COTTA, Pietro
Di famiglia milanese, nacque da Serrando nel secondo decennio del sec. XV. Le prime notizie su di lui sono del 1428 e del 1430: giureconsulto e cosignore della Valcuvia, in quegli anni egli fu procuratore rispettivamente per i fratelli della Pergola e per i maestri ducali delle Entrate straordinarie "ad omnes lites..., quas Camera et dux habent et habituri sunt" nella città di Siena. Nel 1433 ebbe un incarico di maggior rilievo: con Gian Francesco Gallina rappresentò Filippo Maria Visconti alla stipulazione della pace da questo conclusa il 26 aprile con la lega veneto-fiorentina. I due rappresentanti, insieme a quelli di Venezia e di Firenze, nominarono nel medesimo giorno Niccolò dEste e Lodovico di Saluzzo arbitri per le questioni sospese fra i tre Stati. Nel 1441 Filippo Maria Visconti, militarmente in difficoltà nella guerra che, affiancato da Alfonso d'Aragona, sosteneva contro la lega capeggiata da Venezia, cercava con confuse mosse diplomatiche di risolvere la sua difficile situazione: il 27 aprile egli creò il C. suo procuratore per concludere la pace con Niccolò III d'Este, al quale doveva offrire per uno dei suoi figli la mano di Bianca Maria Visconti, già più volte promessa a Francesco Sforza. La stessa missione egli doveva compiere (ricevette la procura il 20 giugno) presso il marchese di Mantova.
Quando due anni più tardi il Visconti, alleato con l'Aragonese, si trovò di nuovo in guerra, questa volta contro Francesco Sforza, divenuto intanto suo genero, il C., mutato l'atteggiamento del duca verso lo Sforza e verso l'alleato, fu inviato nelle Marche. Qui, insieme con Giovanni Cambi, il C. si portò presso Alfonso d'Aragona, invitandolo a desistere dall'azione contro lo Sforza e pregandolo di sottoscrivere una dichiarazione attestante la promessa di cessare le ostilità contro di lui. Insieme a Giovanni Balbo, il C. fu nel 1443 inviato di nuovo nella Marca: questa volta i due oratori si recarono prima da Francesco Sforza, assediato in Fano, a cui presumibilmente illustrarono le intenzioni del Visconti, che nel settembre si alleava con Firenze e Venezia contro l'Aragonese. Subito dopo essi si recarono al campo del sovrano, che il duca metteva in guardia dall'avanzare oltre la Marca.
Morto Filippo Maria Visconti, il C. aderì alla Repubblica Ambrosiana e il 24 ag. 1447, insieme con Luigi Bossi, andò a Cremona presso Francesco Sforza, a cui sottopose da parte della Repubblica capitoli simili a quelli che il capitano aveva accettato dal Visconti.
I capitoli furono firmati il 30 agosto, procuratori e commissari il C., Luigi Bossi e Antonio Trivulzio. In essi tra l'altro si stabiliva che lo Sforza, se avesse conquistato Brescia, si sarebbe tenuto la città e in caso di acquisto di Verona avrebbe ceduto Brescia alla Repubblica, riservando per sé la città veneta. Subito dopo però, i Milanesi, non convinti di potersi fidare del condottiero, che si era impadronito di Pavia, inviarono il C. nel campo veneziano per cercare di addivenire alla pace. Non avendo nulla ottenuto, il C. ritornò nel campo dello Sforza. L'anno successivo, prima della battaglia di Caravaggio (15 sett.), vittoriosa per le armi milanesi, il C. tentò di opporsi agli ordini dello Sforza, ritenendoli non opportuni. Smentito dall'esito della battaglia, egli, insieme con Luigi Bossi, recò a Milano Guido Rangone e Francesco Dandolo, fatti prigionieri da Francesco Piccinino. I due commissari entrarono a Milano con molta solennità, da porta Orientale, con accanto i due provveditori catturati e preceduti da un corteo di altri prigionieri. Quando nell'ottobre lo Sforza dette l'annuncio di essersi accordato con i Veneziani, il C., raccolte la parole del condottiero, si precipitò a briglia sciolta a comunicarle ai Milanesi. La Repubblica inviò immediatamente allo Sforza due ambasciatori, che ormai non potevano far cambiare i propositi del condottiero. Tuttavia furono successivamente inviati il C., con Giacomo Cusano, Tommaso Moroni e Giorgio da Lampugnano, i quali comunicarono allo Sforza che il popolo di Milano non riusciva a credere "ch'el suo capitanio sì apertamente gli facesse guerra" e che esso gli offriva tutto quanto, salva la Repubblica, egli potesse desiderare. Ritornando a Milano i legati, senza aver ottenuto che lo Sforza recedesse dalle sue decisioni, furono assaliti da alcuni soldati sforzeschi, che li depredarono. Venuta però la cosa a conoscenza del condottiero, questi punì i colpevoli e fece rendere ai legati quanto era stato loro sottratto, rifondendo a sue spese quanto non fu possibile recuperare.
