MOGLIO, Pietro
da (Petrus de Muglio, de Moglo, de Mulgio, de Mulio, de Emulio, Pietro della Retorica). – Proveniente da una famiglia originaria della prima collina bolognese (Moglio, nelle vicinanze di Sasso Marconi), nacque da Bernardo (morto ante 1346) di Mirante e da una Matilde (morta prima del 1337) nel secondo decennio del Trecento, probabilmente non dopo il 1313: così farebbe supporre la sua creazione a notaio avvenuta il 19 nov. 1331, carica cui all’epoca si poteva accedere di norma intorno ai 18 anni di età. Il notariato appare in ogni caso la via seguita dalla famiglia per acquisire mezzi e risorse. La famiglia mantenne inoltre a lungo contatti e possessi nel luogo di origine, come attestano le dichiarazioni di estimo rese dal padre del M., che aveva casa in Bologna nella parrocchia di S. Colombano, ma anche proprietà in Moglio.
Non abbiamo notizie precise degli studi seguiti dal M., anche se si può ipotizzare una formazione avvenuta sotto il magistero di Giovanni Del Virgilio, se non altro per la contiguità di metodi e procedimenti didattici. Di tutto il primo periodo bolognese possediamo scarse notizie: il documento più antico del suo insegnamento risale al 1347: si tratta di un contratto di locazione con gli eredi del maestro Giovanni da Soncino di una casa in Portanova, nella parrocchia di S. Salvatore, al fine di aprire una scuola privata insieme con il fratello Francesco, ancora minore di 25 anni ma creato notaio l’anno precedente. Nella stessa casa si susseguirono Bertoluccio, autore dei Flores veritatis, Giovanni da Soncino e, dopo il M., Domenico Bandini e Bonifacio delle Pecore. Non è possibile dire con certezza quando il M. si laureò: Alidosi Pasquali indica il 1356 e Mazzetti precisa che ottenne la laurea in arti e che era ascritto ai collegi di filosofia e di medicina; ci resta, non datato, il Sermo de homine conventuando in rhetorica, grammatica et poesi, qui editus fuit pro conventuando magistrum Petrum a Rhetorica de Bononia. Lo zibaldone che lo riporta (Berkeley, Bancroft Library, UCB.85, già f.2 Ms AC.13 c 5) è un documento bifronte, insieme testimone della tradizione scolastica medievale ma anche proteso verso la nuova età dell’Umanesimo, una fase di transizione dove operano fattori contrastanti e apparentemente contraddittori. Certo è che per l’anno 1351-52 «Dominus Magister Petrus de Muglo» è pagato dal Comune 25 lire (resta il pagamento della metà della somma pattuita) per una lettura scientiae et artis retorice. La disciplina insegnata, o forse il massiccio ricorso a testi come il De inventione e la Rhetorica ad Herennium, fa sì che spesso il M. compaia nei documenti con il nome Pietro della Retorica. Nel 1352 si strinse in una società per l’insegnamento della grammatica con Alessandro di Ciglio da Casentino, attestato come lettore per gli anni 1355-59, a noi noto come possessore di un Boezio (Biblioteca apost. Vaticana, Ottob. lat., 2026) che i suoi scolari si passarono l’un l’altro, aggiungendovi ognuno note di possesso e glosse.
Del 25 ag. 1360 è il diploma dottorale in grammatica e retorica di Antonio di Bagnolo da Reggio, che fu presentato dal Moglio. Nel 1360 sposò Filippa di maestro Enrico di Sperandio lettore di medicina nello Studio, che morì prima del 1362 senza avergli dato figli.
In questi anni si venne costruendo la fama del M., attraverso gli allievi: in primo luogo il più celebre, Coluccio Salutati, che mantenne con l’antico maestro un rapporto cordiale e affettuoso, come si evince dalle tre superstiti sue missive al M., a cominciare da quella datata dal Novati 1360-61 (Salutati, Epiststolario, I, pp. 3-5), una fra le più antiche a noi pervenute, in cui il cancelliere fiorentino rievoca gli anni lontani del suo apprendistato bolognese.
