loro operosità" sulla base di una "cooperazione vasta, paziente e seria promossa con la stampa, con radunanze di legisti, con consulte di tribunali e facoltà". In tal modo si sarebbero infine presentate "all'Italia leggi veramente italiane" e non più le copie di leggi "esotiche, e particolarmente le copie francesi" (Sulla revisione delle leggi penali del Regno d'Italia, in Giornale per l'abolizione della pena di morte, III [1864-65], pp. 200-221). Nei confronti dell'abusato ricorso a modelli stranieri egli espresse sin dal principio rammarico e "vergogna" e rinsaldò negli anni tale drastico giudizio: "io giudico il codice italiano, o sardolombardo che dir si debba, un'opera legislativa così radicalmentre viziata, da non essere solo zeppa di mille difetti e nella forma e nell'essenza, ma inemendabile. Quantunque la giurisprudenza nazionale abbia in parte corretto lo straniero esemplare, che noi italiani, già creatori in diritto, o per fretta, o per apatia o per senilità… prescegliemmo imitare, esso rimane una veste barbarica, rappezzata con qualche brandello di toga romana" (Note critiche al primo libro del codice penale italiano, ibid., pp. 331-341). D'altra parte se nel codice sardo non vide altro che un raffazzonamento dell'"incorregibile stampo" francese, in quello toscano leggeva un'imitazione tedesca altrettanto inadatta all'Italia, sebbene mostrasse di preferire quest'ultimo, "più sistematico, più breve, più accurato, più venusto, più clemente, più razionale". Nell'ambito dei lavori legislativi fece valere la sua competenza su vari temi e, secondo la testimonianza di Luigi Lucchini, lasciò qualche impronta non trascurabile nella definizione, ad esempio, dei problema del delitto politico esercitando, in coerenza col suo carattere, "un'efficace (e scomoda) ma savissima influenza" nella sottocommissione (lettera da Roma, 28 febbr. 1889: Arch. Ellero, XIV, IX, 10).
La codificazione penale e i suoi problemi, primo tra tutti quello dell'abolizione della pena capitale, costituirono peraltro il terreno sul quale attecchì la lunga e proficua amicizia con Francesco Carrara, costruita nell'ambito di un rapporto epistolare assai ricco che accompagnò ogni passo della carriera dell'E., fino a costituire il luogo quasi imprescindibile per una comprensione effettiva di molte opzioni scientifiche compiute nel corso degli anni. Qualche frutto della riflessione comune e degli scambi intercorsi trovò espressione, negli anni Settanta, nel Ragionamento critico e note compilati a quattro mani per accompagnare la traduzione italiana del Codice penale dell'Impero germanico condotta da G. Gualtierotti Morelli e D. Feroci (Torino 1874). Al magistero del giurista toscano, oltre che alla sua protezione accademica ed al suo consiglio, l'E. si era comunque rivolto con piena fiducia e ammirazione sin dai primi anni bolognesi, quando aveva cominciato con l'approfondire lo studio del Programma di Carrara e lo aveva poi adottato "come testo in questa Università", illustrandone le teorie agli "scuolari", specie in tema di "dolo, conato e complicità" (lettera a F. Carrara, Bologna, 20 apr. 1862: Lucca, Bibl. statale, Fondo F. Carrara, Epistol., VIII, 145).
Chiusa l'esperienza di deputato, col 1868 l'E. era tornato a dedicarsi principalmente al lavoro scientifico, e in particolare alla nuova impresa editoriale dell'Archivio giuridico.
