CIVRAN, Pietro
Quarto dei sette figli maschi di Antonio (1575-1642) di Bertucci e di Chiara di Giovanni Badoer, nacque a Venezia il 16 genn. 1623. Suggestionato dall'esempio del padre assurto a rilevante posizione, il C. si diede alla vita politica, al pari dei fratelli, quattro dei quali muoiono nel corso della guerra di Candia, mentre Alvise sarà, via via, capo del Consiglio dei dieci, provveditor generale dell'isole del Levante, capitano a Brescia. provveditore sopra la Piave. Ufficiale alle "Rason vechie" quindi dei Dieci savi, il C. figura, nel marzo del 1655, tra i "40 eletti dalli 9" essendo così presente nella seconda tappa della complicata elezione dogale. Per due volte poi della "zonta" del Pregadi e successivamente senatore ordinario, il C., così una relazione, anonima, del 1664 sul patriziato veneziano è "gentiluomo di strettissimo parentado, di fisionomia venerea, d'ingegno dolce, erudito, gentile, amico dell'equità e di mediocre spirito": più cortese che energico, dunque, più compito che autorevole.
Capo, in seguito, del Consiglio dei dieci, di nuovo membro del Senato e della "zonta" di questo, provveditore all'artiglieria, consigliere di Cannaregio, provveditore all'Arsenale e poi alle fortezze, la nomina, del 1673, a provveditore generale in Dalmazia e Albania sottrae il C. all'appiattimento insito nella pur diligente presenza alle sedute senatorie e nella pur zelante partecipazione a magistrature collegiali.
Nel corso, tra il marzo del 1673 e l'agosto del 1675, della permanenza dalmata, il C., munito d'un'autorità implicante il "corrispondere" con ventotto pubblici "rappresentanti" e dieci "tra castellani e camerlenghi", il "destreggiare" con nove vescovi e due arcivescovi, il "negotiare con turchi et austriaci", lo sventare le "frequenti insidiose inventioni de' ragusei", il "divertire" i corsari controlla depositi di "munizioni" "arsenali hospitali" "fabriche publiche" "presidi", vigilando sullo "stato" delle varie "piazze". Si sposta, perciò, sovente da Zara per visitare accuratamente Nona, Sebenico, Spalato, Traù, Clissa, Almissa, Curzola, Cattaro, Budua, Cherso, Chero, Veglia, Arbe, Pago, anche per verificare che non si concedano "sali" a "stipendiati ministri et altri" in "Pagamento de' lor crediti", per indurre i mercanti "a condur le carni" a Venezia, per scoraggiare gli abitanti dall'acquisto di "grani" della Puglia e della Romagna e ricondurli alle "biave" di Venezia ricambiabili coi "salumi" locali, per vigilare non avvengano "sbarchi di gente sospetta d'infettione". Preoccupante il pessimo "stato" della cavalleria e giustificato, peraltro, dalla miserrima paga che il C. s'adopera ad elevare; quanto mai necessaria una minuziosa "regolatione delle compagnie" di fanti; diffuse e dure da estirpare le "corruttelle invalse tra le confusioni delle passate travagliose contingenze" a pregiudizio "de' pubblici datii e delle... publiche ragioni" contro le quali il C. procede severamente nel tentativo di ripristinare in tutti i sensi - fiscale e di comando - l'autorità veneta fortemente scossa durante la guerra di Candia. Donde l'impegno per "ristorare li fontici monti et altri luoghi di pietà" dalle malefatte di "amministratori assunti... dal ristrettissimo numero" dei componenti i "consegli" cittadini, "nobili - precisa il C. (senza essere sfiorato dal sospetto che il fenomeno, anziché essere imputabile alla "natione", non derivi, invece, dalla gestione oligarchica in quanto tale e non valga, perciò, pure per la Serenissima) - imbeuti col latte e persuasi dall'interesse maggiormente stimarsi quanto più si restringe tra poche famiglie la distributiva o il maneggio delle cariche". Costante cruccio del C. - in un paese ove ogni "angolo" è "frontiera di qualche potentato straniero", ogni "città e luoco è situato al lido del mare" - la "quiete al confine e l'ostacolano quotidianamente i riottosi Morlacchi che, "nati et allevati per le rapine", avevano vista legittimata, durante la guerra di Candia, la loro "fierezza" antiturca; pericolosi "turbatori della quiete" altresì i "segnani", sudditi "dell'imperatore, residui degl'antichi uscocchi", colle loro continue "scorrerie e danni al paese turchesco" le cui autorità tendono a