PIETRO da Prezza
PIETRO da Prezza (Petrus de Prece, Petrus de Precio). – Non si hanno molte notizie sulle origini di questo importante notaio e rinomato dictator, attivo soprattutto presso le cancellerie degli ultimi discendenti della dinastia sveva, ma, in base al percorso professionale da lui compiuto, si può presumerne la nascita tra la fine del primo e l’inizio del secondo decennio del XIII secolo.
Non è certo neppure il luogo di nascita: probabilmente l’identificativo de Prece (anche nelle sue forme alternative) deve essere inteso come un toponimico, e la località è plausibilmente individuabile in quella che si trova a circa 10 km a ovest di Sulmona, in Abruzzo. Tuttavia, il più antico biografo, Gottlieb Christian von Mosheim, suppose che provenisse da Parma, perché in una sezione intitolata a Pietro di un manoscritto contenente raccolte epistolari (Leipzig, Universitätsbibliothek, 1268, cc. 50v-84r; l’epistola più antica di questa sezione è databile al 1241: Regesta imperii, n. 13364), si legge anche una lettera (Müller, 1913, n. 17) in cui una persona di quella città chiede la restituzione di alcune prebende papali: però, l’indicazione del manoscritto non è necessariamente attendibile, e la lettera appare di dubbia attribuzione, dal momento che non contiene nomi nella intitulatio o nella salutatio.
La maggior parte delle informazioni a lui relative sono desumibili dalle sue stesse lettere. Sappiamo così che fu fatto prigioniero a Parma, probabilmente in seguito alla sconfitta lì subita da Federico II, quando il 18 febbraio le truppe comunali distrussero l’accampamento imperiale chiamato Victoria (Müller, 1913, nn. 1-12). Da una lettera veniamo anche a sapere che durante quella prigionia morì suo padre, che era venuto a Parma per cercare di liberarlo, offrendosi come prigioniero al suo posto (1913, n. 2); e da un’altra che aveva un fratello, di cui viene detta (ma solo nel citato ms. di Leipzig, c. 67r) l’iniziale N. e del quale chiedeva notizie (Müller, 1913, n. 5). Non sappiamo a che titolo Pietro si trovasse al seguito dell’imperatore Federico II, ma è quasi certo che fosse un notaio della sua cancelleria, dal momento che era esperto nella composizione retorico-epistolare. Era, del resto, dotato di buona cultura, attestata anche dal fatto che, probabilmente durante la prigionia, che forse si protrasse per tutto il 1248, chiese di poter avere in prestito un libro di Livio o altre storie romane, nonché Isidoro, e imprecisate opere di Cicerone e Seneca, che erano custodite nella biblioteca di un ignoto monastero (nn. 13-14).
Al di là della compilazione di una lettera probabilmente scritta per la morte di Federico II (13 dicembre 1250) e di un documento di Manfredi del giugno 1259, in cui funge da testimone un magister Petrus de la Prece (Regesta imperii, V, n. 4700), non abbiamo altre notizie certe fino al dicembre 1267, quando venne nominato in un privilegio di Corradino (Regesta imperii, V, n. 4841). Lì, innanzitutto, il giovane sovrano lo definiva dilectus vicecancellarius et fidelis: se si considera che in quel momento non c’era cancelliere, Pietro aveva raggiunto il vertice dell’ufficio. Poi, Corradino affermava che Pietro aveva servito suo nonno (Federico II) e suo padre (Corrado IV): non viene nominato Manfredi, ma, probabilmente, non perché non avesse effettivamente servito anche quel signore, ma perché doveva essere considerato una sorta di usurpatore, che era riuscito a farsi incoronare re di Sicilia, il 10 agosto 1258, solo diffondendo la falsa notizia della morte di Corradino, legittimo erede del Regno. Dal medesimo privilegio, poi, sappiamo che Pietro, dopo la conquista di Carlo I d’Angiò, «per non venerare un dio estraneo e non sopportando un signore alieno», aveva preferito lasciare la sua terra, e che era venuto in Germania, al servizio del suo sovrano, lasciando in patria la moglie e i figli, perdendo, per di più, tutti i suoi beni e affrontando enormi pericoli, spese e fatiche. Per tali motivi, Corradino, decidendo di premiarne la fedeltà, fece sapere che Pietro aveva restituito alla Curia i suoi precedenti possessi, forse quelli che possedeva prima di andare in esilio: Faciolo in Capitanata e il castello di Ponti, connesso con la quarta parte di Sculcola, in Abruzzo; e, in compenso, Corradino aveva deciso di concedere in perpetuo a lui e ai suoi discendenti, secondo il diritto franco, i beni che erano appartenuti a Manfredi Maletta, caduto in disgrazia: Vico (del Gargano) e Ischitella, posti nelle montagne di S. Angelo, e la contea di Lesina con tutti gli uomini, i beni e le pertinenze, compreso il pantano di Varano. Dalla natura delle concessioni antiche e nuove possiamo senz’altro desumere che Pietro apparteneva a una famiglia aristocratica.