Nel dar vita ad una rivista di più ampio oggetto e respiro, realizzava anche un vecchio suggerimento manifestatogli da molti colleghi e amici, tra i quali Serafini, lo stesso Carrara e altri ancora, già ai tempi della fondazione del Giornale. E infatti, nel presentare l'Archivio dichiarava la discendenza diretta di esso da quella "raccoltina, di umili obbietti e proporzioni, e che tuttavia cattivò sopra di sé e … sovra la mia nazione lontane e pur calde simpatie" e che, accolta allora da taluni "con un sorrisetto di compassione, dicendo: oh vedi bizzarria d'un giornale che tratta d'una cosa sola!", risorgeva ora in un periodico "ampliato, trasformato e volto ad allargare in una vasta sfera quello indirizzo di rigenerazione morale" (Manifesto dell'Archivio giuridico, p. 11). Il primo numero suscitò grande interesse in Italia e all'estero, dove l'E. cercò sempre di diffondere le proprie opere e iniziative con la cura meticolosa e lo spirito pubblicitario di un buon imprenditore. Tra le numerose pagine di commento che ne scaturirono, le più lusinghiere furono forse quelle di Bernhard Windscheid che, traducendo su una prestigiosa rivista alcuni brani del Manifesto con cui l'E. aveva inaugurato l'Archivio, ne apprezzò senza riserve l'intento di contribuire, unendo la teoria e la pratica, all'unificazione culturale e scientifica della nazione italiana. Certo Windscheid, esponente esemplare di una cultura giuridica ben più votata al rigore delle distinzioni, non celava qualche benevola perplessità di fronte al proposito, tutto italiano, di riunire in un periodico elementi assai diversi, senza alcuna esclusione, ma comunque si mostrava disposto a credere che una tale impresa - che in Germania sarebbe di certo naufragata sul nascere - potesse avere in Italia qualche chance di successo, contribuendo in ultima analisi anche al "geistiger Austausch" tra due paesi destinati, pur nella diversità, a procedere "miteinander und nicht gegeneinander" (in Kritische Vierteljahresschrift für Gesetzgebung und Rechtswiss., X [1869], pp. 607-610). Altrettanta fiducia si accordava all'Archivio in Francia, dalle pagine della Revue critique de legislation et jurisprudence, dove Ernest Dubois gli attribuiva maggior credito che alle "nombreuses publications périodiques, qui appareissent si souvent en Italie pour ne vivre que quelques jours" (XXXIV [1869], pp. 343-46). Di lì a poco inoltre l'E. sarebbe divenuto corrispondente della Società di legislazione comparata di Parigi (Arch. Ellero, XXV, XI, aggiunta C). La fondazione dell'Archivio, d'altra parte, si era posta in sintonia con un'esigenza di coordinamento delle forze intellettuali, molto diffusa nel panorama della cultura giuridica italiana postunitaria ed espressa in una serie di iniziative coeve, di scuole diverse, ma tutte apparentate nello sforzo di favorire il progresso della giurisprudenza e della legislazione nazionali. Anche se con una forte vocazione individualistica e con la spiccata tendenza a distinguere le proprie opinioni dalle altrui, l'itinerario intellettuale del giurista friulano coincideva, per molti aspetti, con simili tentativi di cooperazione volti a rigenerare e unificare la scienza giuridica, ed in tale orizzonte si iscriveva, per esempio, il suo intento, assai bene accolto ma non realizzato, di fondare un Istituto giuridico nazionale sul finire degli anni Sessanta.
Nel 1869 la morte della giovane moglie Maria Deciani, madre dell'unica figlia, colpì duramente l'E. e verosimilmente fu alla base di una cesura nel suo percorso professionale, manifestata anche dal suo desiderio di allontanarsi dalla cattedra bolognese. Certo "colla moglie perdette anche l'energia necessaria per dirigere l'Archivio Giuridico", così almeno riferiva Filippo Serafini, che fu indotto ad assumerne "l'eredità, benché passiva", in nome di un sentimento di amicizia verso il collega di facoltà, il quale "affranto … abbisognava di un lungo periodo di riposo", (Serafini a Carrara, da Bologna, 20 febbr. 1869 e 20 apr. 1869: Lucca, Bibl. stat., Fondo F. Carrara, Epistol., XVII, 173 e 174). Sicché la rivista, ceduta il 15 apr. 1869 dopo brevi tentativi di dissuasione (Serafini all'E., da Bologna, 13 apr. 1869, e scrittura privata, datata Bologna, 15 apr. 1869: Arch. Ellero, IX, VII, 1, e 10), sin dal numero di maggio usciva sotto la guida del nuovo direttore e presto avrebbe mostrato riconoscibili impronte della diversa formazione e personalità scientifica di questo, senza peraltro dimenticare, nelle occasioni celebrative e ufficiali, di collegarsi, come a una nobile tradizione, alle sue prime origini e al suo fondatore.