corresponsabilizzare Venezia accusata "hebbinó passaggio" per i suoi "territori". Il C. fa il possibile per prevenire incursioni e colpi di mano; trasferisce, inoltre, "alcuno de' morlacchi più infesti", cerca di "havere nelle mani i capi". Da ridimensionare, invece, la versione già presente nella storiografia dell'epoca e via via consolidatasi che tende a fare del C. una sorta d'eroe vittorioso nella lotta contro la pirateria. In effetti il complicato "maneggio delle fuste" corsare non fu risolto con un suo deciso intervento di forza ma grazie, soprattutto, all'abilità del bailo Giacomo Querini che indusse la Porta ad ordinarne la distruzione. Marginale, invece, il ruolo del C. il quale - "privo", peraltro, di direttive precise - aveva, per suo conto, abbozzato una sorta di "trattato" con il sangiacco di Scutari non approvato dal Senato. La soluzione, comunque, è attestazione della collaborazione veneto-turca: si è "operato - scrive il C. il 24 apr. 1675 - dalla mano de' barbari il condegno castigo de gl'infedeli con l'incendio", a Dulcigno, di dieci "fuste corsare che era l'intiero numero che usciva da quella parte ad inquietar il dominio" veneto del "Golfo", danneggiando il "commercio" e riducendo "in misera servitù tant'anime de' fedeli".
Ritornato a Venezia, salutato nell'atto della partenza dalle "universali acclamationi" effuse spontanee da "li cuori di tutti" i Dalmati, il C. presenta, nel dicembre del 1675, una elaborata relazione ove ricorda l'"obbligo" da lui assolto di "frenare con l'arti della pace popoli molto agguerriti" ammansendo soprattutto il "genio feroce" di "villici... avvezzi a vivere più di rapine che di sudori", inclini a "pratticar de facto e di propria auttorità i propri rissarcimenti delle rappresaglie de confinanti" col rischio di determinare "qualche fastidioso sconcerto" nei rapporti con la Porta.
Preoccupato, nella relazione del C., il cenno al diffondersi "nei villaggi e nelle città, del "rito greco con la permanenza d'alcuni calogeri", monaci cioè o vagabondi o pure perché i religiosi cattolici non curino né d'apprendere né d'esercitare le medicine bisognevoli per la salute dell'anime". I "vescovi" e i "capitoli" sono, infatti, assorbiti da "acerbe contese", nelle quali si mescolano anche gli "ordini secolari"; e la palma della litigiosità spetta comunque alle "monache". Angosciata, infine, la costatazione del C. che "sono aperte da una parte e dall'altra del Golfo più bocche divoratrici del più precioso alimento della Republica"; e, nel caldeggiare che Venezia riesca ad imporre, come in passato, che "quelli ch'entran" nell'Adriatico, vale a dire nella "casa di Vostra Serenità", nella dimora stessa del doge, servano "a' suoi vantaggi", il C., peraltro personalmente partecipe nella massiccia presenza dell'aristocrazia nell'accaparramento di terre, interessato ad essere investito di feudi sembra animato dalla convinzione, vischiosamente sopravvissuta al reale volgersi del patriziato agli investimenti fondiari, che la grandezza di Venezia continui ad identificarsi colla tenuta della sua egemonia marittima.
Certo il provveditorato in Dalmazia segna un rafforzamento del prestigio del Civran. Non mancarono però le critiche che riecheggiano nel testo, del 1675, d'un anonimo ben introdotto nel mondo patrizio cui dedica un centinaio di profili: dopo aver malignamente osservato che il "generalato" gli è stato affidato "più in memoria del merito antico" dei suoi "proavi, senatori di grado et stimatissimi nella professione del mare" che per riconoscimento della sua effettiva capacità, accusa il C. d'avere - per assecondare le mire al cardinalato del fratello Giuseppe (1623-1679). vescovo di Vicenza - ostentato un tal ossequio per la "libertà ecclesiastica" da schierarsi apertamente, in un "disgusto", scoppiato a Sebenico, tra rettore e vescovo, dalla parte di questo costringendo il primo a scusarsi. Per fortuna - commenta acido l'anonimo - "la mercede del serviggio prestato a Roma è svanita" coll'elezione, del 12 giugno 1673, a cardinale d'un altro veneziano, Pietro Basadorma. Inutile, pertanto, il clamoroso gesto del C. volto a puntellare la candidatura del fratello: entrambi - insiste l'anonimo - "in vanum laboraverunt".
