DE FUSCO, Pietro
Nacque a Cuccaro, nel Salernitano, il 6 sett. 1638 dal dottor Scipione e da Caterina Oristanio dei baroni di Montano, di Massicella e di Bonati. Compì i primi studi nel paese d'origine e completò la sua formazione culturale a Napoli dove si era trasferito nel 1658 insieme con il fratello Francesco Antonio. Grazie all'aiuto economico dell'avvocato Antonio de Ponte, duca di Casamassima, conseguì nel 1662 la laurea in giurisprudenza ed intraprese subito la carriera forense. Le prime cause importanti da lui discusse, quella in difesa di Andrea Istoriano nella Vicaria criminale e quella in difesa di Ettore Carafa, si risolsero con verdetti favorevoli al D. che fecero scalpore sia per la giovane età dell'avvocato, sia per la nota bravura dei colleghi avversari tra cui l'avvocato Vincenzo Raitano. I successi ottenuti nel foro napoletano gli diedero una fama che aumentò sempre più negli anni fino a farlo annoverare fra i più valenti avvocati italiani. Molte furono le famiglie nobili con cui ebbe rapporti professionali, tra le quali i Ruffo di Bagnara. Per lungo tempo nell'attività fu associato di G. Valletta, di cui era amico, e, seguendone l'esempio, costituì una biblioteca privata comprendente circa ottomila volumi giuridici. Nel 1685 e nel 1690 fu eletto governatore della S. Casa dell'Annunziata in Napoli e nel 1689 fu tra i sei candidati alla nomina dell'eletto della "piazza" popolare. Annoverato fra i maggiori esponenti dell'emergente ceto civile, il D. svolse un ruolo importante nel corso del processo degli "ateisti" celebrato a Napoli dal 1688 al 1697.
Il processo, istituito dal tribunale del S. Uffizio, segnò la reazione della Curia romana e di quella napoletana alla diffusione della nuova cultura basata sull'atomismo, il gassendismo ed il cartesianesimo che stimolava ad una verifica della credibilità della fede tradizionale e che, di conseguenza, minava il monopolio culturale ecclesiastico. Accusati non furono solo coloro che salirono sul banco degli imputati, ma tutti gli intellettuali sostenitori della nuova cultura. La polemica investì soprattutto le competenze ed i metodi seguiti dal tribunale del S. Uffizio a Napoli.
Il D., insieme con il Valletta e con S. Biscardi, sosteneva il rispetto della "via ordinaria" nei procedimenti istituiti davanti ai tribunali ecclesiastici per evitare che divenissero occasione di vendette personali, dal momento che la "via straordinaria" garantiva l'impunità all'accusatore e non permetteva all'accusato di provare la falsità dei reati imputatigli. Inoltre sia i nobili sia gli avvocati chiedevano che nei processi per eresia la competenza spettasse al tribunale arcivescovile operante nel rispetto dei diritti di difesa dell'imputato. La richiesta della "via ordinaria" fu avanzata da tutte le piazze tramite i propri rappresentanti nella "Deputazione perpetua per le cose pertinenti al Santo Ufficio". Il D. rappresentò la piazza del Popolo insieme con altri avvocati.