Alla metà degli anni Settanta l'E. trovò nuovamente interesse per la didattica, con l'esperienza di un corso gratuito di storia dei trattati, grazie al quale rinverdiva la passione giovanile per la storia universale e per gli argomenti internazionalistici. Il suo entusiasmo, unito sempre a un forte spirito critico, ben traspariva dalla prolusione su I vincoli dell'umana alleanza (Bologna 1876), dove risultava il suo disprezzo per il "cosmopolitismo, anonimo e vuoto" e più chiara l'esortazione a non dimenticare di appartenere alla "schiatta italiana", ad essere moderati, giusti e pacifici, ma al tempo stesso "romani" e "forti". Per il corso stilò un programma assai ampio (Arch. Ellero, XIII, IV) ricorrendo alla bibliografia di Ch. Vergé, che corredava il Précis du droit des gens di G. F. Martens (Paris 1858). Raccolse le lodi del ministro M. Coppino, il quale mostrava di avere a cuore la difficile situazione, nelle università italiane, dei numerosi corsi giuridico-politici istituiti e poi degradati ad insegnamenti complementari, ma tuttavia non gli confermava l'incarico per l'anno successivo (lettera da Roma, 20 nov. 1876, Arch. centr. d. Stato, Min. d. Pubbl. Istr., b. 649). Sensibile alle piccole delusioni della vita accademica, che registrava con sempre più frequente rammarico, l'E. rimase sulla cattedra bolognese di diritto penale ancora pochi anni, talora coinvolto in nuove iniziative collettive, come quella promossa da Mancini per la costituzione di comitati locali dell'"Associazione italiana pel miglioramento della legislazione penale e per l'abolizione della pena di morte" (Lucchini all'E. da Venezia, 23 genn. 1875: Arch. Ellero, XIII, IV, 8c), ma dedicandosi prevalentemente alla stesura degli scritti politico-sociali già ricordati e alla raccolta in volumi, presso l'editore bolognese Fava e Garagnani, dei suoi articoli e prolusioni (Opuscoli criminali, 1874; Trattati criminali, 1875; Scritti minori, 1875; Scritti politici, 1876), che in qualche caso dovette rassegnarsi a pubblicare a proprie spese.
Nel 1880 si adoperava per passare nei ranghi più elevati della magistratura, forse anche tenendo conto del parere di Assuero Tartufari, collega ed amico, che lo aveva consigliato in tal senso: "l'indipendenza di un magistrato di Cassazione è pari a quella di un professore. Nella sezione penale la fatica è pochissima. Gli altri vantaggi … li conosci" (14 nov. 1879: Arch. Ellero, XIV, I). Ottenne dunque la nomina a consigliere di Cassazione il 12 giugno 1880, e di lì a poco l'università di Bologna gli tributò il titolo di emerito della facoltà di giurisprudenza, che si andava ad aggiungere al suo già ricco cursus honorum: cavaliere e poi ufficiale dell'Ordine mauriziano, e dal 1878 commendatore della Corona d'Italia. All'esordio della sua carriera di magistrato pose come condizione irrinunciabile la sede romana, e la ottenne anche contro il parere, trasmesso al ministro in via riservatissima da uno "schietto" ed influente collega come Tancredi Canonico, che avrebbe preferito la destinazione dell'E. all'uffico del pubblico ministero di Torino: "sarebbero così evitati incidenti spiacevoli che, conoscendo la persona, ho motivi di temere molto facili qualora fosse nel collegio giudicante" (5 giugno 1880: Arch. centr. dello Stato, Min. Grazia e Giustizia, Fasc. pers. magistrati, b. 0097, fasc. 32241). L'E. coprì l'incarico in Cassazione per un decennio, durante il quale conobbe un nuovo periodo di grande attività.