Alla lettera originariamente doveva essere acclusa una poesia (che però ha avuto circolazione separata in una raccolta probabilmente allestita dal figlio del M., Bernardo) in cui il Salutati, dieci anni dopo aver lasciato Bologna, lodava il M. per avergli insegnato «quid epistola posset», l’influenza cioè che può esercitare un’epistola ben costruita, con un’allusione alla nota affermazione di Gian Galeazzo Visconti, secondo la quale erano più temibili le lettere di Coluccio di un migliaio di cavalieri fiorentini. In base a questa descrizione, l’insegnamento era ancora incentrato sul modello del dictamen, con la sua divisione dell’epistola in cinque parti. Da tali formule apprese a Bologna il Salutati si era progressivamente allontanato, per sviluppare un suo diverso modo epistolare, circostanza che può ben spiegare il rifiuto del M. di corrispondere con l’ex allievo. Ullman ha poi attirato l’attenzione su una lettera, priva del nome del mittente ma diretta al M., in cui si elogia Coluccio come «princeps moderne facundie», interessante perché proviene da un comune allievo del Moglio. Sembra di capire che Coluccio e lo sconosciuto scrivente, di lui più giovane, forse un notaio, siano stati a Bologna e abbiano fatto visita al M. negli ultimi anni della sua vita, prima del 1383. Sono invece quindici le lettere di Coluccio al figlio del M., Bernardo, fra il 1384, quando inviò due versi destinati alla tomba del M., forse parte conclusiva di un testo trasmesso in precedenza, e il 1406. La formazione di Coluccio è tutta bolognese, ed è ragionevole credere che sia stata la scuola del M. ad avviarlo agli studi letterari; desta quindi qualche perplessità il fatto che nell’ampio medaglione del Fons memorabilium universi di Domenico Bandini dedicato a Coluccio – dettato dall’affetto e dalla riconoscenza dell’allievo – il nome del M. non compaia.
Snodo centrale della vita professionale del M. fu certamente l’incontro col Petrarca. Alcuni (Wilkins e Weiss fra gli altri) vorrebbero retrodatare la conoscenza fra i due, fondandosi sull’ipotesi, che però parrebbe da accantonare, che fosse il M. l’autore della perduta (o forse mai scritta?) lettera alla quale il poeta rispose con la famosa epistola a Omero del 1360 (Fam., XXIX, 12). Billanovich sostenne invece l’attribuzione al Boccaccio e propose di identificare in Lapo da Castiglionchio il Vecchio il cultore di Omero che risiedeva a Bologna.
Piuttosto, va rilevato che, negli stessi anni in cui il Petrarca ricollocava l’epigrafia nel circolo degli interessi eruditi, il M. compose un epitaffio per il giovane capitano fiorentino Zaccaria Donati, che nell’estate del 1361 perì trucidato a Bologna da un servitore. Preceduto dall’intestazione «Epitaphium compositum per magistrum Petrum de Bononia gramatice ac rethorice professorem» si trova in fine al manoscritto (Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozzi, 92) di mano italiana e già umanistica, oltre che trascritto da Carlo Strozzi a p. 289 del suo codice di Firenze (Biblioteca nazionale centrale, Magl., XXXVII 305), ma con l’attribuzione «Versi di M. Francesco Petrarca sopra la sepoltura di Zaccheria della progenia de’ Donati». Uno degli ultimi scolari importanti di questo periodo fu Giovanni Conversini, che cominciò a studiare con il M. a Bologna, ma lo seguì quando il magister fece il passo decisivo per la sua carriera.
