DELLA VIGNA (de Vinea; la forma de Vineis o Delle Vigne non è attestata nelle fonti coeve), Pietro
L'anno di nascita del D. non è noto; probabilmente è anteriore al 1200, poiché nel 1224, quando figura nell'alto ufficio di giudice della Curia imperiale, il D. con ogni probabilità aveva già Compiuto 25 anni. La sua città natale è senza dubbio Capua, come provano due lettere del suo epistolario (III, 43 e 45). Tutte le altre notizie relative al suo luogo d'origine, (Weingarten nel Württemberg, Padova, Caiazzo) sono errate. La sua genealogia non è completamente chiara. Persone denominate "de Vinea" figurano in documenti privati capuani all'inizio del XIII secolo, ma non sappiamo se esse erano imparentate con il Della Vigna. Non conosciamo nemmeno il significato della denominazione "Vinea", forse designava una località in Capua o nel suo territorio. In un documento notarile del 1246 il D. si dice "filius quondam Magerii de Vinea dudum iudicis et quondam Adelitie legitimorum iugalium", ma né l'uno né l'altra compaiono nei documenti capuani ancora esistenti e pubblicati. L'asserzione spesso ripetuta che il padre del D. fosse un,"iudex Angelus" si trova per la prima volta in autori del secolo XVIII, ma i documenti su cui si basavano non sono più accessibili oggi. Nei documenti capuani dell'inizio del sec. XIII tuttora disponibili troviamo soltanto un notaio di nome Angelo. Anche nella corrispondenza tra il D. e suo padre, spesso addotta come prova, questi figura 'con l'iniziale A, ma l'unico manoscritto che la tramandi è piuttosto tardo. In varie raccolte delleiettere del D. il nome della madre è indicato invece concordemente con la lettera M. Poiché non sappiamo se il "Magerius" (o "Malgerius") menzionato nel documento del 1246 dovesse la carica di giudice ai propri meriti o al suo illustre figlio, rimane oscura anche l'estrazione sociale del Della Vigna. Che egli fosse di bassi natali, lo affermano gia Guido Bonatti, suo contemporaneo, ed Enrico d'Isernia (cfr. Hampe, 1910), familiare con le tradizioni della Cancelleria sveva.
Il D. è ricordato per la prima volta in un documento del 1224- Si tratta di un giudizio del maestro giustiziere Enrico di Morra, emanato a Capua nel settembre di quell'anno, in cui il D. figura come "iudex magne imperialis curiae" (Le pergamene di Capua, II,2, pp. 56 s., n. 18). Non sappiamo dove il D. abbia fatto i suoi studi giuridici, in una scuola locale dell'Italia meridionale o nell'università di Bologna, ed ignoriamo anche come abbia ottenuto l'alta carica di cui lo troviamo investito. Il titolo di "magister", che il D. usa spesso, non permette deduzioni su studi universitari. Solo Guido Bonatti riferisce che il D. avrebbe studiato a Bologna, in grande povertà. Se però consideriamo le sue conoscenze nel diritto romano e canonico, la sua formazione letteraria e la corrispondenza intrattenuta più tardi con giuristi dell'università di Bologna, appare assai verosimile che egli abbia effettivamente studiato in quella città. In seguito a quegli studi - riferisce ancora il Bonatti - il D. sarebbe diventato notalo alla corte dell'imperatore Federico II. Questo dovrebbe essere accaduto nel periodo tra il 22 nov. 1220 (incoronazione imperiale di Federico II) e il settembre 1224, quando il D. è ricordato per la prima volta come giudice della Magna Curia. In questi anni però il D. - al contrario di altri notai - non firmava mai come scrittore documenti imperiali; ma è possibile che la sua mano si trovi tra le mani non ancora identificate degli scrittori di diplomi di quel periodo. Ciò però non esclude che egli sia stato membro della Cancelleria. È probabile infatti che si riferisca proprio a lui la lettera del suo epistolario in cui un "notarius P." comunica alla propria madre che la clemenza divina ha assegnato a lui, povero, un buon posto alla "imperialis curia" e il favore del "princeps". Secondo la testimonianza di Enrico d'Isernia, il D. doveva la sua ascesi all'arcivescovo di- Palermo, Berardo de Castacca, il quale avrebbe raccomandato caldamente all'imperatore il D., fino ad allora a lui completamente sconosciuto, dopo aver letto una lettera che egli gli aveva mandato. A probabile dunque che il D. lavorasse nella Cancelleria non come semplice scrittore, ma piuttosto come dettatore di lettere e documenti. I due testi più antichi del cosiddetto epistolario dei D. risalgono al marzo e al luglio 1224 (VI, 30, privilegio di Federico II per i popoli baltici, e III, 4, circolare dell'imperatore per la fondazione dell'università di Napoli) ed è quindi possibile che proprio questi due testi costituiscano i primissimi dictamina dovuti alla penna del Della Vigna.