Mentre a Bologna, nel 1881, venivano ristampate per i tipi di Zanichelli tre delle sue raccolte di scritti, l'E., passato a seconde nozze con Anna Damiani nel 1882, oltre al lavoro di magistrato, continuò a dedicarsi alla speculazione teorica e all'elaborazione di nuovi tasselli della sua opera giuridico-politica. Nel 1886 pubblicò La sovranità popolare (Bologna 1886), in cui accentuava la critica verso le "oligarchie parlamentari", confermava la condanna dei due "flagelli" del socialismo e del clericalismo e si schierava a favore del suffragio universale, contro le false aristocrazie fondate sul censo.
Il volume, spedito in dono al re dall'E., destò qualche sospetto negli ambienti ministeriali vicini alla Corona, fugati poi dal guardasigilli D. Tajani che, commissionatone l'esame ad un solerte funzionario, inviava al ministro della Real Casa un dettagliato rapporto, nel quale, ferme le riserve su molti giudizi espressi nel libro, lo giudicava "opera di un serio pensatore che tratta il suo tema … senza mai uscire dai limiti del campo puramente speculativo, massime per quanto riguarda le cose d'Italia" (Arch. centr. dello Stato, Min. Grazia e Giustizia, ibid.). L'idea che la "compagine sociale" fosse costituita "dall'universalità dei cittadini" e che questi dovessero rimanere titolari del potere di autodeterminazione, nonché della potestà legislativa che "emana dalla sovranità eterna" del popolo, costituì un polo importante della riflessione dell'E. nel periodo della maturità, tenuto fermo anche con qualche contraddizione interna al suo pensiero. Un principio che gli apparve meno utopistico ed anzi concretamente realizzabile, "grazie alla piccolezza del territorio", nel "popolo adunato in Arringo" della Repubblica di San Marino, al cui caso si interessò assai da vicino, guadagnandosi il titolo di cittadino e patrizio sammarinese (Parere sulla petizione presentata all'Arringo della Repubblica di San Marino per l'adozione del referendum, San Marino 1902).
Grazie ad una ambita nomina a consigliere di Stato il 1º genn. 1890, l'E. abbandonava la Corte di cassazione per aprire, quasi sessantenne, un nuovo capitolo del suo lungo e vario impegno intellettuale. Assegnato alla seconda sezione, Grazia e Giustizia, l'E. vi lavorò per tutto il decennio che lo separava dal suo collocamento a riposo, con una sola breve parentesi per i primi mesi del 1891, durante i quali fu trasferito presso la quarta sezione del Consiglio di Stato, istituita da soli due anni e al centro, com'è noto, di importanti problemi di definizione dell'assetto organizzativo dell'amministrazione nello Stato liberale.
In seno al Consiglio, continuò a dar prova della sua grande operosità con la stesura di pareri e sentenze (raccolte in quattro fascicoletti autografi: Pareri di P. Ellero: Arch. Ellero, XIV, Consiglio di Stato, III) e partecipando ai lavori di commissioni speciali, come quella istituita nel 1890 sotto la presidenza di Tabarrini per l'esame del progetto di legge consolare. D'altra parte, fedele alla sua fama di critico vigile e schietto della politica e del sistema istituzionale del paese, non mancò di pronunciare "verità scottanti con libertà inconsueta tra la muffa di codesta aula" (M. Napisardi, da Catania, 3 apr. 1892: ibid., XIV, XIII, 23).
Il pensionamento, nel gennaio 1900, con il titolo onorifico di presidente di sezione del Consiglio di Stato, lo indusse, piuttosto che al riposo, ad intensificare l'attività teorica e la riflessione su temi impegnativi. Nel 1901 apparve infatti L'eclissi dell'idealità, che segnava un accentuarsi dei profili più marcatamente ideologici della sua produzione e suscitò un'eco considerevole, che metteva in evidenza soprattutto il violento attacco dell'E. alla cultura del positivismo, accusata tra l'altro di essersi servita delle teorie degli antichi filosofi senza conoscerle, sottraendole al loro contesto spirituale.