Il salto di qualità fu infatti compiuto dal M. con l’andata a Padova, dove si trasferì verso i primi di novembre del 1362 e rimase sei anni, trattenutovi da Francesco da Carrara il Vecchio, che aspirava a fare della sua città un grande centro di studi. Là il M. poté procurarsi facilmente gli scritti del Petrarca, come l’epitaffio per Giacomo II da Carrara, che trascrisse dall’autografo e passò all’allievo Francesco da Fiano. Si noti che l’invocazione a chi legge «Quisquis ad hoc saxum convertis lumina, lector» ritorna nell’attacco dell’autoepitaffio del M.: «Da vocem, lector, tecum vox picta loquetur». Il testo è trascritto in calce (c. 78r) al Valerio Massimo contenuto nel manoscritto Arundel 7 della British Library di Londra, ma i primi due versi li leggiamo in almeno altri due codici di Valerio Massimo, entrambi probabilmente dipendenti da letture del M.: il Vat. lat. 624, appartenuto a Battista Pallavicino, vescovo di Reggio Emilia dal 1444 al 1446, e il Vat. lat. 1925 entrambi nella Biblioteca apostolica Vaticana. Intanto il M. rientrò temporaneamente a Bologna, ma solo per sposarvi Tommasina (Misina) di Bettuccino Rombodevini, e insieme con lei fece ritorno a Padova alla fine del 1363. Il Conversini, logorato dalla vita universitaria padovana, si era adoperato perché al maestro fosse attribuita una lettura bolognese per l’anno 1364, ma dovette invece assumerla lui stesso. La tanto desiderata familiarità con il Petrarca fu finalmente raggiunta, e da allora abbiamo una corrispondenza piuttosto nutrita, a cominciare dalla Var. 11, da cui apprendiamo che prima del 19 febbr. 1364 il poeta fece da padrino insieme con il Conversini a Padova per il battesimo del figlio del M., Bernardo. Nella Var. 27, scritta verso la fine di agosto del 1364, il Petrarca parla della morte di Giovanni Pepoli e prega l’amico di rassicurare Francesco da Carrara che non intendeva prendere il posto del defunto nel consiglio visconteo. Nel novembre poi, il M. scrisse al Petrarca avvertendolo del disappunto del da Carrara per il mancato passaggio a Padova durante il trasferimento da Pavia a Venezia. La presenza del M. a Padova è dimostrata dalla lettera che Francesco da Carrara non esitò a scrivere al legato papale il 17 luglio 1365, affinché concedesse al M. di essere esentato dall’obbligo di rientrare in Bologna per tutti coloro che se ne erano allontanati dal 1350 (istanza che fu accolta, perché il M. ritornò in patria solo allo scadere del quinquennio pattuito, nel novembre 1368). Dello stesso anno è poi un documento padovano del 22 agosto, che lo nomina fra altri docenti dello Studio patavino, come lui facenti parte della corte Carrarese.
Mentre era a Padova, ebbe ospite in casa sua nel marzo 1363 il Boccaccio, che là ricevette la Senile, II, 1, dove il Petrarca si difendeva dalla critiche mosse al Bucolicon Carmen. Lo stesso Petrarca inviò poi al M. due lettere, una da Venezia del 10 ag. 1364, e una da Pavia del 28 ag. 1367. Da quest’ultima e da un’altra, a lungo rimasta sconosciuta, scritta dal M. al Petrarca probabilmente sulla fine del novembre 1367, traspaiono i tentativi dei da Carrara e dei Visconti di avere ognuno presso di sé il Petrarca. Abbiamo una sola lettera del Boccaccio al M. (1366?, Epistole e lettere, XIV), che gli raccomandava due giovani: Angelo di Pierozzo Giandonati, priore della canonica dei Ss. Michele e Iacopo di Certaldo, ma soprattutto Giovanni da Siena, che divenne in seguito stretto collaboratore del Moglio. Altri allievi che lo seguirono già dall’anno accademico 1369-70, quindi dopo il rientro a Bologna, furono il romano Francesco da Fiano e Giovanni di Matteo Fei d’Arezzo. La seconda lettera del M. al Petrarca è da collocare in questo periodo: il retore ricorda le amicizie e le protezioni acquistate nel Veneto, come quella con Donato Albanzani, e si coglie da una parte l’imitazione petrarchesca nell’uso classico del tu, ma insieme il retaggio della pesantezza del dictamen, da cui il M. non riusciva a liberarsi.
