PIETRO di Puccio
PIETRO di Puccio. – È ignota la data di nascita di questo pittore e mosaicista orvietano (per i dubbi identitari: Ermini, 2007, pp. 212 s.), la cui attività documentata nella città d’origine è in gran parte legata al duomo. Le prime attestazioni risalgono al 1360 (il documento del 1350 segnalato da Catherine Harding [1989, p. 92] è da attribuire a un refuso della studiosa), quando collaborò – non sappiamo con quali mansioni – alla pittura della cappella del Corporale, condotta da Ugolino di prete Ilario (Fumi, 1891, p. 386). La paga modesta, rimasta pressoché invariata nel 1362 (ibid.), è indice d’età acerba e d’un ruolo subalterno. L’8 aprile 1364, con uno stipendio quasi doppio, fu ingaggiato per un anno nel cantiere dei mosaici della facciata, col compito di tagliare il vetro e fare ogn’altra cosa assegnatagli da Giovanni Leonardelli, il pittore e mosaicista allora a capo dell’impresa, e dal camerario dell’Opera Paoluccio di Iacobello Magalotti (ibid., p. 133). Durante quel mandato, in estate, dipingeva nella cappella del Corporale (Fumi, 1891, p. 387). Nel dicembre 1368 gli furono pagati i lavori per tre tavolette, quattro cornici e altre pitture per la Maestà della tavola ora nella cappella di S. Brizio del duomo di Orvieto (ibid.; una recente interpretazione sulla funzione di questi elementi e sulla natura dell’intervento pittorico è in De Marchi, 2010). A un anno di distanza ebbe il compenso, a cottimo, per la pittura di otto mezze figure «cum frescis et cum porfidis» nell’«anditus» della facciata (Fumi, 1891, p. 135), identificabile con la galleria tra il primo e il secondo livello. Nella seconda metà del 1370 partecipò alla pittura della tribuna, percependo ormai lo stipendio maggiore tra gli aiuti di Ugolino (Andreani, 1995). Nel dicembre 1371 fu incaricato di dipingere altre trenta mezze figure circa nell’andito della facciata, con la specifica che fossero «mitrate» (Fumi, 1891, p. 136; forse una serie dei vescovi locali secondo Fratini, 2007, p. 192); l’accordo stabiliva che il lavoro doveva essere compiuto entro la fine del maggio successivo (1372). Data la cronologia delle vicine storie a mosaico, è verosimile che Pietro abbia dipinto nel 1369 la sezione di sinistra, poi (dal dicembre 1371) la centrale e la destra.
Fondamentale nella sua carriera fu l’attività di mosaicista, la cui ricostruzione è oggi problematica. Si conosce per via indiretta il testo della sottoscrizione in lettere gotiche – l’unica sua nota – che si trovava su un gradino del tempio nella Presentazione della Vergine, raffigurata nel timpano superiore destro della facciata (la scena è oggi presente in un rifacimento posteriore): «Petrus Putii de Urbeveteri me fecit anno MCCCLXXVI. VIII. [sic] mensis Iunii» (Orvieto, Archivio dell’Opera del duomo, ms. 594: G.C. Clementini, Esatta descrizione del celebre Duomo o sia Chiesa Cattedrale di Orvieto e facciata di essa [primi anni del sec. XVIII], p. 26).
La notizia, diffusa tra gli altri da Luigi Fumi (1891, p. 107), è stata accolta dalla maggior parte degli studiosi malgrado le divergenze con i documenti (è privo di riscontri il presunto contratto per quest’opera menzionato da Corrado Fratini [2007, p. 192]; è ugualmente erroneo il riferimento a Pietro e agli anni 1381-1388 dello Sposalizio della Vergine [ibid.]). La data 1376 riportata nella perduta iscrizione è stata contestata da Pericle Perali (1919, p. 279), per il quale l’anno corretto sarebbe il 1386. In effetti, il 3 febbraio 1381 Pietro fu nominato per un anno maestro «musaici et pennelli» (Fumi, 1891, p. 137) della fabbrica (non capomastro, com’è stato talvolta sostenuto), con un mensile di 4 fiorini e l’incarico di lavorare al mosaico sopra la porta dell’Inferno, identificabile con la citata Presentazione e ancora incompleto nel marzo 1386 (ibid., pp. 137 s.). Tali elementi rendono quindi più plausibile quest’ultima datazione. Da notare, comunque, che già nell’aprile del 1380 l’artista, definito «magister musaici», riceveva quel compenso (ibid.; Harding, 1989, p. 101).