Il positivismo ne risultava come il "nemico delle idealita più sacre" avendo il materialismo tra le sue radici. Il volume fu facile preda di strumentalizzazioni da parte della stampa quotidiana più politicizzata, che si affrettò a sottolineare come "il forte pensatore, una volta portato in palma di mano dai democratici, ai quali pareva di comprenderlo ad orecchio", raccogliesse ora a buon diritto l'elogio dei conservatori. Nel libro prendeva intanto avvio una riflessione legata a profili etnologici e razziali, che avrebbe trovato compiuto svolgimento nei due volumi dell'ultima corposa opera dell'E., La vita dei popoli, fondata su una speciale accezione della "demologia", pubblicata a Torino nel 1912 e ristampata a cura dell'autore ormai ultranovantenne nel 1925.
Frattanto, sin dal 1889, appoggiato da Zanardelli, che si era detto "lieto di rafforzare per tal modo … i rappresentanti delle idee liberali" (Arch. Ellero, XV, VI, 1), l'E. era entrato in Senato, dove aveva fatto sentire la sua voce con discorsi e relazioni e petizioni (copia autografa: ibid. XV, VI) sui più vari argomenti, che talora raggiunsero le cronache giornalistiche. Così, ad esempio, avvenne quando l'E. pronunciò il suo voto contrario alla legge sugli infortuni sul lavoro (3 marzo 1892: ibid., XV, VI, 1, VI) in quanto la ritenne imitazione di modelli stranieri, contraria al "genio nazionale", o ancora quando, in concomitanza con l'intensificarsi degli scioperi a cavallo tra la fine del secolo e gli inizi del Novecento, sferrò un duro attacco contro la "tirannide plebea". Suoi interventi sporadici ma coerenti si udirono ancora per qualche anno fino addirittura a risuonare in un'aula parlamentare ormai fascista.
Nel 1928 l'università di Bologna inaugurava il monumento al suo illustre docente, mentre questi già da alcuni anni annotava la dolorosa "risultanza passiva" di tutte le sue pubblicazioni e la "generale noncuranza" verso le sue opere. Una delusione cocente che lo aveva indotto, nel 1901, a gettare "entro la stufa" il manoscritto della "Ragione criminale, frutto di quarant'anni di meditazione, dal '56 al'96 circa, condensato in alcune migliaia di aforismi"; e nel 1925 a troncare "con un falò" i suoi Aforismi storici, esprimendo così la rabbia di sentirsi bandito "dalla repubblica letteraria", (ibid., XXV, IX, aggiunte A).
L'E. morì a Roma all'età di cento anni, il 31 genn. 1933, non senza aver redatto un accorato testamento spirituale, in cui tra l'altro confermava alla sua nazione "l'augurio di riprendere, malgrado ogni incombente e transeunte necessità, la sua storia gloriosa … e di riassumere l'inalienabile suo magistero di civiltà a beneficio del genere umano" (ibid., aggiunte C).
Fonti e Bibl.: Fonte principale è il vasto Archivio Ellero, conservato presso la Biblioteca universitaria di Bologna (ms. 4208), dove fu versato nel 1935 da G. Brini cui era stato legato nel 1916. Ulteriori notizie si rinvengono presso l'Archivio centrale dello Stato, Roma, in Ministero della Pubblica Istruzione, II versamento, 1860-1880, Personale, busta 649; ed in Ministero di Grazia e Giustizia, Fascicoli personali magistrati, busta 0097, fasc. 32241. Alcuni inediti di non grande rilievo sono conservati nell'archivio bolognese; tra questi: lettera a Leone XIII, Siena, 18 luglio 1903 (composta per la stampa ma non pubblicata: Arch. Ellero, V, 17) e un quadernetto contenente quattro scritti del 1920-22, a carattere prevalentemente autobiografico e allegorico (ibid., V, 18, 19, 20, 21). Parti più o meno consistenti del suo considerevole epistolario sono conservate in numerose biblioteche italiane e straniere. Tra le più interessanti e numerose, vedi le lettere a Francesco Carrara dal 1861 al 1878, conservate a Lucca (Bibl., statale, Fondo F. Carrara. Epistolario, VIII, da 141 a 194); tredici lettere a C. J. A. Mittermaier (Heidelberg, Universitätsbibliothek, Nachlaß Mittermaier, Heidelb. Hs. 2468); vedi inoltre le corrispondenze con P. S. Mancini, Augusto Pierantoni, Domenico Farini e altri (Roma, Museo centrale del Risorgimento); diciannove lettere a Niccolò Tommaseo dal 1860 al 1872 (Firenze, Bibl. nazionale, Cart. N. Tommaseo, 77. 113); sei lettere a A. De Gubernatis (Ibid., Cart. A. De Gubernatis, c. 48, n. 22).