Negli anni seguenti abbiamo su di lui solo poche notizie. Nel luglio 1225, gennaio 1228 e agosto 1230 egli fu attivo come giudice della Magna Curia. Le testimonianze diventano più frequenti a partire dal 1230 e da questo momento fino alla sua morte, nel 1249, molte fonti parlano di lui e della sua'attività. Le funzioni di giudice occupavano ormai nella sua vita uno spazio sempre minore, anche se fino al novembre 1246 portava ancora spesso il titolo di "iudex" 0 di "magne imperialis curie iudex". Ma raramente egli prendeva ancora parte alle sedute della Magna Curia. Dal 1231 al 1244, è menzionato solo sei volte come membro attivo del tribunale. Malgrado ciò sembra aver assunto, almeno temporaneamente, un posto eminente nella cerchia dei giudici della Magna Curia. In un processo del novembre 1243 il D. comunicò loro il volere dell'imperatore e nel marzo 1248 l'imperatore lo incaricò della revisione di un giudizio pronunciato dal giudice Filippo da Brindisi. Secondo una notizia fornita dal cronista Francesco Pipino (l. I, c. 39), nel palazzo di Federico II a Napoli esisteva una pittura completata da iscrizioni, rappresentante l'imperatore che rinviava al D. il popolo che chiedeva giustizia.
Si continua a discutere sulla parte avuta dal D. nella redazione delle costituzioni per il Regno di Sicilia promulgate dall'imperatore a Melfi nel settembre 1231. Pare che la nuova legislazione fosse elaborata da una commissione sotto la guida di Giacomo, arcivescovo di Capua. Di questa commissione fece parte anche il D., che probabilmente stese i testi e conferì loro la forma linguistica solenne ed unitaria. Sicuramente collaborò in modo decisivo anche alle Novellae alle Costituzioni melfitane emanate successivamente.
Al centro della sua attività fu tuttavia, dal 1230 in poi, la politica estera dell'imperatore. Nel maggio-giugno 1230 il D. collaborò al trattato di pace di San Germano e anche negli anni successivi fu sempre uno dei più importanti rappresentanti diplomatici dell'imperatore presso la Curia pontificia, sia da solo, sia insieme con uomini come l'arcivescovo di Palermo, Berardo, il giustiziere della Magna Curia Enrico di Morra, il giudice della Magna Curia Taddeo di Sessa e il maestro dell'Ordine teutonico Ermanno di Salza. Nell'ottobre e nel dicembre 1232, nel febbraio e nell'agosto 1233, nel settembre 1235 e nell'aprile 1237 condusse trattative con Gregorio IX. Il peggioramento dei rapporti tra papa e imperatore, culminato nella scomunica di Federico II (marzo 1239) e nella cattura dei prelati da parte dell'imperatore (marzo 1241), interruppe probabilmente i contatti diplomatici. Tuttavia nell'estate 1242, durante la vacanza del soglio pontificio, i cardinali si rivolsero al D. con la preghiera di intercedere presso l'imperatore per un miglior trattamento dei prelati catturati e per la liberazione dei due cardinali imprigionati.
Dopo l'elezione di Innocenzo IV (giugno 1243) Federico II cercò di normalizzare i rapporti col papa. Nel giugno, luglio e settembre 1243 e anche nel marzo e giugno 1244 il D., per ordine del suo signore, si recò alla Curia papale, ma il contrasto non poté essere sanato. Dopo il fallimento di tutti gli sforzi si giunse, il 17 luglio 1245, alla deposizione dell'imperatore, nel primo concilio di Lione. A Lione Federico II si era fatto rappresentare in un primo tempo da Taddeo di Sessa, cui più tardi fu associato il notaio e cappellano di corte Gualtiero d'Ocra. Solo il 20 luglio 1245, tre giorni dopo la deposizione, giunse a Lione un'altra legazione imperiale di cui faceva parte anche il Della Vigna. Questi si recò poi, in settembre, in Francia, insieme con Gualtiero d'Ocra, per esporre al re Luigi IX il punto di vista dell'imperatore e per indurlo almeno alla neutralità o ad una mediazione.