Nel 1378 Pietro dipinse le armi papali (probabilmente del neoeletto Urbano VI) all’esterno del palazzo del Popolo insieme ad Antonio di Andreuccio, con il quale lavorò anche in altre occasioni (Ermini, 2007, p. 207). Entro il 15 febbraio 1388 dipinse per l’Opera del duomo un cofanetto per le ostie sistemato dall’orafo Meo di Ventura (Fumi, 1891, p. 390), con cui collaborò ancora in seguito. Il 4 aprile seguente s’impegnò a fare i mosaici intorno al rosone del duomo (ibid., pp. 138 s.).
Del lavoro restano nel Museo dell’Opera, rimaneggiati, un S. Girolamo e un S. Ambrogio. Mentre lavorava ai mosaici, nel 1386 e nel 1388, Pietro reclamò, e in parte ottenne, una paga più alta (ibid., pp. 137 s., 139); se tali concessioni sono la spia del rango acquisito nel cantiere, occorre notare che, nel primo caso, egli esigeva 6 fiorini al mese, una cifra già corrisposta a Giovanni Leonardelli e a Ugolino di prete Ilario per lo stesso compito.
Nucleo imprescindibile per la ricostruzione del corpus di Pietro sono le pitture, ora malridotte, nel muro settentrionale del chiostro del Camposanto di Pisa, che, prima delle ricerche di Sebastiano Ciampi (1810; da subito capace di collegare il pittore documentato a Pisa alle notizie orvietane su Pietro pubblicate da Guglielmo Della Valle [1791]), erano suddivise sulla scorta di Giorgio Vasari (1568, II, 1967) tra il fiorentino Buffalmacco (Cosmografia e Storie della Genesi) e il senese Taddeo di Bartolo (Incoronazione della Vergine).
I dipinti vantano una descrizione in versi databile al tardo secolo XV (Supino, 1896, pp. 308-310, 313). Il 15 luglio 1389 il «viator» Cola del fu Gilio da Orvieto fu saldato per aver portato a Pietro, definito «pictor et musaicus [sic]», l’invito a dipingere nel Camposanto (Tanfani Centofanti, 1897, p. 428). All’inizio di agosto Pietro doveva già essere in città con il «discipulus» Bartolomeo (forse il pittore Bartolomeo di Pietro, suo possibile figlio, o un Bartolomeo di Giovanni: Ermini, 2007, pp. 206 s., 218 nota 46). L’ingaggio prestigioso dimostra la stima goduta in una piazza lontana e rilevante come Pisa (senza prove, e anzi negato dalle evidenze note, è l’espatrio per disordini ed epidemie asserito da Elvio Lunghi [1997]). Trascurata, ma importante almeno per la ricostruzione del contesto, è la notizia di una fideiussione in suo favore da parte di ser Antonio del fu Enrico da Orvieto «offitiale delle vie del comune di Pisa» (Tanfani Centofanti, 1897, pp. 430 s.). Il lavoro fu rallentato da un’infermità iniziale di Pietro, ma il 24 gennaio 1391 le Storie della Genesi erano state concluse da qualche tempo (ibid., pp. 432 s.). Il pittore vi aveva lavorato per dieci mesi e sei giorni e fu pagato con un mensile di 14 fiorini. Il 4 marzo 1391 fu saldato il pagamento per l’Incoronazione della Vergine, che un’iscrizione perduta diceva realizzata al tempo dell’operaio Parasone Grasso (Ciampi, 1810, p. 98, nota a). Altra iscrizione notevole era il sonetto, ricco d’echi danteschi, dipinto sotto la Cosmografia, che, già avvicinato a Francesco da Buti (Caleca, 1996), con argomenti ragionevoli Ciampi stimava però riscritto al tempo di Benozzo Gozzoli (1810, pp. 98 s.). Meritano infine d’essere ricordati i versi nella tabella tenuta da Adamo sotto l’Incoronazione (ibid.; Supino 1896, p. 261), che ricalcano in buona parte un testo presente ne La salvazione di un’anima purgante del pittore senese Biagio di Goro Ghezzi in S. Michele a Paganico, del 1368.