Nel 1369, il M. fu tra i testimoni di due lauree bolognesi: il 12 aprile per la licenza in medicina di Giovanni di Giusto da Firenze e il 9 giugno per lo scrutinio dell’esame in arti di Antonio da Rimini. Nel 1370-71 fu lettore di retorica allo Studio, dietro il compenso di 50 lire.
La consuetudine epistolare con il Petrarca, espressione del culto e della riverenza per lui che si aveva all’interno della scuola del M., si estese anche agli allievi: nel 1370 Francesco da Fiano e Giovanni di Matteo Fei d’Arezzo gli scrissero due lettere, piene di gioia derivante dal fatto che avevano potuto riconoscere come falsa la notizia che il poeta fosse deceduto di pestilenza a Ferrara; e una poco dopo gli indirizzò il solo Francesco per informarlo sulla salute del suo maestro.
L’ultimo scambio di lettere del Petrarca con il M. è la Sen., XV, 10. Alla descrizione della peste che infuriava a Bologna, accompagnata dalla richiesta fatta all’illustre amico di un suo ritratto e di una raccolta dei suoi scritti, giunse in risposta l’invito ad Arquà.
Nel 1372 e nel 1375 il M. stipulò due contratti di locazione: il primo con Cambio Zambeccari per affittare una casa sotto la parrocchia di S. Isaia e alcuni locali dei frati Minori; il secondo con Andrea di Giovanni da Soncino, che gli concesse di potersi servire, per gli scolari, di alcune case vicine alla via Ursaria sotto la parrocchia di S. Salvatore. In questi anni il nome del M. compare regolarmente nei Rotuli, fino al 1382.
Nel 1376 fu nel Consiglio dei cinquecento (Ghirardacci, pp. II, XXV, 354); la stessa fonte lo ricorda fra i lettori di grammatica sempre per il 1376; il 25 gennaio fu presente alla laurea di Pietro di Attrio e Alberto Buonsignori, scolari del Collegio Gregoriano.
L’ultimo documento universitario relativo al M. lo vede come testimone della laurea in teologia di frate Andalò da Imola francescano, il 10 ott. 1380 (Chart., IV, 155). Negli anni fra il 1377 e il 1382 si deve datare la lettera di Donato Albanzani al M., unica testimonianza scritta di un sodalizio che, iniziato negli anni padovani, era rimasto vivo nel tempo, se è vero che l’Albanzani raccolse e diffuse molti testi sia del M. sia del comune amico Petrarca.
Il veneziano Giovanni Girolamo Nadal nella Leandreride (IV, 6, 49-54) annovera il M., ricordato come ancora vivente, fra i recentes modernosque vates per il poemetto De Anna sorore Didonis. A lungo creduto scomparso, ma rinvenuto dal Billanovich nello zibaldone di Santi da Valiana, attuale codice II.IV.333 della Biblioteca nazionale di Firenze (cc. 38r-41v) con la titolazione «Versus magistri Petri de Emulio, maximi rethorici, de Anna sorore Didonis», consta di 249 esametri, che echeggiano scopertamente l’Eneide, pur ricalcando un episodio ovidiano (Fasti, III, 523-554).
Il M. morì il 13 ott. 1383, come informa anche il citato distico salutatiano: il Ghirardacci ne ricordò la morte di pestilenza, ma collocandola all’anno precedente, tratto in errore dalla cronaca di Bartolomeo della Pugliola. Ne pianse la morte Coluccio in una commossa lettera al figlio del M., Bernardo, che versò più volte offerte ai francescani di Bologna in suffragio del padre: il 17 gennaio e il 28 ottobr 1384 e il 5 febbr. 1385 (Bologna, Basilica di S. Francesco, Libro delle entrate del Convento di S. Francesco, B.Com., B.491). Alla morte del M. si aprì la caccia ai suoi libri, e il Salutati chiese a Bernardo di poter acquistare Ennodio, Sidonio e Simmaco, e più tardi ebbe, come restituzione di un precedente prestito, un Marziano Capella.