Il D. svolse un ruolo importante anche nel quadro delle relazioni di Federico II coi Comuni italiani. Con la Lega lombarda egli negoziò tuttavia solo una volta, nell'ottobre 1236, mentre visitò più volte le città fedeli all'imperatore. Quando esse, nel marzo 1236, tennero un Parlamento a Piacenza, il D. vi pronunciò un discorso in cui le esortò a tenersi pronte per l'arrivo dell'imperatore. Nel luglio 1238 Verona giurò un armistizio nelle mani del Della Vigna. Nel marzo e aprile 1239, alla presenza dell'imperatore, il D. tenne due discorsi politici a Padova di fronte alla popolazione. Nel febbraio 1240, ad una riunione a Foligno dei rappresentanti di molte città, il D. partecipò di nuovo come oratore imperiale.
Il culmine dell'attività diplomatica del D. fu indubbiamente il soggiorno in Inghilterra nel febbraio-marzo 1235. Egli aveva l'incarico di chiedere per Federico II la mano di Isabella, sorella del re Enrico III. In Inghilterra il D. negoziò quindi sulla sua dote e il 22 febbraio, a Londra, poté concludere e celebrare, come procuratore, le nozze tra l'imperatore e la principessa. Il re inglese fu così soddisfatto dell'operato dei D. che il 1° marzo 1235 lo fece suo vassallo, pagandogli, fino al conseguimento di un feudo, ogni anno la forte somma di 40 marchi d'argento. A chiaro che in cambio il D. doveva rappresentare, presso la corte imperiale, gli interessi di quel Regno. Così nel gennaio 1243 il re Enrico III informò il D. sugli avvenimenti francesi e lo pregò di agire in suo favore presso l'imperatore, certo con la preoccupazione che Federico Il potesse passare di nuovo dalla parte del re di Francia. Va ricordato a questo proposito anche la strana lettera, purtroppo non datata, in cui il D. prega il re inglese di concedere lo status di cittadino (civis) del Regno a lui che era già suo fedele (fidelis).
Ma il D. non fu solo giurista e diplomatico. Nel corso degli anni infatti un terzo compito diventò sempre più importante per lui, ed era la sua attività nella Cancelleria imperiale. Se possiamo supporre che il D. abbia composto personalmente la maggior parte dei testi traditi nell'epistolario che va sotto il suo nome, dal 1236 fino alla sua morte, nella primavera 1249, egli svolse sempre di più la funzione di dettatore delle lettere e dei manifesti imperiali. Lo attestano anche le rubriche in diversi manoscritti. Il cronista Salimbene da Parma dice di lui in modo perfino lapidario: "Hic fuit litterarum imperatoris dictator" (p. 439). Difatti dalla lettura delle lettere e dei manifesti di Federico II, soprattutto negli anni dello scontro col Papato (1239-1250), si può constatare che quasi tutti sono caratterizzati da un linguaggio retorico unitario e da un unitario, grandioso pathos. Questo stilus supremus fu certamente introdotto nella Cancelleria dal D., anche se accanto a lui sono ricordati altri dettatori come Nicola da Rocca, Salvo, Taddeo di Sessa e Terisio d'Atina, alcuni dei quali però erano suoi allievi.
Molto più difficile invece è determinare il contributo del D. alla stesura di documenti e mandati. In questo campo esisteva una lunga tradizione, che affondava le radici in parte nella Cancelleria del Regno normanno-siculo, in parte nella Cancelleria imperiale tedesca, ed era caratterizzata da un linguaggio formalizzato che lasciava poco spazio alla capacità individuale dei notai. Lo stile maestoso dei tardi privilegi imperiali è però certamente dovuto anche al dettato personale del Della Vigna. Nella Cancelleria il D. fu attivo sicuramente già negli anni 1239-40, poiché nel frammento di un registro di Federico Il di questo periodo egli viene citato come relatore più di ottanta volte; egli faceva dunque parte di quei pochi alti funzionari che trasmettevano ai notai gli ordini dell'imperatore. Probabilmente i relatori formulavano anche gli ordini ed erano responsabili della loro esecuzione. Al D. erano in particolare affidati importanti affari politici e finanziari.