Nominato, alla fine del 1678, bailo a Costantinopoli, la morte del fratello vescovo il C., rispettoso delle sue volontà testamentarie, gli fa erigere un altare nella chiesa veneziana di S. Giovanni Grisostomo, ove tuttora una lapide lo ricorda (cfr. S. Tramontin, San Giovanni Grisostomo, Venezia 1968, p. 56) - e quella, dell'8 apr. 1679, del figlio Antonio ritardano, sino al 31 luglio 1679, la partenza. Né il viaggio, oggetto d'un noioso racconto di Michele Benvenga, cui partecipa pure Luigi Ferdinando Marsili accolto nel seguito del C. col "titolo di camerata del bailo", è celere: solo il 23 ottobre il C. è a Costantinopoli. Ma il carico insospettisce le autorità turche; ed il C. viene accusato d'approfittare della valigia diplomatica per sottrarre cospicui quantitativi di merce - si parlava di "mercantie" del valore di 400.000 reali - al pedaggio doganale. A poco valgono le sue proteste: ad evitare l'umiliazione d'una perquisizione non resta che sottoporsi all'ingente donativo di 25.000 reali. Solo così l'incidente si sgonfia ed è possibile il suo ingresso solenne.
Un più grave "infortunio", di lì a poco, tale da rasentare l'"incendio", aggrava la situazione già compromessa: l'imprudente occultamento - rivelato da uno schiavo casualmente scoperto -, nelle navi che avevano scortato il C. e che attendevano di partire col predecessore Giovanni Morosini, di parecchi schiavi fuggitivi suscita l'ira furibonda dei Turchi. E l'affiorare di alcuni cadaveri presso le navi fa circolare per tutta la città la convinzione che i Veneziani avessero preferito buttare a mare quanti presso di loro erano riparati ad evitare le conseguenze d'un rigoroso controllo. "Fatale e terribile turbine - scrivono il 18 febbr. 1680 al Senato il Morosini e il C. - ...pericolosa estrema contingenza... terribile insorgenza": sono in ballo le loro vite, o quelle di tanti cittadini" veneti e "li capitali pretiosi delle due navi armate" e dei quattro "mercantili" coi quali il C. era giunto. Ancora una volta non v'è altra soluzione che l'esborso di 50.000 reali per tacitare l'avidissimo primo visir Karà Mustafà e i suoi "rapaci ministri", altrimenti il Morosini non può partire ed il C. non viene ammesso alla "prima solenne visita" al primo visir.
Il Senato, però, che, ancora il 20 genn. 1680, aveva severamente proibito versamenti sprovvisti di preventiva autorizzazione, misconosce l'operato del bailo, non ammette siano addossati al "publico erario" i "dispendi" sostenuti per "la... molestia de' schiavi". Donde l'imposizione al Morosini (che, tornato a Venezia, si vede sospeso il recente titolo di procuratore di S. Marco; e il dolore per la caduta in disgrazia ne accelererà la fine) e al C. del risarcimento di "tutte le spese" affrontate per detta "molestia de' schiavi" col conseguente sequestro, affinché gli avogadori di Comun possano "procurar con le vie più pronte il rimborso", degli "effetti e dei "beni" d'entrambi. Ulteriore cocente umiliazione pel C. e, nel contempo, indiretta conferma d'un minimo di fondamento dei sospetti turchi - l'addebito, da parte degli avogadori di Comun e dell'inquisitore Francesco Foscari, di 7.940 ducati, il doppio, cioè, del dazio d'uscita che avrebbe dovuto pagare, per "la robba estratta per Costantinopoli con pregiudicio de' publici dacii". Anche a Venezia, insomma, si pensa sia salpato con "robbe" di per sé non implicanti l'immunità doganale! Quanto alla carica il Senato ingiunge bruscamente, il 26 apr. 1680, d'accingersi, accampando colla Porta "importanti riguardi" privati, "prontamente al ritorno". Un richiamo, insomma, di cui il C. prende atto in giugno, senza peraltro poter obbedire ché il primo visir ne condiziona la partenza all'arrivo del successore, sì che solo il 16 ag. 1681 egli si imbarca sulla nave "Altar di S. Iseppo". E salpa alla volta di Venezia, con il "contento" d'essere esentato dalla "visita", cioè dal controllo della nave, e dalla "consueta remora di tre giorni" e l'omaggio, al passaggio dei Dardanelli, dello "sbaro del cannone" da tutti i quattro "castelli". Il che diluisce un po' l'amarezza d'aver "consumato" nella capitale ottomana "la complessione, abbreviati gli anni di... vita tra continui tormentosi sconvolgimenti e sacrificato il più puro delle sostanze della... povera casa".