In un documento di poco successivo, del 10 gennaio 1268 (Regesta imperii, V, n. 4847), poi, Pietro è definito da Corradino protonotarius curiae: il titolo, che tecnicamente ne faceva il capo di tutti i notai, doveva essere evidentemente considerato equivalente a quello, già incontrato, di vicecancelliere (se non addirittura di cancelliere). A parte questo, però, poiché l’atto venne emanato a Verona (presso S. Zeno), si può desumere che Pietro accompagnò Corradino nella sua sfortunata impresa italiana. Il sovrano fu sconfitto presso Tagliacozzo il 23 agosto dello stesso anno, fatto prigioniero e poi decapitato a Napoli il successivo 29 ottobre.
Di Pietro si è conservato un certo numero di documenti scritti per la cancelleria di Corradino, che furono assunti a modelli retorici di ars dictaminis e trasmessi in alcuni manoscritti, perché ne venisse imitato lo stile. Probabilmente, alcuni vennero prodotti per la proclamazione della progettata incoronazione di Corradino a re dei Romani, altri in preparazione della sua spedizione italiana. Nel 1266-67 dovette poi comporre uno speculum principis, al fine di guidare il giovane sovrano a onorare il suo ruolo (buona parte di queste lettere sono edite da Rudolf Michael Kloos, 1954). Allo stesso periodo risale la Protestatio Corradini, che giustificava i diritti di Corradino sul Regno di Sicilia (trasmessa dall’anonimo Chronicon Sicilie, in L.A. Muratori, RIS, X, Mediolani 1727, coll. 824-828, riedito criticamente in Cronaca della Sicilia di Anonimo del Trecento, a cura di P. Colletta, 2013, cap. 43, pp. 55-63).
Tuttavia, la sua opera più importante è l’Adhortatio (edita per la prima volta da J.H. Schminckius, Lugduni Batavorum 1745; poi ristampata da G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani editi ed inediti, II, 1845, pp. 687-700, e da qui ripresa nella versione di Umberto Caperna, 2010) con cui Pietro, dopo la battaglia di Tagliacozzo, esortava il marchese Federico di Meissen, zio di Corradino, a far vendetta di chi (traducendo) «contro ogni giustizia, anzi contro Dio stesso, [...] contro ogni diritto di guerra, contro l’antica consuetudine confermata dall’uso, la quale previde che mai nessun re preso in battaglia potesse essere ucciso, [...] ebbe sete del sangue di così grande re, né dubitò di saziarsi delle sue carni». L’orazione è molto articolata e ricorre a diversi registri e argomentazioni per dimostrare non solo la ferocia inumana e blasfema di Carlo I d’Angiò, ma anche la sua illegittimità. Contestualmente derideva l’Angioino, che discendeva da Carlo Magno così come «un cuculo dall’aquila o un sorcio dal leone»; mentre invece era Corradino colui che era «disceso da prosapia di antichi imperatori», la cui stirpe non solo faceva capo a Carlo Magno, ma arrivava fino a Enea. E spingeva, infine, con toni profetici il suo interlocutore, il terzo Federico, a compiere il proprio destino: «prendi il nome e il numero dall’augusto divo cesare Federico serenissimo tuo avo».
Assai dubbia, invece, è l’attribuzione a Pietro del manifesto che Manfredi indirizzò ai Romani nel 1265 (Regesta imperii, V, 4760): attribuzione sostenuta da Eugen Müller sulla base di poco significative somiglianze stilistiche.
Sicuramente, dopo la battaglia di Tagliacozzo, Pietro si mise in salvo e non fu catturato. Al di là della menzionata Adhortatio, sappiamo che, quasi certamente all’inizio del 1269, offrì il suo magistero nell’ars dictaminis: la notizia è attestata dall’amico Enrico di Isernia, che racconta di essere stato chiamato alla scuola di Pietro, per seguirne gli insegnamenti (Wien, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 3143, c. 189v). Dove tenesse la sua scuola in quel momento non è dato saperlo con certezza, ma è possibile che fosse a Pavia o a Piacenza, che erano divenute i centri del nuovo movimento ghibellino. Poiché il medesimo Enrico di Isernia (ibid., c. 199r) racconta che, successivamente, su suggerimento di Pietro, si era recato a Praga, non è da escludere che anche Pietro si fosse spostato lì.
In seguito, non si hanno ulteriori attestazioni sulla sua vita.
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