La posizione eminente occupata dal D. nella Cancelleria trovò la sua espressione nell'ordinamento della Cancelleria stessa varato probabilmente nel gennaio 1244. In esso il D. e Taddeo di Sessa figurano come i capi della Cancelleria, ad essi sono sottoposti i notai, essi decidono in merito alle petizioni presentate all'imperatore. A questo nuovo ordinamento si connette forse anche il fatto che il D. negli anni seguenti porta il titolo di "imperialis aule prothonotarius et regni Sicilie logotheta", con il quale egli compare le prime volte in documenti imperiali del maggio e agosto 1243 (Reg. Imp., V, nn. 3360, 3520) e in un documento privato del marzo 1244 (Le pergamene dell'Archivio vescovile di Caiazzo, pp.237 ss. n. 108). Come protonotario il D. era il superiore di tutti i notai e custodiva i sigilli dell'Impero e del Regno di Sicilia. Come logoteta egli era probabilmente il successore di Andrea, citato come già morto nel 1242-43. Dal secolo XII il logoteta - carica d'origine bizantina - aveva il compito, nel Regno di Sicilia, di trasmettere le deliberazioni del sovrano ai sudditi. Il D. sembra essere stato investito di questo compito sin dal 1239. Nei suoi ultimi anni, dal luglio 1247 fino al gennaio 1249, il D. fu anche formalmente responsabile del contenuto dei diplomi imperiali, poiché allora nei diplomi di Federico II si trova di nuovo, dopo molti anni, la formula di "datum per manus", con il D. come datario.
Il ruolo principale che il D. svolse fu comunque - per usare un riferimento moderno - quello di un primo ministro. Una tale carica non esisteva, ovviamente, alla corte di Federico II, perché l'imperatore regnava - come tutti i sovrani medievali - con l'aiuto di un Consiglio, che nel Regno di Sicilia era costituito da alti ufficiali di origine nobile, da prelati e da giuristi di estrazione borghese. Ma tra questi consiliarii il D. ebbe per molti anni una posizione di preminenza. È significativo, infatti, che egli possedesse una casa con giardino e vigna a Foggia, dove negli ultimi tempi Federico II risiedeva quasi stabilmente e che appartenesse perciò al piccolo gruppo di alti ufficiali e notai che formava la cerchia più stretta dei consiglieri imperiali. Va inoltre rilevato che, almeno dal 1236 in poi, il D. si trovava quasi sempre nel più stretto entourage dell'imperatore. Possiamo seguire il suo itinerario abbastanza bene, poiché nei diplomi di Federico II egli è citato complessivamente cinquantadue volte come testimone e ventisei come datario. E se non soggiornava a corte, egli era in regolare contatto epistolare con l'imperatore, che lo informava su importanti avvenimenti. Quanto fosse potente a corte, lo si può desumere ancora dalle parole che Innocenzo IV scriveva nel novembre 1251: "quondarn magister Petrus de Vinea, cui tunc: temporis tamquam prepotenti officiali quondani F. imperatoris non poterat sine gravi lactura resisti ... qui non solum erat terror humiliuni sed sublimium personarum" (Epistolae saeculi XIII, III, p. 104, n. 123). Sull'influenza e la potenza del D. insistono anche la Vita GregoriiIX (p. 28), il cronista Matteo Paris (p. 307) e Guido Bonatti (in M. Sarti-M. Fattorini, p. 144, n. 2).
Il D. però non si accontentò di svolgere il ruolo di semplice esecutore delle volon, tà dell'imperatore, ma cercò di esercitare una propria politica; ciò almeno risulta da diverse sue lettere che trattano argomenti politici. Inoltre egli si servì del suo potere anche per favorire i propri parenti e per accumulare grandi ricchezze personali. Secondo gli scarsi cenni del suo epistolario egli si sposò due volte ed ebbe varie figlie. Sappiamo anche di una sua sorella di nome Granata, di un fratello Tommaso, tre nipoti (Angelo, Guglielmo e Giovanni) e ancora un parente di nome Taffuro. Tutte queste persone erano facoltose e alcune di loro ricoprirono alte cariche nel Regno. Ma la ricchezza della famiglia non era certo ereditaria, bensì frutto soprattutto dell'abilità negli affari del D. stesso. Guido Bonatti stimò il patrimonio del logoteta in 10.000 lire augustali e gli attribuì il possesso di altri inestimabili tesori. Questa affermazione non può più essere verificata. Tuttavia numerosi documenti informano sulle proprietà dei D., case e terreni soprattutto a Capua, ma anche in altre località della Terra di Lavoro, in particolare ad Aversa, Caiazzo e San Germano (Cassino). A queste vanno aggiunte le già ricordate proprietà a Foggia. La casa del D. a Napoli è qualificata addirittura come "palatium."; papa Innocenzo IV vi prese dimora nell'ottobre 1254. Inoltre il D. sembra essersi appropriato, per permuta o affitto, di numerosi possedimenti ecclesiastici. 1 danneggiati erano il duomo di Capua, i monasteri di Cava, Montecassino, San Vincenzo al Volturno e altri, mentre l'ospedale di Altopascio (Lucca) fu costretto ad una permuta fondiaria tutta a vantaggio dei P,; leggiamo anche dell'illecito acquisto di un terreno in Caiazzo nel 1245.