Certo il bailaggio così infelicemente iniziato non l'ha reso disponibile nei confronti del Turco. "Cittadino il più debole della patria sotto rimoto e barbaro cielo", i suoi dispacci esprimono un rifiuto esasperato, persino ribrezzo. Tutto vi è o barbaro": non solo il "governo" tirannico nella sua "estraordinaria estravagante fornia", non solo i singoli ministri - a cominciare dal primo visir dall'inaudita "alteriggia" dall'insaziabile cupidigia dalla bestiale "durezza" - ma lo stesso "imperio" nel suo assieme, "soggetto" com'è, dall'"avido suo monarca" al più modesto funzionario, alla "tirannide dell'oro", da questa irrimediabilmente inquinato. "Barbara" non solo la "corte" col suo orribile intreccio di "rapacità" e corrotte o delitie" di violenza sanguinaria e crudele e di snervata effeminatezza ma tutta la "natione": il suo "genio" è "feroce", è esecrabile "nemica del nome christiano", assatanata dalla fallace religione del "falso profetta Maometto". Di più: la barbarie impregna e satura lo stesso ambiente: "barbaro", allora, il "clima", il "cielo", "barbari" i "lidi". Meno emotivo, il Senato non l'aveva assecondato in questa sua inclinazione deprecatoria preferendo, invece, dargli, via via, precise istruzioni: informi su i rapporti turco-ragusei, i "passi del residente cesareo", la "piega delle cose in Polonia", la "solevatione in Babilonia", i "dispareri tra' fratelli tartari", il "progresso" dei "negotiati di pace con moscoviti", le "mosse dei persiani"; sventi le manovre dell'ambasciatore francese per conseguire, rispetto a lui, "vantaggio di posto nella uscita del visir"; vigili sulle "sinistre intentioni" di questi "sopra" Corfù, fomentate dalle "insinuationi del scelerato Barozzi", un "traditor" passato ai Turchi ancora durante l'assedio di Candia; protesti vibrantemente contro i continui "danni" ai "sudditi" veneti operati dai "corsari turcheschi", agevolati dall'interessata connivenza dei "ministri", sfacciatamente partecipi della "preda", di Morea, Durazzo, Valona, Castelnuovo; ottenga il rilascio del nobile Matteo Querini catturato presso Valona da un "legno" algerino. E i dispacci del C., al di là degli sdegni per la "fiera tirannide" d'un "iniquo governo", ragguagliano sulla penetrazione francese tramite le "chiese" e i "monasteri" d'indaffarati cappuccini e gesuiti, l'aspra rivalità tra il "primario ministro e gl'altri grandi suoi emoli", le difficoltà dell'"erario publico" sempre prossimo ad essere travolto dalle "spese" di gran lunga eccedenti le "rendite", le rimostranze asburgiche per l'appeggio fornito dalla Porta ai "ribelli" ungheresi, l'"ammassamento da ogni parte... delle militie", le sollecitazioni a "tener allestite le loro" inviate ai "principi di Transilvania e Valachia".
Sbarcato a Venezia il 16 ott. 1681, il C. condensa nella relazione le "osservazioni" della sua "debolezza" su di un "governo" eretto sulle "rovine di tanti regni e provincie" e - confermando l'ottica già evidente nei dispacci d'inorridita moralistica contrapposizione - analizza l'"intrinseca forma di quel governo, le persone che lo reggono... e con quali massime", espone i suoi "riflessi sopra la qualità delle sue forze, genio e costumi dei popoli" e considera, infine, lo stato dei rapporti della Porta con gli "altri principi".
