DELITALA, Pietro
Nacque a Bosa (prov. di Nuoro), da Niccolò e da Sibilla Dessena presumibilmente intorno al 1540.
La famiglia paterna, di antica origine corsa, apparteneva a quel ceto di nobiltà di toga che i conquistatori spagnoli valorizzarono, servendosene come amministratori fedeli contro la nobiltà sarda di origine feudale, bellicosa e ribelle alla Corona; Niccolò ottenne infatti nel 1563 il diploma di generositas, titolo nobiliare caratteristico dell'antico regno aragonese che premiava la fedeltà al sovrano nel servizio civile ed in quello militare. Nel corso dei secoli XVI e XVII, esponenti della famiglia Delitala, accompagnati dal titolo di "donzell", furono presenti ai Parlamenti sardi come rappresentanti della città di Bosa. Diversissima l'ascendenza materna del D.: i Dessena facevano parte della nobiltà feudale del regno di Sardegna, benché originari di Siena attraverso un ramo della famiglia Piccolomini passato nell'isola alla metà del sec. XIV; erano visconti di Sanluri ed alleati del marchese di Oristano, l'ultimo feudatario sardo che tentò di opporsi alla conquista spagnola dell'isola.
Le notizie sulla vita del D. sono rare e scarsamente documentabili. Secondo il Martini la giovinezza del poeta fu segnata dal grande amore per una dama d'alto lignaggio, già sposata: il sospetto d'adulterio scatenò contro di lui la persecuzione del S. Offizio costringendolo all'esilio prima in Corsica poi in Italia; il Prunas Tola segnala la presenza del D. a Siena, presso i Piccolomini, alla data piuttosto precoce del 1562 "per sfuggire all'Inquisizione". Sembra però improbabile che il tribunale dell'Inquisizione fosse intervenuto su un problema di giurisdizione ecclesiastica come l'adulterio. È credibile piuttosto che motivi di natura ideologica e religiosa abbiano consigliato al D. l'esilio; o, più banalmente, che la sua presenza a Siena sia stata causata da ragioni di studio.
Il D. fu dunque in gioventù a Siena per un periodo piuttosto lungo. Qui egli approfondì la conoscenza della lingua e della letteratura italiana tre-cinquecentesca, incontrò forse personalmente T. Tasso che a Siena soggiornò nel 1575 per visitare il commentatore della Poetica di Aristotele, Alessandro Piccolomini. Il D. dedicò infatti al Tasso un sonetto che, al di là delle manierate formule di ammirazione per il poeta famoso, può suggerire una vera consuetudine d'amicizia: "Tasso gentil ch'empi di luce il mondo / io che per reo destin da te m'ascondo / senza di te non volentier son meco...". Dato per scontato l'apprendistato letterariolinguistico compiuto dal D. in Toscana, può essere soltanto un'ipotesi suggerita dallo sviluppo successivo delle sue vicende biografiche quella riguardante il soggiorno senese: il poeta sarebbe entrato in contatto con gruppi religiosi eterodossi, vicini alle idee riformate.
La vicenda di cui fu protagonista il D. al suo rientro in patria è al limite del tragico. Il Martini asserisce, sulla base di ricordi di famiglia, che il poeta tornò in patria economicamente rovinato; l'Inquisizione riaccese il vecchio processo, lo concluse con una condanna, una lunga prigionia ed infine una completa riabilitazione. Il fatto è che prima del 1595, data della prefazione alle Rime diverse scritta in Bosa, non abbiamo notizie sulla vita del D. se non quelle deducibili, e con prudenza, dalla sua stessa opera: questa infatti è costruita sul modello letterario petrarchesco e tassiano e fa propri tutti gli stilemi ed i topoi del genere, mostrando all'ingenuo lettore un poeta perseguitato dalla fortuna, disprezzato dal volgo, prigioniero d'amore infelice. Tuttavia nel 1595, un anno prima della stampa delle Rime munita di due diversi imprimatur, quello del S. Offizio firmato dal consultore generale G. Araolla già poeta affermato, e quello di un più oscuro delegato arcivescovile in data 1596, il D. visse libero nella sua città natale e dedicò in spagnolo l'opera al viceré don Gastone di Moncada marchese d'Aytona. Ma in un gruppo di sonetti intitolati agli inquisitori spagnoli di Sardegna, Alonso de la Peña e Juan Osorio de Sejas, il poeta riconobbe di aver meritato per i suoi "temerari" e "rischiosi passi" la punizione della "dotta mano" cui il "grande Ispano / ch'invitto defensor di Cristo regna" aveva affidato la salute morale dei suoi sudditi. Al di là di un generico atteggiamento d'umiltà e del necessario impetrare la benevolenza dei potenti funzionari del S. Offizio, le parole del D. fanno supporre veritiera la notizia di un suo processo e condanna. Tanto più che in un altro sonetto egli chiese la protezione del vescovo di Bosa G. F. Fara, che sappiamo rettore della diocesi nel 1591 e per soli sei mesi: questi versi portano l'indicazione "essendo l'autore nella prigione" e sono un'accorata protesta d'innocenza.