La più importante impresa filologica del M. fu il lavoro che inaugurò in Italia e in Europa la lettura universitaria di Terenzio. Partendo da una scomposizione e riorganizzazione del preesistente commento continuo di Giacomino Robazzi, il M. ne ridusse a glosse marginali alcuni brani, distinguendoli con la sigla del nome dell’autore, e vi aggiunse di suo altre note, attingendo a un antico codice terenziano che si trovava incatenato nella biblioteca di San Domenico di Bologna, poi scomparso (infatti non figura nell’inventario dei libri di San Domenico del 1381), forse un discendente del famoso monacense Clm, 14420 del sec. X conservato presso la Bayerische Staatsbibliothek, che impiegò anche per restituire l’originaria colometria progressivamente perduta nel corso del medioevo, e da cui trasse pure il raro alter exitus dell’Andria, segnalando a margine il ritrovamento. Il M. premise al suo commento le quattro biografie del comico a lui note: due recenti (quella petrarchesca, preziosa perché vi è annotata la confidenza avuta dal grammatico Pietro Sarasini secondo cui il Petrarca aveva distrutto la sua commedia Philologia Philostrati poiché la riteneva troppo inferiore a quelle terenziane, e quella di Giacomino Robazzi) e due più antiche, la monacense e l’ambrosiana. Ancora, rimise in circolazione sei distici con il riassunto delle commedie, prodotti quattro secoli prima, accodandone uno da lui stesso composto, che ne elencava i titoli. Il ricco dossier termina con testimonianze di autori classici e cristiani, da Cicerone a Ovidio, da Girolamo a Graziano. L’originale del M. è andato perduto, come il suo antico modello bolognese, ma il materiale terenziano circolò nell’ambiente universitario, e resta nei due codici di Reggio Emilia, Biblioteca comunale, Turri, C.17 e Milano, Biblioteca Ambrosiana, A.33 inf., molto simili fra loro; sfoltisce le glosse e modifica l’ordine dei testi il londinese della British Library (Egerton, 2909), mentre il codice conservato a Roma nella Biblioteca dell'Accademia dei Lincei e Corsiniana (Rossi, 63) sembra fra tutti quello che meglio riproduce il modello, ed è l’unico che inizia con un completo accessus.
Anche alle Tragedie di Seneca il M. si dedicò ampiamente, intervenendo sul testo ma soprattutto allestendo una raccolta imponente di materiale didattico, non ultimi i versi mnemonici (10 esametri, uno per riassumere ogni tragedia) attestati in quattro versioni, e diffusi complessivamente da almeno 40 manoscritti, così importanti anche per la fortuna iconografica dei temi senecani nella miniatura fra tardo Tre e Quattrocento.
Il commento del M. alla Poetria nova di Geoffroi di Vinsauf è nel cod. di Genova, Biblioteca Durazzo, 128 (B.II.1), contenente chiose marginali e interlineari di mani diverse e l’annotazione: «Magister Guiccardus fecit scriptum poetrie Gualfredi et hoc habet magister Petrus de Muglo in sua», cioè le glosse del M. sono trascritte, probabilmente a opera di uno scolaro, da un testimone del commento di Guizzardo da Bologna posseduto dal maestro.
Importante il commento al De consolatione philosophiae di Boezio, tradito dal ms. 45 della Biblioteca comunale di Poppi, finito di scrivere nel 1385 dall’allievo del M. Bartolomeo da Forlì: si distacca dagli altri per la sua natura quasi esclusivamente grammaticale ed erudita, disinteressandosi dei problemi filosofici del testo, così presenti invece nei commenti coevi e anche successivi. Altro testo molto fortunato sui banchi delle scuole è lo pseudosenecano De quattuor virtutibus di Martino da Braga, che possediamo in una copia (Bologna, Biblioteca universitaria, 2792) tratta dall’allievo e collaboratore Giovanni da Siena, datata 1381, recante nei margini e nell’interlinea un denso apparato esegetico ed erudito, ma anche in un passo la beffarda canzonatura dell’anziano maestro.