Nella convulsa situazione che venne a determinarsi nel febbraio del 1450 immediatamente prima dell'ingresso di Francesco Sforza in Milano, non è ben chiara la parte che recitò il Cotta. Nel tumulto sorto durante lo svolgimento del Consiglio del novecento a S. Maria della Scala, fece parte del comitato che si pose a capo del movimento e fu fatto capitano insieme con Gaspare da Vimercate; successivamente eletti 24 cittadini "ad capitulandum cum d. Franc. Sfortia", il C. fu uno degli eletti per Porta Nuova. Il Simonetta ed il Corio narrano però che per motivi imprecisati il C. tentò ad un certo punto di uscire dalla città, da porta Comasina e per questo fu catturato e imprigionato. Certo è che, divenuto duca Francesco Sforza, il C. fu chiamato immediatamente (11 marzo) a far parte del Consiglio segreto e gli fu confermata l'investitura della Valcuvia (16 maggio).
Nel marzo 1453 il C. fu inviato a Firenze. Era in corso la guerra fra Venezia, sostenuta da Alfonso d'Aragona, e Milano, collegata con Firenze. In Toscana l'esercito fiorentino fronteggiava quello napoletano e lo Sforza aveva mandato agli alleati aiuti militari, benché esigui. Il C. fu inviato nella città "per respecto de quelle gente" fornite dallo Sforza. Nel medesimo anno il C. si portò a Genova, da dove nell'agosto dava notizie dei progressi di Renato d'Angiò, diretto in Italia, assoldato dai Fiorentini. Come tutti gli inviati milanesi il C. vedeva la lentezza del viaggio dell'Angiò con molta insoddisfazione e pertanto si dichiarava o d'una malissima voglia". Forse rimase nella città ligure, perché da lì nel febbraio del 1454 scriveva al duca a proposito di un prestito da questo richiesto alla Repubblica, di cui si ritardava la conclusione, secondo il C., con pretesti. Il 17 marzo, meno di un mese prima cioè della stipulazione della pace di Lodi, l'ambasciatore riferiva al duca la decisione degli Anziani di Genova di rifiutare la concessione del prestito stesso. Due anni più tardi, nel giugno 1456, il C. ebbe dal duca l'incarico di accompagnare, insieme con Giacomo Trivulzio, i capitani di Verona e di Brescia, provenienti da Bergamo, a visitare la rocca di Monza. Nel 1458 egli, insieme con Silano Negri, provvide alla revisione degli statuti di Como.
Benché la Santoro sostenga che il C. sia morto nel gennaio del 1466, dopo il 1458 non si hanno altre notizie di lui.
Aveva sposato Maddalena Leonatini, da cui aveva avuto Giovanni Antonio, Giovanni Ambrogio, Giovanni Giacomo, Giovanni Stefano e Margherita, che sposò Gian Antonio Simonetta, per le nozze dei quali F. Fidelfa compose un'orazione. Il C. era stato in relazione anche con P. C. Decembrio, che gli aveva inviato in omaggio il suo De laudibus Mediolanensium urbis panegyricus.
Il figlio GiovanniGiacomo fu giurisperito collegiato. Sposò, secondo il Calvi, Maddalena figlia di Alberto Pio, secondo la Santoro, invece (pp. 22, 41, 240), Maddalena Contrari di Ferrara. Membro del Consiglio di giustizia dal 20 nov. 1480 e podestà e commissario di Como nel 1490-91, il 30 aprile 1491 divenne membro del Consiglio segreto. Nominato commissario ducale nell'Oltrepò il 15 febbr. 1494, morì nel 1506.
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