Un processo da parte dell'Inquisizione può inoltre spiegare la notizia, data dal Martini, di un improvviso impoverimento della famiglia Delitala: l'immediata confisca dei beni degli imputati è infatti in Sardegna l'unico mezzo di finanziamento del tribunale dell'Inquisizione e del suo numeroso personale.
Non sappiamo, allo stato attuale della documentazione archivistica edita, di che cosa il poeta fosse accusato, anche se appare probabile una condanna per generici motivi morali in un momento in cui i rapporti tesi fra tribunali ecclesiastici sardi ed Inquisizione di Spagna determinano la precisa attribuzione a quest'ultima delle cause di eresia e stregoneria. Certamente non si trattò, nel caso del D., di un processo importante, di una "causa" prestigiosa che l'Inquisizione spagnola avrebbe istruito direttamente o avocato a sé (come nel caso S. Arquer).
Se il D. era ancora in prigione nel 1591, ben presto riacquistò la libertà e poté dedicarsi a consolidare la sua posizione: dedicò dunque versi encomiastici al vescovo successore del Fara Antonio Atzori, al marchese Spinola, all'infanta Caterina, futura moglie del duca di Savoia Carlo Emanuele I. Libero, il D. era alla ricerca di protettori, forse di mecenati, perché lamentava la "ria sventura", gli "oltraggi di Fortuna"; tuttavia si ha ragione di credere che abbia recuperato in breve tempo una posizione di prestigio. Un documento dell'Archivio di Cagliari mostra infatti un Pietro Delitala podestà di Bosa, encomiato pubblicamente nel gennaio del 1606 dal viceré Sanchez de Real per l'eroico comportamento in soccorso della popolazione colpita da un'inondazione. Morì qualche anno più tardi, sicuramente prima del 1626 poiché fra i rappresentanti della città di Bosa al Parlamento di quell'anno vengono menzionati vari esponenti della famiglia Delitala, fra i quali "Diego ... de edad 20 anos y Francisco ... de edad 18 anos germans donzells fills respective del quondam Pere ... donzell de Bosa".
Le Rime diverse, stampate in Cagliari con licenza de' superiori per G. M. Galcerino s. d. [ma 1596], sono l'unica opera del D. giunta fino a noi. Presente in unico esemplare nella Bibl. univ. di Cagliari, è stata ristampata da V. A. Arullani, Di P. D. e delle sue Rime diverse, in Arch. stor. sardo, VII (1911), pp. 39-144; quindi in opuscolo, Cagliari 1911. È una raccolta di rime che può forse sorprendere in una situazione culturalmente e linguisticamente complessa come quella sarda di fine '500, dove l'influenza della cultura italiana si mescola a quella spagnola e G. Araolla compie un originale tentativo di elevare la lingua sarda a strumento di comunicazione letteraria, riappropriandosi di temi e motivi della religosità tradizionale isolana. Il D. è invece pienamente inserito nel gusto petrarchesco e disegna nelle sue Rime l'itinerario spirituale di un'anima che attraverso l'esperienza consapevole dell'errore e del peccato raggiunge la pace in Dio. Nota caratteristica della poesia del D. è infatti la coscienza di aver seguito il fascino di una rischiosa "navigazione per truculenti mari", poiché "la ragione ai sensi porse / le man captive e corse / dove cieco il voler tra sterpi e dumi / e dirupi e cacumi / dietro se la traea vil prigioniera". In nulla il D. si discosta dalla tradizione e dal repertorio tematico formale "toscano", da Petrarca a Tasso, con qualche reminiscenza dantesca nei momenti di maggior pathos: una spia di questo percorso è la presenza, nei versi citati, di un termine tutto letterario come "dumi". La Sardegna non compare nella sua poesia se non involontariamente, e lo rileva spiritosamente l'Alziator notando come nei versi del poeta "anche quando non sono del tutto brutti, si senta odor di ferracci, si avverta la ruggine e il rottame... ed essi rivelino... la non eccessiva dimestichezza col toscano di chi, nato e vissuto tra volgare sardo e castigliano, divenne un bel giorno, per volontà di eventi e capriccio d'artista, poeta italiano" (p. 113).