La Rhetorica ad Herennium del ms. della Bibl. apost. Vaticana (Vat. lat., 2898), trascritto a Padova nel 1385, presenta il nome del M. nelle glosse, il che ha fatto ipotizzare una lettura patavina precedente a quella bolognese del 1370-71 scoperta da Billanovich nel Vat. lat. 1694. Il codice fu posseduto da un altro allievo illustre del M., Francesco Piendibeni da Montepulciano, che annotò il 10 marzo 1371 come data di termine del corso sul De inventione e sulla Rhetorica ad Herennium.
Il trecentesco codice lat. 124 di Vienna, Österreichische Nationalbibliotek contiene opere morali di Cicerone nella prima parte, e Alberto Magno nella seconda. Il suo possessore Francesco da Fiano lo riordinò e annotò, postillando occasionalmente Alberto Magno e invece con costanza Cicerone; a De officiis I.3.8 si legge: «Similis est ista constructio illi dicto magistri Iohannis de Virgilio in egloga sua ad Dantem. Quod dictum et eius expositionem ego audivi a venerabili doctore meo magistro Petro de Muglo»: il M. lesse cioè ai suoi allievi dalla cattedra universitaria i carmi che si erano scambiati Dante e Giovanni Del Virgilio. Lo stesso Francesco da Fiano nel manoscritto conservato presso la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia (Mss. lat. cl. XII, 18) segnala che il M. interpretò il Bucolicon Carmen del Petrarca: sono entrambi eventi rivoluzionari, che insieme innescarono e autorizzarono una continuità fra l’egloga antica e quella moderna, preparando nel contempo l’avvento di quella umanistica.
Lo Stazio di Salamanca (Biblioteca de la Universidad, 72), scritto a Bologna alla metà del Quattrocento, proviene dalla scuola del M., e contiene una glossa sulla compiutezza dell’Achilleide: mentre il Petrarca e Giovanni Del Virgilio sono «unius opinionis, videlicet quod esset completus», Dante «erat oppositus». La parola finale sulla questio è detta dal M., ricordato in modo deferente come d’uso in ambito scolastico, in favore della compiutezza. Da ricordare il parere contrario di Benvenuto da Imola, che nel suo Commento alla Commedia dantesca accenna all’opinione di «alii calumniantes» che negano validità al giudizio dantesco sul problema. Il bersaglio principale di Benvenuto è allora probabilmente un suo diretto concorrente, proprio il M., addirittura suo coinquilino a partire dal 1376: due scuole vicine e coeve attestate su posizioni contrastanti, pratica usuale nel mondo accademico, come velatamente riferito sia dalla lettera di Coluccio al M. per la presunta morte di Giovanni da Siena, sia da quella del Boccaccio per raccomandare i suoi allievi aretini.
Abbiamo inoltre notizia di un corso su Valerio Massimo dalle note apposte dal copista del Vaticano Barb. lat. 122, che ricorda a I,1,1 la variante sostenuta dal Conversini, allievo del M. e a sua volta autore di un commento al testo, e soprattutto richiama l’opinione del M. riguardo alle partizioni interne dell’opera, come a V.10: «Hic incipit capitulum secundum Petrum de Muglio».
Nell’inventario della più ricca raccolta libraria privata veronese del primo Quattrocento, messa insieme dal notaio Bartolomeo Squarceti da Cavajon, forse anche lui allievo del M., compare un «librum Recolectarum magistri Petri de Mugio quadragintasex cartarum bambucinarum cum parmula bambucina», insieme ad altri testi, che senza nominarlo rinviano alla scuola del retore bolognese.
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