Ferma la difesa della condotta sua e del Morosini che l'ingiusta riprovazione ha "di giorno in giorno condotto alla tomba"; ora questi, aggiunge fiero, è "accolto in cielo" e vi "gode del giusto applauso dell'Europa tutta". Entrambi ignari della presenza a bordo di schiavi fuggiti - e osserva pungente che nessuna punizione è stata inflitta ai veri responsabili, gli ufficiali e i marinai che li avevano incautamente, accolti e nascosti -, hanno dovuto far fronte alle conseguenze della confessione dello schiavo scoperto, al successivo "equivoco de' cadaveri galleggianti" presso i navigli veneti. Che altro potevano fare se non pagare quando tutta la città era "concitata" contro di loro e la sua "plebe furibonda" esigeva l'incendio delle navi, lo sterminio della colonia veneziana? V'era, forse, altro modo per evitare lo "scempio ch'era per nascere"? Per parte sua così la dignitosa conclusione della relazione - lo conforta la certezza che le "tribolazioni" subite, la "perdita... d'un intero patrimonio" stanno a significare come, in ogni caso, "vita" e "sostanze" vadano sacrificate alla patria; un monito, quindi, e un esempio per la "posterità". Quando, poi, il C. viene a sapere della deposizione, del 15 maggio 1683, del suo successore - il bailo Giovan Battista Donà che aveva sborsato 175.000 reali per tacitare l'ira ottomana per il "grave accidente di Zemonico" (quivi i Morlacchi avevano massacrato centodiciassette sudditi della Porta) - richiamato a Venezia per esservi processato, presenta una "supplica" per chiedere lo stesso trattamento. Gli "fu levato il servitio", ricorda, "fulminato il rissarcimento, ma la difesa non permessa". Al Donà "autorevole decreto" toglie la "carica", impone la restituzione d'un'enorme somma, ma almeno è offerta, col processo, la possibilità di "diffesa". Si "disserrino per me ancora", insiste il C., le porte del carcere: "questo ricetto che aboriscono i colpevoli come odioso ricovero... lo bramo... come centro di quiete e di consolatione". È disposto ad entrarvi "anche nel tempo che s'anderà formando processo". Anche la carcerazione preventiva, insomma, è per il C. benvenuta, purché ci sia l'agognato "processo", nel quale si valuti non solo "il negocio de' schiavi tanto alterato da gl'equivochi di sinistre apparenze", ma ogni sua "attione nell'amministratione de' publici capitali ancora". La sua coscienza è pulita: "non ho io protetto privati, ma le publiche navi, le publiche imprese, il publico decoro, questa patria, la commune libertà". È prassi estranea alla "publica dignità" infliggere "castigo senza colpa". Egli non può essere "supposto" colpevole, ma è dovere di "chi governa" provarlo con la "inquisition delle colpe". Non teme il giudizio, lo invoca: "supplico che si svegli contro di me lo sdegno più feroce della giustizia irritata".
Anche se non risulta il C. abbia avuto la soddisfazione d'un processo nel quale far risaltare l'innocenza e la coerenza del suo comportamento, certo l'assoluzione del Donà e l'adesione di Venezia alla lega santa dovettero riflettersi positivamente sulla valutazione della sua condotta: in fin dei conti seppe destreggiarsi in un ambiente ostile e prevaricante incline ad esasperare e a provocare. Sì che il C. è più volte senatore tra il 1683 e il 1686.
Né il risarcimento della somma versata dovette renderlo realmente privo "delli haveri e de' beni di fortuna", come lamenta nella "supplica", se, nel 1684, poté affrontare le spese ingenti del sollecito riscatto del Marsili dalla schiavitù: "subito spedì il denaro per la mia libertà... barca e uomo con denari e recapiti per somma maggiore della richiesta e con ordine espresso che volevami libero per ogni prezzo... se non avesse la carità d'un amico usata tal sollecitudine nel mio riscatto, non sarebbe questo seguito più", visto che era scoppiata la guerra, riconosce il Marsili più volte. Imperitura in lui la gratitudine pel C. che durante il bailaggio gli "accordò un amore veramente da padre" e che poi, saputolo schiavo, "aperse il scrigno" ed inviò un "bastimento espresso" con un "mercante di panni" col denaro per la liberazione in Dalmazia. Un gesto - insiste col fratello Filippo ancora nel 1704 - "che da nessun compatriota mai si sarebbe fatto". Ed è sempre il C. ad accoglierlo, "con tenerezza da padre", una volta liberato, a casa sua e a permettergli di recuperare la salute tramite l'assidua assistenza del medico Giacomo Grandi. Perciò il Marsili chiama più volte il C. "mio benefattore" e "mio redentore".