Restano misteriose le circostanze della caduta e della morte del potente logoteta. La fonte più vicina agli avvenimenii, nello spazio e nel tempo, e quindi più degna di fede è costituita dagli Annales Placentini gibellini, di solito ben informati, i quali, integrati con l'itinerario dell'imperatore stabilito in base ai documenti, permettono una ricostruzione abbastanza sicura, anche se scarna, degli avvenimenti.
A Cremona, nel gennaio 1249, il D. figurava ancora come datario in un documento imperiale. Senza indicare una data precisa gli Annales di Piacenza riferiscono poi che l'imperatore, dopo aver lasciato Vercelli, "equitavit Cremonam, ubi capi fecit Petruni de Vinea eius proditorem" (p. 498) e, per sottrarlo alla furia del popolo cremonese, lo mandò di notte in catene a Borgo San Donnino. Sempre secondo il racconto degli stessi Annales Federico II nel marzo successivo si recò a Pisa, conducendo con sé il D., al quale fece strappare gli occhi a San Miniato "ubi suam vitam finivit" (ibid.). Il D. potrebbe quindi essere stato arrestato nel febbraio 1149. Sappiamo, in base all'itinerario, che l'imperatore si recò da Cremona a San Miniato passando per Borgo San Donnino (Fidenza), Pontremoli, Pisa, Lucca, Pistoia, Fucecchio, e poiché il 20 aprile sostava ancora a Fucecchio, l'accecamento e la morte del D. avvennero con tutta probabilità alla fine dell'aprile 1249- Sono questi gli unici dati certi relativi alla fine del Della Vigna. Tutte le altre notizie provengono da fonti più tarde o, da cronisti male informati, se non sono addirittura viziate da fraintendimenti o dalla volontà di abbellire gli avvenimenti. Anche se nel Medioevo i suicidi erano rari, il D., che conosceva bene la crudeltà del suo signore, può aver scelto questa strada per sfuggire le pene della tortura e dell'esecuzione. Tuttavia è anche possibile che il D. sia morto per le conseguenze dell'accecamento.
Sconosciute sono anche le ragioni precise che condussero alla rovina del Della Vigna. Già i contemporanei facevano congetture, mentre gli storici moderni hanno dato risposte diverse a questa domanda. C'e un unico indizio sicuro: Federico II definisce il D. "proditor" in tre suoi mandati, e "proditor" è qualificato anche da Corrado IV in due leggi del febbraio 1252. Ciò coincide con la nostra fonte migliore, gli Annales Placentini, mentre Pandolfò Collenuccio, che in parte si basa sulla cronaca di Mainardino da Imola, oggi perduta, lo chiama "traditore". Di tradimento parlano anche le fonti meno bene informate. Matteo Paris accusa il D. di avere cospirato col papa e di aver tentato di avvelenare l'imperatore con l'aiuto di un medico. Quest'ultima notizia però è il frutto del fraintendimento di una lettera di Federico II (cfr. ed. Schardius, V, 2). Salimbene invece riconduce la caduta del D. alla malvagità dell'imperatore, che soleva uccidere i suoi consiglieri col pretesto che fossero traditori. Egli però afferma anche che il D. sarebbe stato vittima di calunfiie: nel 1245 a Lione egli avrebbe trattato segretamente con Innocenzo IV. Ancora una volta si accenna quindi al tradimento. Pure Francesco Pipino spiega la morte del D. con la sua "proditio" e a lui si conforma il più importante commentatore della Divina Commedia del XIV secolo, Benvenuto da Imola. L'ipotesi del tradimento viene avvalorata inoltre dal fatto che nel Regno di Sicilia, sotto Normanni, Svevi e Angioini, il traditore veniva di solito accecato prima del supplizio.
Se dunque sembra certo che il D. fu imputato di tradimento, rimane però ancora da chiedersi se egli fosse colpevole o innocente. La discussione su questo punto è stata fortemente influenzata dai celebri versi di Dante (Inf., XIII, 46-108), in cui il D. nel bosco dei suicidi protesta la propria innocenza ed attribuisce la propria sfortuna all'invidia dei cortigiani. Intrighi di corte possono benissimo aver contribuito alla rovina dei logoteta, ma è difficile immaginare che una pura e semplice calunnia possa aver distrutto un uomo che per venticinque anni era stato tra i più stretti consiglieri dell'imperatore. C'è piuttosto da supporre che il D. si fosse effettivamente macchiato di gravi colpe, e su ciò concordano proprio coloro che meglio dovevano saperlo: Federico II e Corrado IV, come anche tutte le fonti più antiche.
