CORSELLINI, Pietro
Nacque a Siena il 21 sett. 1343 da Viviano di Corsellino, secondo quanto egli stesso dichiara nelle terzine conclusive del suo Papalisto.
In quest'autocitazione il C. oltre a segnalare il nome del padre ("mastro Vivian figliuol di Corsellino"), indica in Strove la località d'origine della famiglia; non confermata è l'ipotesi di qualche studioso della sua appartenenza al nobile casato dei Cinuzzi. Il C. viene sovente indicato come Pietro Canterino (ma anche semplicemente Piero da Siena), poiché appartenne a quella schiera di poeti popolari che si esibivano nelle pubbliche piazze e con il loro "cantare in panca" intrattenevano gli ascoltatori, ora allietandoli con la narrazione di storie avventurose e fantastiche, ora informandoli dei grandi avvenimenti della storia contemporanea. A questa duplicità della funzione del canterino corrisponde pienamente l'opera del C., che fu autore di romanzeschi cantari, ma che celebrò anche i grandi eventi della cronaca e ricevette per il suo lavoro incarichi ufficiali dal Comune.
Infatti in una delibera dei Priori di Siena del 15 luglio 1398 il C. viene chiamato "famulus" e risulta stipendiato per la sua mansione di accompagnatore di un viaggiatore illustre.
Mancano altre notizie sulla sua vita, che si protrasse certamente oltre il 1410, anno in cui fu completato il Papalisto.
Al C. vengono ascritte varie opere di carattere popolareggiante, non tutte di sicura autenticità. Si tende, per esempio, ad assegnare ad altro autore per ragioni cronologiche il sonetto "Non trovo chi mi dica che sia amore" della raccolta estense Che cosa è amore?, pubblicata da A. Cappelli (Modena 1873).
Senza contrasto invece gli viene riconosciuta la paternità del cantare Sulla natura delle frutta, di cui dà per primo notizia F. Novati (Le poesie sulla natura delle frutta e i canterini di Firenze, in Giorn. st. della lett. it., XIX [1892], pp. 55-63). Nel componimento viene svolto il tema, abbastanza frequente nella letteratura popolare, della classificazione delle varie specie di frutta, adatte a concludere il banchetto e "amartar la dilettevol sete". Il lungo elenco delle varie specialità segue una tripartizione usuale in codesto genere letterario, distinguendo i frutti dalla loro conformazione: quelli di cui "tutto dentro e fuori / puossi mangiare", quelli di cui "non quel dentro, ma sol quel di fuori deesi mangiare", quelli che "si dié gustar, se non del guscio mondo".
Non è possibile datare questo modesto componimento, né la ben più impegnativa fatica degli otto cantari della Bella Camilla (indicati nel Laurenziano LXXVIII, 23 con il titolo Otto cantari di Amodio), che costituiscono l'opera più ampia del C., il quale secondo l'usanza dei cantastorie firma il suo lavoro nominandosi nelle ultime strofe del secondo e terzo canto. Il cantare narra le imprese di Camilla, figlia di Amideo re di Valenza, che aveva promesso alla moglie morente di sposare la donna, la cui bellezza fosse paragonabile alla sua. Dopo vana ricerca la scelta di Amideo cade sulla figlia, che per sottrarsi alle nozze incestuose, si traveste, da uomo e col mutato nome di Amodio va raminga per il mare. Dopo varie avventure, procuratele dalla sua avvenenza, la fanciulla giunge a Leanza nel regno di Aquileia, dove regna Felice. Anche Cambragia, figlia del sovrano, si innamora di Camilla credendola uomo. Nel corso di un torneo Camilla ha il sopravvento sugli altri pretendenti di Cambragia ed è costretta alle nozze. Grazie a un sotterfugio uno dei principi sconfitti viene a conoscenza del vero stato di Camilla-Amodio e ne informa il suocero. Il re ordina allora che tutti i baroni del reame si rechino al fiume e vi si immergano nudi. Ma quando Camilla si sente scoperta e irrimediabilmente perduta, accorre una leonessa che, dopo aver disperso gli astanti, si rivela per un emissario celeste. Camilla, acquistata natura virile in premio della "pazienza de' tormenti", diventa definitivamente Amodio, sposo legittimo di Cambragia e futuro padre di prole regale.