La polemica giunse a Roma e nel 1692 Innocenzo XII affidò al cardinale Giacomo Cantelmo, in qualità di ordinario, la celebrazione delle cause istituite dalla Inquisizione del S. Uffizio. Le speranze di rinnovamento, però, rimasero deluse poiché il Cantelmo continuò le vecchie procedure giuridiche e ridiede, in tal modo, pieno potere alla Curia napoletana. In seno alla Deputazione le proteste scoppiarono numerose. Il D. fu il più acceso contestatore e giunse a formulare un "voto" in cui veniva chiesta l'espulsione del Cantelmo da Napoli in quanto nemico della città. Il D. era convinto che l'operato del cardinale, per nulla innovativo, poteva non solo turbare la quiete pubblica, ma mirava anche al trasferimento in Napoli di un ministro o delegato del tribunale dell'Inquisizione del S. Uffizio di Roma. Chiedeva, inoltre, che ai deputati fosse concesso un esplicito mandato per sorvegliare l'operato del S. Uffizio. Molti, in seno alla Deputazione, concordarono con la proposta avanzata dal D. ma, alla fine, prevalse la corrente moderata che chiese al viceré, conte di Santo Stefano, solo l'espulsione dell'avvocato fiscale del S. Uffizio, padre Emilio Cavalieri, e dell'avvocato dei poveri, Pietro Antonio Castaldo. Comunque l'atteggiamento provocatorio del D. allarmò il Consiglio d'Italia che nel 1693 suggerì al viceré di sorvegliare il D. e, nel caso, allontanarlo da Napoli. Il Consiglio collaterale, cui era stata inoltrata la richiesta della Deputazione, per non alterare gli equilibri di governo esistenti, preferì non assumere posizioni nette sul tema del S. Uffizio. Fu questo il motivo che spinse i reggenti a consigliare ai deputati l'invio di una delegazione direttamente a Roma. D'altra parte, l'origine napoletana di Innocenzo XII, Antonio Pignatelli, lasciava sperare in un atto di benevolenza nei confronti di Napoli.
Il compito di ambasciatore fu affidato al D. il quale, nel frattempo, si era aggregato alla piazza nobile di Capuana dietro invito delle piazze a far parte di una di esse - a sua scelta - a riconoscimento della sua lotta contro il S. Uffizio. La sua designazione rappresentò un successo per il gruppo più intransigente degli avvocati napoletani e mostrò la raggiunta autonomia d'azione dei forensi; al tempo stesso rappresentò una sconfitta per il ceto nobiliare che si vide scavalcato da quello civile nella designazione di un ambasciatore per una missione tanto delicata come quella romana.
Il D. sembrava il più adatto, grazie alla sua preparazione giuridica ed alla sua eloquenza, ad ottenere il riconoscimento dei diritti della Deputazione e la garanzia della fine dei contrasti sul tema del S. Uffizio. In particolare la Deputazione chiedeva - suo tramite - il rispetto della "via ordinaria" anche per i processi relativi a materie attinenti alla fede, vale a dire la pubblicità dei nomi degli accusatori e dei testimoni, l'arresto del sospettato basato solo su prove inequivocabili, la nomina, da parte della città, di due assistenti laici e di un avvocato dei poveri che tutelassero i diritti dell'accusato. La richiesta più ardita era la soppressione del ministro delegato dell'Inquisizione romana e la celebrazione dei processi per eresia davanti alle autorità vescovili.
Nel viaggio a Roma cominciato il 20 giugno 1693 fu affiancato da Mario Loffredo, marchese di Monforte, che aveva sostituito poco prima della partenza il marchese di Pontelatrone bloccato a Napoli dal cattivo stato di salute. Nel corso della missione si ebbero violente prese di posizione da parte della Congregazione dell'Inquisizione da un lato e dei giuristi napoletani dall'altro, che cercavano, ciascuno dal proprio punto di vista, di tutelare i propri diritti in base a motivazioni legali maturate nei secoli. Ben presto, però, il D. abbandonò il tono aspramente polemico che aveva caratterizzato la prima fase del suo soggiorno romano. Si era reso conto che un irrigidimento delle proprie posizioni sarebbe stato solo deleterio per un buon esito della missione. Sorsero, così, sostanziali divergenze fra lui ed il più ostinato e radicale Loffredo sul modo di condurre le trattative.
Nel 1694 il D. sottopose alla Deputazione i termini di un accordo con la Congregazione della Inquisizione che prevedeva la presenza di un ministro delegato preposto a trasmettere le denunce ai vescovi e la pubblicità nel processo, a condizione che l'accusato giurasse di non vendicarsi. Il primo a dissentire fu il Loffredo, a dimostrazione che il radicalismo ora si era spostato dal fronte forense a quello nobiliare.