Nella lettera dell'imperatore a Riccardo conte di Caserta, scritta subito dopo l'arresto del D. (cfr. ed. Baethgen, Dante und Petrus de Vinea, p. 46)si legge una frase strana, che sicuramente è da riferire al D.: "Meminisse siquidem diebus his poteris per alia documenta prave suggestionis et scandali multiformis Petri videlicet Simonis et alterius proditoris, qui ut haberet loculos vel impleret, equitatis virgam vertebat in colubrum, ut ad imperium impelleret assueta, delusione periculum; quo simul cum militia Pharaonis Egyptiorum more curruum abiremus equoris in profundum". In questa frase densa di riferimenti il D. viene posto dunque in una serie con altri tre personaggi: con i discepoli di Gesù Simon Pietro e Giuda Iscariota e con Mosè. Pietro e, Giuda tradiscono il loro Signore; il secondo, che amministrava il denaro degli apostoli, era inoltre considerato un ladro. Mosè mutò il suo bastone in un serpente e con quel bastone separò il Mar Rosso salvando Israele. Come gli apostoli il D. ha tradito il suo signore e trasformato il bastone della giustizia in un serpente per avidità di denaro, per cui egli - in contrapposizione a Mosè - ha condotto l'Impero a pericolo mortale. La frase si chiarisce ancora di più se si pensa che il D. come legislatore era paragonato dai suoi amici a Mosè, e all'apostolo Pietro come alto funzionario dell'imperatore.
Secondo l'imperatore il D. aveva commesso dunque due reati: tradimento e corruzione. Il tradimento potrebbe essere consistito nel fatto che il D. aveva dato all'imperatore cattivi consigli, forse nel senso di una politica intransigente nei confronti del Papato, in contrasto con i tentativi di pace di Federico II. Il D. ebbe però anche contatti segreti con la Curia pontificia. Esiste infatti una lettera di Ranieri da Viterbo della primavera 1246, in cui il cardinale invita il D. a scuotere il giogo dì faraone e a ritornare nel grembo della Chiesa (cfr. Gaudenzi, XIV, pp. 168 s.). Un argomento in favore della corruzione è la ricchezza del D., acquisita certamente non solo in modo lecito. Forse il D. denunciò anche persone innocenti ("documenta prave suggestionis"), per arricchirsi coi loro beni confiscati. Se dunque non può esservi dubbio sulla colpevolezza dei logoteta e sui tratti poco simpatici del suo carattere, egli tuttavia va annoverato senza dubbio tra le grandi personalità del Duecento; non solo come politico e giurista, ma soprattutto come letterato, ossia come oratore, poeta e autore di lettere e documenti.
Nel secolo XIII assunse maggior importanza il discorso politico. Abbiamo già ricordato i discorsi tenuti dal D. a Piacenza e a Padova, il cui testo non è purtroppo conservato. Come in una predica, così anche nel discorso politico è assunta come base una citazione. A Piacenza un passo di Isaia (9-2), a Padova - momento decisivo per la secolarizzazione della predica - un passo di Ovidio (Heroides, V,7-8).Secondo Rolandino da Padova il D. vi parlò "fundatus multa litteratura divina et hurnana et poetarum" (IV, cap. 10).
Si pretendeva dal dettatore medievale che sapesse scrivere anche in versi. Sotto il nome del D. sono infatti tradite due composizioni ritmiche latine: una arguta satira contro i mendicanti e un poemetto sui dodici mesi; entrambi sono in versi goliardici.
Più significativa è invece l'opera poetica del D. in volgare, ossia nel dialetto siciliano, arricchito da elementi provenzali e toscani com'era uso nella scuola poetica siciliana sorta alla corte di Federico II, poeta egli stesso, alla quale appartennero persone di origine nobile e borghese, in particolare alti funzionari, giuristi e notai. In questa cerchia il D. occupò un posto preminente, anche se non si può stabilire con esattezza quali delle composizioni rimaste gli appartengano davvero, visto che i manoscritti spesso citano per il medesimo testo autori diversi. L'ultimo editore, Bruno Panvini, attribuisce con certezza al D. solo due canzoni, "Amando con fin core e co speranza" e "Amore in cui disiO ed ò speranza", e il sonetto "Però ch'Amore non se pò vedire". Per le canzoni "Amor da cui move tuttora e vene", "Assai cretti celare" e "Poi tanta caunoscenza", l'attribuzione al D., spesso affermata, è dubbia. Inoltre non conosciamo queste composizioni, nella loro redazione originale siciliana, ma solo nella loro rielaborazione toscana. Sia nella forma sia nei contenuti esse sono influenzate dalla lirica provenzale, come la maggior parte delle espressioni della scuola poetica siciliana. Si tratta di poesia d'amore secondo le convenzioni cortesi, caratterizzata da sofisticati giochi di parole e di pensieri. Non mancano tratti personali, ma difficilmente queste poesie possono essere considerate il frutto di autentiche esperienze; non ci aiutano perciò ad illuminare il carattere e la biografia del Della Vigna.
