PIETRO della Vigna (Petrus de Vinea, più esattamente Petrus de Vineis)
Famoso ministro di Federico II imperatore; nacque intorno al 1190 in Capua, d'oscura famiglia, se pure sembra non doversi accettare la notizia, tramandataci da Francesco Pipino, che i suoi genitori fossero mendicanti. Suo padre Angelo appare come giudice di Capua quando il figlio era già potente. È certo che la famiglia non doveva essere dotata di larghi mezzi, se P. studiò a Bologna tra grandi strettezze e, sembra, a spese di quel comune. Nel 1221 Bernardo, arcivescovo di Palermo, lo presentò a Federico II che l'accolse nella sua curia come notarius. Dal 1225 al 1234 figura come giudice della magna curia. Dal 1230 fino quasi alla sua morte, conquistata completamente la fiducia dell'imperatore, fu, insieme a Taddeo di Sessa, uno dei suoi maggiori collaboratori. Presente al convegno per la pace di S. Germano (1230); ambasciatore di Federico II al papa nel 1232-33 e nel 1237, per le trattative d'accordo con la Lega lombarda; inviato nel 1234 in Inghilterra per conchiudere il matrimonio dell'imperatore con Isabella, sorella di Enrico III; plenipotenziario imperiale presso Innocenzo IV nel 1243 e nelle conferenze di Foggia del 1245, coi patriarchi di Antiochia e di Aquileia; autore della pace tra impero e i Veneziani dopo la solenne condanna pronunciata da Innocenzo IV contro Federico, a Lione; non v'è fatto importante o momento saliente dell'attività politica del grande imperatore in cui P. d. V. non appaia come interprete autorizzato del pensiero del suo signore ed esecutore fedele della sua volontà. Nel 1246 egli giunse al culmine della sua potenza. Nominato protonotario e logoteta del regno di Sicilia, ebbe la facoltà di decidere anche in merito ai giudizî che spettavano direttamente alla competenza personale dell'imperatore. E l'imperatore gli fece erigere perfino una statua davanti al castello di Capua, insieme con la propria e quella di Taddeo di Sessa. Nel piedistallo di essa era inciso un motto, che suonava come una non dissimulata minaccia per tutti coloro che erano poco favorevoli al governo di Federico II: "Intrent securi qui quaerunt vivere puri", e in verità egli fu temutissimo specialmente dai nobili, che non nascondevano la loro animosità e il loro disprezzo contro quell'oscuro leguleio, divenuto il più potente e ascoltato ministro dell'imperatore. Certo egli si valse della sua posizione anche per ammassare ingenti ricchezze per sé e i suoi, e usò della sua potenza non sempre ai fini della giustizia, se è vero quel che ci racconta Tolomeo da Lucca, che cioè fece rapire Tommaso d'Aquino, fattosi domenicano contro il volere dei suoi, e se dobbiamo prestare ascolto ad accuse rivoltegli dallo stesso imperatore. Dopo la congiura di Capaccio del 1246 e i disastri del 1248 Federico II, divenuto oltremodo sospettoso, dovette incominciare a perdere un po' della fiducia cieca che aveva nutrito fino allora nel suo potente ministro. Emuli interessati (tra cui fu forse Gualtieri di Ocra, che sostituì poi P. d.V. nell'ufficio di protonotario) contribuirono certo a perderlo, sì che quando egli parve coinvolto nel complotto ordito dal medico di corte per avvelenare l'imperatore, Federico II lo fece arrestare a Cremona (febbraio 1249). Trasportato in catene di città in città perché fosse ludibrio delle folle aizzate contro il vinto, già potentissimo, egli fu condotto prima a Borgo S. Donnino, poi a San Miniato, sotto l'accusa di lesa maestà. A San Miniato fu accecato con un ferro rovente. Alcuni storici sostengono che egli sia morto in seguito al crudele supplizio, ma varie testimonianze attendibili avvalorano la tradizione che egli stesso si sia dato la morte presso Pisa spaccandosi il cranio contro un muro o gettandosi con violenza da un muletto (aprile 1249).
La grande potenza di P. d. V., la sua repentina caduta, la tragica e misteriosa fine commossero vivamente l'animo dei contemporanei, che con appassionato giudizio ne difesero o ne infamarono la memoria. Dante (Inferno, canto XIII) fu il più grande dei difensori di P. d. V., ma anche Salimbene, Francesco Pipino e cronisti anonimi, sia pure di parte guelfa, diedero della condanna di lui motivazioni diverse dall'accusa di tradimento. Il tedesco Giovanni Tritemo invece, nel sec. XVI, cercò di avvalorare l'accusa di accordi col papa, smentiti dall'inimicizia costante che Innocenzo IV mostrò contro i parenti del ministro caduto. La testimonianza di Matteo Paris, in genere bene informato, e due lettere di Federico II ci convincono che P. d. V. fu veramente ritenuto colpevole di lesa maestà per tentato avvelenamento dell'imperatore, senza che sulla sua vera responsabilità si possa pronunciare un giudizio sicuro e definitivo.
Oltre all'epistolario, fonte importante per l'epoca di Federico II, ci rimangono di P. d. V. una satira in versi contro i frati domenicani e i francescani, una satira contro alcune poesie volgari. Fu pure a lui attribuita, quantunque sia sicuramente opera anonima a lui posteriore, una Lamentatio o Conquestio miserie con la quale il ministro caduto si sarebbe rivolto dal carcere al papa, o secondo A. Huillard-Bréholles, all'imperatore, confessando la sua colpa e implorando aiuto e misericordia. Così furono a lui attribuiti un trattato De potestate imperiali, un De consolatione scritto in carcere a imitazione di Boezio, e un trattato sui dodici mesi dell'anno, tutti e tre perduti. Limitata sembra essere stata la parte da lui avuta nella compilazione delle costituzioni di Melfi del 1231, che tuttavia sono forse opera dell'arcivescovo di Capua, a P. d. V. legatissimo per amicizia.
Poeta della scuola siciliana, maestro dell'ars dictandi, collaboratore attivo e geniale della grande opera di Federico II, P. d. V. è forse il massimo rappresentante di quella nuova classe di funzionarî che l'imperatore cercò di crearsi al di fuori della feudalità, tra gli uomini di legge, e che fu travolta nel tracollo della fortuna sveva.
Bibl.: A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de P. d. l. V., Parigi 1864. Ivi è pubblicato anche tutto ciò che resta delle opere di P. d. V.