Il C. morì nel gennaio del 1687 essendo "uno delli 6 deputati alla riparatione de' lidi". S'era sposato, il 19 giugno 1645, con Paolina di Agostino Nani che gli aveva dato una figlia, Chiara, andata sposa a Giacomo Marcello di Andrea, e numerosi figli: Antonio (1646-1679), Agostino, che diverrà abate, Bertucci che morrà in un naufragio, Girolamo che si farà francescano, Alvise, Giuseppe sopraprovveditore alla Sanità nel 1683 e in seguito provveditore straordinario a Corone, Giovanni, Francesco e Nicolò.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 58, e61v; 92, c. 64r; Ibid., Avogaria di Comun. Penal, 48/2 e 474/13; rubrica delle lett. e lett. inviate dal C. dalla Dalmazia, Ibid., Senato. Lett. provv. da terra e da mar, filze 383, 506-508 e cenno sul C. in filza sog, lett. del 7 ag. 1675; lett. del C. da Lesina del 1673, Ibid., Capi del Cons. dei Dieci. Lett. di rettori, busta 278/168; disposizioni al C. e cenni a lui attinenti, Ibid., Senato mar, regg. 139, 140, 141 (sino a c. 55r), passim e Senato. Deliberaz. Costantinopoli, regg. 33, cc. 5v, 13v, 40v, 55, 71r e 34, passim sino alla c. 109v e Senato rettori, reg. 58, c. 163r e Senato terra, reg. 214, c. 33v; copie della relazione di Dalmazia del C., in Venezia, Civico Museo Correr, Mss. Gradenigo Dolfin, 40, cc. 27r-55v e Misc. Correr, VI/770 e Mss. P.D., 185, cc. 2r-16r e Mss. P.D., C, 616/I; copia della relazione di Costantinopoli del C., Ibid., Misc. Correr, X/1257 e Mss. P.D., 701 C/19; copie della "supplica" del C., Ibid., Cod. Cicogna, 2505 e 3123/12 e Mss. Correr, 977/4 e Misc. Correr, XXXII/1886 e LXXVII/2369; lett. del C. a Polo Michiel, Ibid., Mss. P.D., C, 1054/521, 547 e 1059/233; lett. del C. dalla Dalmazia, Ibid., Mss. P.D., 581 C/29, 30; lett. del C. tra l'agosto 1679 e il febbraio 1680 al provveditore generale in Dalmazia e Albania Pietro Valier, Ibid., Mss. P. D., 617 C/V; il C. rappresenta, a proposito d'un "livello" stipulato ancora nel 1611, le "ragioni" del "Sasonia" di contro ai fratelli Rocca, Ibid., Mss. Dolcetti, 162; un'investitura a vantaggio del C., del 27 nov. 1645, d'un feudo da parte del vescovo di Padova Giorgio Corner, Ibid., Mss. P.D., C, 2441/6; un'investitura, a vantaggio del C., di feudi decimali, in seguito a morte del beneficiario Gasparo Thiene, da parte del fratello vescovo di Vicenza sancita da ducale del 4 marzo 1674, Ibid., Mss. P.D., C, 2360/VI, X; convenzione del 19 giugno 1679 del magistrato delle Rason vecchie per il trasporto di duecentoventi colli a Costantinopoli, Ibid., Mss. P.D., C, 95/109; copie della Relatione delle due avanie fatte da' turchi a... Morosini... et C. ... 1679, Ibid., Cod. Cicogna, 1500/8 e Misc. Correr, XXXII/1885 e LXXV/2638. Esame ist. pol. di cento soggetti della Repubblica, Ibid., Mss. Gradenigo Dolfin, 15, pp. 161-163; larelazione di Costantinopoli e cenni sul C. in Le rel. ... al Senato degli amb. ven., a c. di N. Barozzi-G. Berchet, Turchia, II, Venezia 1871, pp. 199, 249-285, 289; Documente privitóre la istoria Românilor…, a cura di E. de Hurmuzaki, V, 2, Bucuresci 1886, pp. 157-162 passim; F. Sansovino, Venetia città nobilissima, Venetia 1663, pp. 262 s., 380; L. F. Marsili, Osservazioni intorno al Bosforo, Roma 1681, pp. 6 s.; Id., Stato... dell'Imperio ottomano, Haya-Amsterdamo 1732, I, pp. IX s.; II, pp. 164-167; Id., Autobiografia..., a c. di E. 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