Ma più che per le poesie in volgare il D. è famoso per le sue lettere latine, cinquanta di carattere privato e centinaia di lettere pubbliche, mandati e manifesti che egli stilò per l'imperatore Federico 11, suo signore. Questo materiale è stato raccolto e codificato soltanto dopo la morte del D., negli ultimi decenni del XIII secolo, nella Curia papale. Vennero approntate varie redazioni, delle quali fu stampata, più volte, solo la piccola collezione divisa in sei libri. Complessivamente le lettere del D., ìmportante fonte per la storia del secolo XIII, sono tradite in circa centoventicinque raccolte ordinate sistematicamente e in circa trenta non ordinate, alle quali vanno aggiunti numerosi frammenti, florilegi e copie di singoli pezzi. Nel tardo Medioevo l'epistolario del D. servì da formulario a molte Cancellerie europee.
Dal punto di vista della forma le lettere del D. contano tra i più importanti documenti dello stilus supremus, lo stile sovraccarico, nato in Francia nel secolo XII, che presto fu recepito e ulteriormente sviluppato anche in Italia, in particolare nella Curia papale. Il D. apprese questo stile probabilmente a Bologna, dove insegnarono celebri maestri di ars dictandi. Del resto la conoscenza della retorica era indispensabile ad ogni giurista.
Il contenuto delle lettere prova la vasta cultura del D., cui erano ugualmente familiar i classici antichi, gli autori ecclesiastici e la giurisprudenza coeva. Però non si può considerare il D. solo un epigono. Egli rielaborò gli elementi della sua formazione in modo personale e creò un suo proprio stile epistolare e documentale sfarzoso, addirittura maiestatico, che rispecchiava lo splendore dell'Impero svevo. Il successo delle sue lettere presso i posteri si spiega indubbiamente anche con il fatto che esse fornivano preziosi argomenti a coloro che propugnavano una idea moderna dello Stato e agli avversari di una Chiesa secolarizzata. I contemporanei come l'abate Nicola da Bari (cfr. Kloos, pp. 179-182), il notaio Nicola da Rocca (cfr. Huillard-Bréholles, Pierre, pp.289-291), e altri panegiristi (ibid., pp.289, 430-434), osannarono il D. come nuovo Mosè e nuovo Pietro; la denominazione "Vinea" veniva interpretata, con vera monotonia, allegoricamente. Fonti più tarde esaltano soprattutto le capacità letterarie del Della Vigna. Enrico d'Isernia lo chiamò "egregiurn dictatorem et totius lingue latine iubar" (J. Emler, p. 1140); Iacopo da Acqui lo definì "pulcherrimus dictator" (cfr. Avogadro, col. 1577); Francesco Pipino nel suo Chronicon (I,39) scrisse del D.: "dictandi arte'ac iuris civilis peritia effloruit, ut fere nulli sui temporis in eisdem facultatibus esset secundus".
La fama del D. come dictator era così grande che più tardi gli furono attribuite ancora altre opere che sicuramente non gli appartengono: una raccolta di Flores dictaminum, una raccolta di formulari per discorsi ("Arenge super diversis negotiis"), la Notitia seculi di Alessandro di Roes, presunte lettere del diavolo a prelati mondani, il satirico Evangelium secundum marcam auri et argenti e la Vita sancti Albani. Inoltre corrono sotto il suo nome ancora vari versi latini, la cui paternità è però del tutto incerta.
Non si conoscono ritratti del D. ed è inverosimile che ne esistessero in un tempo che non conosceva ancora i ritratti realistici. A partire dal secolo XVI si volle vedere un ritratto del logoteta in uno dei due busti maschili con barba nella facciata della porta dei ponte di Capua. Ma questo busto antichizzante rappresenta probabilmente - come pure il suo pendant, quasi identico - un filosofo antico o un imperatore romano.