Sottratte le Storie della Genesi a Buffalmacco, è stato progressivamente trascurato un particolare osservato da Vasari (1568, II, 1967, p. 172), che aveva legittimamente individuato l’autoritratto del pittore nella testa di profilo, dal cappello caratteristico, posta in fondo alla cornice tra le Storie di Caino e Abele e La costruzione dell’arca di Noè (di diverso avviso Prinz, 1966) e ormai ridotta alla sola sagoma. Ciampi (1810, p. 99), in modo coerente rispetto ai documenti da lui stesso pubblicati, vi riconobbe invece l’immagine di Pietro.
Pur conoscendo gli studi del Ciampi, Giovan Gherardo De’ Rossi e Giovanni Rosini continuarono a dibattere sulla possibilità che si trattasse dell’autoritratto del pittore fiorentino (Rosini, 1810, pp. 30, 121, 133 s.), riproducendone anche l’immagine (ibid., p. 105): questa dimostra oltre ogni dubbio che il presunto volto di Buffalmacco nelle Vite vasariane non sia un prodotto d’invenzione.
L’autoritratto di Pietro è un dato di rilievo, tanto più se accostato a quello, di poco successivo, dell’orvietano Cola Petruccioli in S. Domenico a Perugia (Silvestrelli, 2007).
Rientrato in patria, Pietro fu pagato nel dicembre 1392 dall’Opera del duomo per la pittura di un Cristo risorto nella torre dell’orologio (Fumi, 1891, p. 391), da identificare con quella detta “di Maurizio”, al cui esterno sta ora una più tarda pittura con il medesimo soggetto. Nel dicembre 1394 ricevette un compenso per due disegni di una croce per il duomo, forse rispettivamente relativi alla fronte e al retro del manufatto, uno dei quali doveva essere completato «cum figuris» (ibid.). L’esecuzione della croce, in argento dorato e smalti, fu allogata agli orafi Meo di Ventura di Meo e Ludovico di Giovanni di Petrucciolo (ibid., pp. 391, 467 s.). È del 18 settembre 1402, infine, la presenza nella Lira orvietana, ovvero i registri dove, per fini fiscali, erano censiti gli abitanti della città (Ermini, 2007, p. 220 nota 55). Non si conosce la data di morte di Pietro, che dev’essere avvenuta dopo questa data.
Il giudizio critico sull’artista è stato formulato per oltre un secolo sui dipinti pisani. Tra i pareri altalenanti d’inizio Ottocento ha prevalso una linea negativa di lunga durata. Fu Roberto Longhi (1962) a ribaltare l’opinione su Pietro, inaugurando una rivalutazione che ne ha via via evidenziato le doti robuste e personali, le qualità inventive, perfino l’esemplarità. Parallelamente, si è avviata la progressiva formazione di un corpus per via attributiva. Vanno almeno ricordati in proposito i due dipinti orvietani datati 1399 (Ss. Antonio abate e Giacomo in duomo; Madonna col Bambino tra s. Sebastiano, s. Antonio abate e il donatore in S. Giovenale; Previtali, 1966, p. 33), il S. Girolamo in cattedra del duomo di Pisa (Donati 1969, p. 12), testimone di un’attività esterna al Camposanto e databile al periodo pisano documentato, e la frammentaria decorazione di una cappella in S. Giovenale a Orvieto (Fratini, 1983, p. 182, che ne sostiene una datazione «precoce», antecedente il soggiorno a Pisa). Di particolare rilievo, per ampiezza e qualità, sono le Storie di s. Matteo eseguite per i Benincasa in S. Francesco a Orvieto (che Fratini [2007, p. 196] data con cautela poco dopo i dipinti pisani) e le decorazioni nell’eremo di Belverde a Cetona, almeno in parte commissionate dai Montemarte e databili all’ultimo decennio del secolo (Ermini, 2007, p. 207).
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