Pubblicando la sua opera presso un editore, il cagliaritano Galcerino, che ebbe un'attività esclusivamente di carattere ufficiale al servizio del governo e della Chiesa, e consapevole di scrivere per una ristretta élite, il D. nella prefazione in lingua italiana alle Rime respinge l'idea che l'uso dell'idioma toscano, "lengua veramente molto aliena da noi", sia una scelta temeraria "intendendo anche che più obligato era scrivere in lengua sarda come materna o spagnola come più usata et ricevuta in questa nostra isola". L'unico poeta sardo in lingua italiana del '500 non impiega dunque il toscano per polemica verso la supremazia politicoculturale spagnola ma piuttosto per esprimere una malinconica indicazione di cultura e di gusto. Questa scelta del D. sarebbe forse piaciuta, sessant'anni prima, al Bembo: il poeta rifiuta infatti di mescolare i diversi elementi linguistici (toscano, sardo, spagnolo) propri della sua formazione e compone la sua opera in una lingua "delle scritture", non meno "stranya" e aliena dall'uso colto di quanto fosse un'ipotetica lingua sarda "materna": mai esistita come strumento di unificazione ed espressione culturale e letteraria, non più in uso come lingua dell'amministrazione e degli affari, limitata ormai dunque all'ambito soggettivo del parlato quotidiano.
Proprio negli anni della giovinezza del D., nel 1565, lo Stamento militare sardo aveva infatti richiesto al re di Spagna Filippo II che venissero tradotti in catalano gli antichi statuti comunali di Bosa ed Iglesias "en llengua pisana o italiana" e di Sassari "en llengua genovesa o italiana"; è interessante notare, soprattutto nel caso di Sassari, l'incerta denominazione del linguaggio materno, segno che ormai non soltanto l'italiano veniva percepito confusamente nell'uso scritto non letterario, ma anche uno dei dialetti "storici" sardi, il logudorese parlato a Sassari in cui pare fosse redatto lo statuto in questione.
Fonti e Bibl.: I. Pillito, Mem. tratte dal Regio Archivio di Cagliari risguardanti i governatori e luogotenenti generali dell'isola di Sardegna dal tempo della dominaz. aragonese fino al 1610, Cagliari 1862, pp. 95 s.; V. Prunas Tola, I privilegi di Stamento militare nelle famiglie sarde..., Torino 1933, p. 192; F. Loddo Canepa, Origen del cavallerato y de la nobleza del Reyno de Cerdeña. Manoscritto ined. del sec. XVIII, in Arch. stor. sardo, XXIV (1954), p. 313; P. Martini, Biogr. sarda, II, Cagliari 1838, pp. 6-12; E. Toda y Guell, Bibliografia española de Cerdeña, Madrid 1890, p. 103; B. Croce, La lingua spagnola in Italia. Appunti, Roma 1895, p. 32; V. A. Arullani, Echi di poeti d'Italia in rime e rimatori sardi dal '500 ai dì nostri, in Arch. stor. sardo, VI (1910), pp. 315-19; F. Loddo Canepa, Cavalierato e nobiltà in Sardegna, Cagliari 1931, p. 30; M. L. Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito, forma, Berna s. d. [1951], p. 258; F. Alziator, Storia della letter. di Sardegna, Bologna 1954, pp. 111-15; J. Arce, España en Cerdeña, Madrid 1960, pp. 143 s., 152; L. Balsamo, La stampa in Sardegna nei sec. XV e XVI, Firenze 1967, pp. 14, 82, 171; N. Cossu, Il volgare in Sardegna, Cagliari 1978, pp. 49 s., 75 s.; E. Sestan, I Sardi in bilico fra Spagna e Italia (sec. XVI-XVIII), in Annuario dell'Ist. stor. per l'età moderna e contemp., XXIX-XXX (1977-78), p. 451.