Opere dei D.: L'epistolario ebbe le seguenti edizioni: Querimonia Friderici II. imp. qua se a Romano pontifice et cardinalibus immerito persecutum, et ìmperio deiectum esse ostendit. A doctissimo viro d. Petro de Vineis, eiusdem Friderici II cancellario, anno M.CC.XXX conscripta, Haganoae 1529 (contiene soltanto il libro I); Epistolarum Petri de Vineis cancellarii quondam Friderici II imperatoris ... libri VI, a cura di S. Schardius, Basileae 1566, Petri de Vineis caricellarii quondani Friderici II imp. Rom. Epistolarum libri VI... post Simonis Schardii editionem... denuo cum Haganoensi exemplari collatum ... per Germanum Philalethen, Ambergae 1609; Petri de Vincis iudicis aulici et cancellarìi Friderici II imp. Epistolarum ... libri VI..., a cura di joh. Rudolphus Iselius, Basileac 1740.
Altre lettere e documenti sono pubblicati in J.-L-A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, I-XII, Paris 1852-1861; Id., Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865, pp. 289-442; Acta Imperti inedita saeculi XIII, a cura di E. Winkelmann. I-II, Innsbruck 1880-1885; Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, in Monum. Germ. Hist., Legum sectio IV, II, a cura di L. Weiland, Hannoverac 1896; Regesta Imperii, a cura di J. F. Böhmer-j, Ficker-E. Winkelmann, V, Innsbruck 1881-1901; V, 4, Nachtràge und Ergánzungen, a cura di P. Zinsmaier, Köln-Wien 1983. Poesie latine si trovano in Huillard-Bréholles, Pierre, 1865, cit., pp. 402-417, L. Castets, Prose latine attribuée à Pierre de la Vigne, in Revue des languages romanes, XXXII(1888), pp. 431-452; O. Holder Egger, in Neues Archiv d. Gesellschaft f. ältere deutsche Geschichtskunde, XVII (1892), pp. 502 s.; A. Monteverdi, in Studi medievali, n. s., IV (1931), pp. 271 s. Le poesie in volgare furono edite da B. Panvini, Le rime della scuola siciliana, I-II,Firenze 1962-1964, ad Indices.
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Hist., Script., XVIII, Hannoverae 1863, p. 498; Rolandino da Padova, Chronica, a cura di G. H. Pertz, ibid., XIX, ibid. 1866, pp. 71 s.; Salimbene de Adam, Chronica, a cura di O. Holder Egger, ibid., XXXII,ibid. 1905-1913, pp. 200, 343, 439; Anonimo Remense, Historiae, a cura di O. Holder Egger, ibid., XXVI, ibid. 1882, p. 536; M. Paris, Chronica maiora, a cura di F. Liebermann, ibid., XXVIII, ibid. 1888, pp. 307 s.; Id., Historia Anglorum, ibid., pp.425 ss.; Id., Abbreviatio chronicorum Angliae, ibid., p. 452; Mon. Germ. Hist., Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, a cura di C. Rodenberg, III, Berolini 1894, pp. 103 s., n. 123, 107, n. 1, 314, n. 346; Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò, a cura del G. Dei Giudice, II, 1, Napoli 1869, pp. 236 s.; B. Capasso, Historia diplomatica Regni Siciliae inde ab anno 1250 ad annum 1266, Neapoli 1874, pp. 76, 90 s.; G. Iannelli, Documenti inediti, con i quali si prova che Capua fu l a patria di P. D., in Atti della Commissione conservatrice dei monumenti ed oggetti di antichità e belle arti nella provincia di Terra di Lavoro, XIII(1882), pp. 11-90; J. Emler, Regesta diplomatica nec non epistolaria Bohemiae et Moraviae, II, Pragae 1882, p. 1140, n. 2610; Benevenuti da Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherii comoediam, a cura di J. Ph. Lacaita, I, Florentiae 1887, pp. 432-451; A. Gaudenzi, Sulla cronologia delle opere dei dettatori bolognesi da Buoncompagno a Bene di Lucca, in Bull. dell'Istit. stor. ital., XIV (1895), pp. 168 s.; Niccolò da Carbio, Vita Innocentii IV, a cura di F. Pagnotti, in Arch. della R. Soc. romana di storia patria, XXI(1898), p. 82; Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae de mandato imperialis maiestatis Frederici secundi nunc...,Montis Casini 1908, pp. 18, 26, 28; F. Güterbock, Eine zeitgenössische Biographie Friedrichs II, das verlorene Geschichtswerk Mainardinos, in Neues Archiv d. 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