L'autore attinge visibilmente dalla Chanson d'Yde et Olive, da cui deriva anche il cantare della Reina d'Oriente del Pucci, con cui questo della Bella Camilla presenta peraltro affinità evidenti nella costruzione del racconto, ingrossato dal C., soprattutto nella parte iniziale, da vicende che hanno un carattere ripetitivo e non alterano lo schema dei modelli usufruiti. In generale l'opera, i cui prestiti da una preesistente leggenda sono pacificamente ammessi dall'autore, è una variazione del motivo tradizionale della fanciulla perseguitata costretta a ogni sorta di prove e peregrinazioni. Ma il tema della verginità minacciata, caro alla narrativa erotico-avventurosa, si colora in questo caso di inedite complicazioni e Camilla viene esposta, con non pochi affronti alla morale, ai desideri amorosi di altre donne. Perciò, per salvaguardare la costumatezza del suo racconto, il C. attribuisce alla protagonista una preordinata indifferenza verso l'altro sesso e un'attitudine quasi virile alla destrezza fisica, che dovrebbe rendere anche meno inverosimile la metamorfosi conclusiva. Sempre per distogliere l'attenzione degli ascoltatori dalla sconvenienza di certe situazioni, egli invita a riflettere sull'"asempro" che la condotta di Camilla può fornire, rivoltando forzatamente a finalità morali l'epilogo dove le sue disgrazie vengono così singolarmente premiate. Il cantare, pieno di indugi e di prolissità, è ben lontano dall'imitato modello del Pucci, con il quale il C. intendeva istituire confronto, come ha supposto il Levi.
Intento celebrativo hanno invece i tre cantari in ottava rima scritti in occasione della morte del duca di Milano Giangaleazzo Visconti avvenuta il 3 sett. 1402. Il C. dichiara con insistenza di avere attinto la sua materia da una cronaca ("come lo scritto aperto mi disserra"; "dicie lo scritto qua] tengo per cronica"; "come letto agio", etc.), che potrebbe essere l'anonimo Ordo funeris Ioh. Gal. Vicecomitis, divulgato anche in volgare. L'opera è un tributo di commossa gratitudine, che non assume tuttavia accenti personali, ma pare piuttosto esprimere la devozione di Siena, di cui Giangaleazzo era stato, secondo l'autore, protettore e agognato signore: "e più de' lamentarsi per dolore / Siena sommessa a llui per proprio amore". Non si può perciò escludere l'ipotesi di una committenza ufficiale che potrebbe trovare suffragio nella qualifica pubblica del C., il quale certo continuava una letteratura senese filoviscontea, che contava tra l'altro l'esempio del Saviozzo. L'autore tesse le lodi del "nuovo Ottaviano", ne ammira la magnanimità verso i sudditi e l'ospitalità verso i fuorusciti, ma è attento soprattutto a suscitare nell'ascoltatore l'emozione e la meraviglia, prima attirandolo con il patetico della descrizione degli istanti supremi del conte di Virtù, poi abbagliandolo con il minuto reportage dell'interminabile rito funebre. Il C. si abbandona infatti al gusto tardofeudale, amante del cerimoniale e delle parate, e rappresenta le esequie come un fatto spettacolare. Perciò la lenta rassegna delle insegne, dei cimieri, degli stendardi esibiti dalle rappresentanze delle varie città sottoposte o amiche deve fissarsi nel ricordo dell'uditorio per il fasto dei contrasti cromatici e per la collettiva manifestazione di cordoglio. Poche e sparse sono le reminiscenze dotte e tali comunque da assicurare prestigio al poeta, ma da non renderlo incomprensibile al pubblico: Dante, citato per la sua autorità, alcuni personaggi romani, rare metafore mitologiche.
Un intento didascalico presiede anche alla composizione del Papalisto in sei capitoli in terza rima (Siena, Bibl. com., C. V. 14; Riccard. 2729 e 2755, Magl. II, II 82). L'autore dà la successione cronologica dei pontefici e promette in una prefazione di esporre anche avvenimenti contemporanei della storia della Chiesa (concilio di Costanza, morte di Giovanni Huss), confermando il ruolo di mediatore tra grande cronaca e popolo del giornalismo orale dei canterini.
Il cantare Sulla natura delle frutta è riportato da F. Novati, op. cit. Il cantare sulle esequie di G. G. Visconti è stato pubblicato da A. Bartoli, in I manoscritti italiani della Biblioteca nazionale di Firenze, III, Firenze 1883, pp. 127-57; i cantari della Bella Camilla sono stati pubblicati da V. Fiorini (pref. di T. Casini), Bologna 1892e costituiscono la dispensa CCXLIII della Scelta di curiosità letterarie inedite o rare.
Bibl.: L. Ilari, La Bibl. pubblica di Siena, I, Siena 1844, p. 218; Novella della figlia del re di Dacia, a c. di A. Wesselofsky, Pisa 1866; F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secc. XIII e XIV, Bologna 1878, I, p. 943; II, pp. 71, 97, 102; F. Tozzi, Antol. d'antichi scrittori senesi, Siena 1913, pp. 327 ss.; E. Levi, I cantari leggendari del popolo italiano nei secc. XIV e XV, in Giorn. st. della lett. it., Suppl. XVI, pp. 133-37; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1973, pp. 576, 587; U. Cagliaritano, Mamma Siena, IV, Siena 1972, p. 728; E. Ragni, I cantari, in Diz. critico della lett. it., I, Torino 1973, p. 487.