Nell'udienza concessa al D. e al Loffredo il 28 ag. 1694, il papa si mostrò favorevole ad esaminare eventuali proposte per giungere ad un accordo con la Deputazione a patto che non venissero intaccate la "natura" e la "sostanza" del tribunale del S. Uffizio. Ciò sarebbe avvenuto, invece, adottando la "via ordinaria"; né era ipotizzabile l'eliminazione della Inquisizione dal Regno con il rischio del diffondersi delle eresie. Nella relazione sulla udienza papale inviata alla Deputazione, il D. spiegò le motivazioni addotte da Innocenzo XII nel respingere le richieste napoletane, e, in parte, finì col giustificarle. I processi celebrati davanti al tribunale della Inquisizione dovevano - a detta del papa - conservare la segretezza, altrimenti sarebbe venuta meno la stessa ragione d'essere del tribunale che si prefiggeva un controllo occulto sulla ortodossia dei fedeli. Consapevole della irremovibilità delle posizioni pontificie, il D. avrebbe voluto porre termine alla missione chiedendo al papa la dichiarazione ufficiale della non concessione della "via ordinaria". L'ambasciatore spagnolo a Roma, il duca di Medinaceli, convinse invece Innocenzo XII a temporeggiare temendo tumulti a Napoli di fronte ad una risposta negativa dalla S. Sede. Le piazze mantennero la ambasceria a Roma in attesa degli eventi che si sbloccarono quando fu nota la posizione del re Carlo d'Asburgo il quale dichiarò la sua impossibilità ad interferire nell'operato del pontefice in materia spirituale. Abbondonate a se stesse ed ormai sicure della sconfitta, nel giugno 1695 le piazze richiamarono a Napoli il D. ed il Loffredo.
Se la missione a Roma si era risolta con un nulla di fatto per la Deputazione, non così si può dire per i due ambasciatori che ottennero vantaggi personali. Il Loffredo ebbe una dispensa papale per sposare la vedova di un suo cugino e il D. vide aumentare ancora di più la sua fama di avvocato. Secondo alcuni detrattori, il suo ardore nella lotta contro il S. Uffizio era andato man mano scemando proprio in vista dei profitti che poteva trarre da un rapporto amichevole con la Curia romana. Non a caso l'elettore di Baviera, Massimiliano II Emanuele, affidò al D., dietro suggerimento del suo ambasciatore a Roma, l'abate Scarlatti, la difesa dei diritti del fratello Giuseppe Clemente, arcivescovo di Colonia, contro le pretese del principe di Neuburg sul vescovado di Liegi. Dopo il successo conseguito in questa vertenza, divennero clienti del D. alcune delle famiglie europee più illustri.
Tornato a Napoli il D. lasciò l'incarico di avvocato della Deputazione non condividendo l'oltranzismo di quest'ultima e si dedicò soltanto alla attività forense. Fra il 1695 ed il 1696 fu l'avvocato della piazza di Nido nella causa per la aggregazione ad essa dei Carafa di Marianella. Il cambiamento di rotta del D. e, con lui, di buona parte del ceto civile, fu evidente nel 1695. In quell'anno, infatti, colui che era stato un ardente oppositore del S. Uffizio difese, di fronte alla Deputazione, la legittimità di quest'ultimo a far pubblicare a Napoli l'editto di fede concernente i casi giuridici particolari riconosciuti di competenza dei vescovi. Completò la sua carriera ricoprendo alcune fra le cariche più importanti. Nel 1696 fu nominato regio consigliere e poi capo di Ruota nella Vicaria criminale; nel 1698 tornò nel Sacro Real Consiglio nella Ruota decana. Morì nel 1703.
Il comportamento del D., apparentemente contraddittorio, in effetti rispecchiò l'evoluzione della maggior parte del ceto civile che nel corso degli anni aveva mutato il proprio atteggiamento nei confronti della Spagna e della Curia romana mostrando di essere maturo per la gestione del potere ma di perseguire, in realtà, solo una maggiore partecipazione al governo e di voler occupare uno dei posti chiave nella vita pubblica del paese.
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