La bibliografia degli scritti tra il 1858 e il 1915 è stata raccolta da M. Sbriccoli in Elementi per una bibliografia del socialismo giuridico italiano, Milano 1976, pp. 60-63. Tra le recensioni coeve più significative di singoli scritti o di gruppi di opere cfr. V. Capelli, Della questione sociale in Italia, Bologna 1884; G. Brini, Le opere sociali di P. E., Bologna 1887; Id., Il governo popolare e la sovranità popolare secondo due ultime pubblicazioni di Sumner Maine e P. E., in Il Filangieri, XII (1887), pp. 193-228; F. Armelani, E. o Guyot? Studio critico sociale, Pitigliano 1895; Id., E. o Guyot? Ossia tirannide borghese o tirannide socialista?, pt. II, ibid. 1896; N. Malvezzi, Intorno alle opere sociali di P. E., in Rivista d'Italia, IV (1901), pp. 451-475; D. Zanichelli, Le opere sociali di P. E., in Nuova Antologia, 1º ott. 1901, pp. 506 ss.; G. Brini, A proposito dell'opera "La vita dei popoli" di P. E., in Riv. ital. per le scienze giuridiche, LIII (1913), pp. 1-39. Una imponente collezione di scritti su di lui, suddivisa per singole opere e comprendente anche ritagli giornalistici minori, è stata raccolta dall'E. in vita in Arch. Ellero, dal cartone XVII al XXV, p. I, e completata da Brini, ibid., XXV, p. II. Si segnalano i necrologi di A. Loria, P. E., in Archivio giuridico, s. 4, XXV (1933); L. Rava, P. E. Commemorazione, in Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le province di Romagna, s. 4, XXIII (1933); G. Brini, P. E., in Annuario della R. Univ. di Bologna, 1933-34; Id., Commemorazione, in Memorie della R. Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna, s. 3, VII (1932-33). Tra i contributi volti, in diversa misura e con varietà di giudizi, a illuminarne qualche profilo o a fornire notizie biobibliografiche, vedi [G. Picchioni] Notizie storiche e condizioni presenti della R. Accademia scientifico-letteraria di Milano, Milano 1865, pp. 3-7; L. Bulferetti, Le ideologie socialistiche in Italia nell'età del positivismo evoluzionistico (1870-1892), Firenze 1951, spec. pp. 5 2 ss.; E. Ripepe, Le origini della teoria della classe politica, Milano 1971, pp. 207-246; U. Guerini, Socialismo giuridico e diritto penale, in Politica del diritto, 1974, pp. 435-40; V. Accattatis, Introduzione, in P. Ellero, La tirannide borghese, Milano 1978; N. Dell'Erba, P. E. e la "dottrina della classe politica", in Il positivismo nella cultura italiana, a cura di A. Papa, Milano 1985, pp. 299-305; M. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento, in Quad. fiorentini, II (1973), pp. 617, 644, 647, 672; Id., Il diritto penale sociale (1883-1912), ibid., III-IV (1975), p. 567 n.; Id., La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale in Italia, in Stato e cultura giuridica in Italia dall'Unità alla Repubblica, a cura di A. Schiavone, Roma-Bari 1990, pp. 157, 163-165; E. Albertoni, Storia delle dottrine politiche in Italia, II, Milano 1990, pp. 563-567; M. Da Passano, La pena di morte nel Regno d'Italia (1859-1889), in Materiali per una st. della cultura giur., XXII (1992).