CAVALLINI, Pietro
Pittore. Nel 1291, già in piena maturità d'arte, eseguiva i musaici inferiori nell'abside di S. Maria in Trastevere, a Roma; nel 1308, lavorava per Carlo d'Angiò a Napoli; era ancora operoso circa il 1321 se suoi, come affermò il Ghiberti, sono i musaici della facciata della basilica ostiense, ora quasi in tutto perduti o rifatti. Il Ghiberti, che ne vide molte opere a Roma poi scomparse (a S. Pietro, a S. Paolo, in S. Cecilia, in S. Crisogono, e altrove) lo celebrò su tutti i maestri romani, notando ch'egli teneva un poco della maniera bizantina; il Vasari ne deformò l'aspetto, dicendolo seguace di Giotto; dopo averlo lungamente trascurato, la critica moderna, ritrovati in parte (1899) i suoi affreschi in S. Cecilia, lo ha riconosciuto come uno dei rinnovatori della pittura in Italia sulla fine del Dugento, tentando di ricostruirne l'attività, ma non senza molte incertezze e discrepanze.
La più antica delle sue opere fin qui note - i musaici di S. Maria iri Trastevere: sei storie della Madonna e l'Apparizione di questa al committente Bertoldo Stefaneschi - ne lascia bene scorgere le origini in quella scuola romana che durante il Dugento era stata penetrata sempre più da influssi della pittura bizantina, fino agli affreschi del pittore del Pantocratore nella cripta della cattedrale di Anagni e ai musaici del Torriti, contemporaneo del C. Come Duccio a Siena e Cimabue a Firenze, a Roma il Torriti e il C. padroneggiarono le formule bizantine ed ebbero nello stesso tempo il potere di modificarle e di animarle in nuovi modi. Il C. altrimenti geniale e vigoroso che il timido e fine Torriti, educò alla pittura bizantina, e specialmente alle sue forme più classicheggianti, le qualità coloristiche che lo distinguono; per certo le confermò osservando quei monumenti antichi e del principio del Medioevo a cui da tempo, ma con altri occhi, riguardava la scuola romana: e le sviluppò in modo suo esaltando il colore negli aspetti più particolari, di morbidezza e d'instabilità nella luce. Persistono, in quei musaici, molti manierismi bizantini di colorire e di lumeggiare, ma sono rianimati o sul punto di dissolversi: e su tutto si esprime l'individuale senso dell'artista. Il C., come allora ogni altro dei maggiori - Cimabue, Duccio, e, su tutti, l'esordiente Giotto cercava fermezza plastica e profondità; ma egli le subordinò originalmente a quel suo colorire: nelle composizioni ariose per larghi intervalli in superficie, più che per profondità di spazio; nelle figuie, di rilievo evidente ma senza netti distacchi di piani, avvolte nel variare iridato del colore come nei morbidi panni lanosi. Nella Dormizione della Madonna sono chiarissime le qualità del senso visivo e dell'arte del maestro: pur nella tecnica musiva, tutto è dipinto a tinte piene e succose; i contorni son quasi soppressi: il colore soltanto, impregnandosi di luce, offuscandosi d'ombra, esprime la forma in modo dolce e vibrante.
Poco dopo, forse circa il 1293, negli affreschi di S. Cecilia in Trastevere ricordati dal Ghiberti (ne resta un largo frammento del Giudizio universale e, di collaboratori, avanzi di alcune storie dei due Testamenti), il C. si mostra accresciuto nei suoi caratteri più proprî, e più lontano dalle origini: dà alla composizione grandezza nuova, alle figure altra profondità di vita, e soprattutto libera maggiormente da ogni formula tradizionale il suo senso di colorista. Il modellato vi è alquanto più fermo, pur sempre a dolci trapassi nei volti, a larghe superficie nei panni grevi; l'impasto profondo dei pigmenti si trascolora dalla luminosità intensa all'ombra: e ne risultano compatte ma morbide le forme, come nel volto del Cristo (v. affresco, tavola a colori), in cui le formule bizantine del colorire a ombre verdastre e tinte rosate si tragfigurano.
Queste opere vide Giotto, alquanto più giovane del C., e poté attingerne quella ricerca della fusione del colore in cui poi insistette, non già il suo senso della forma, altrimenti robusta, anzi da principio violenta, che in tutto lo distingue dal maestro romano. Furono quelle qualità coloristiche, in quel grado, così particolari al C. da doversi prendere per principali discriminanti nel distinguere le altre sue opere dando minore importanza alle affinità generiche, e alle somiglianze iconografiche, che hanno portato a molte incerte o errate attribuzioni. Per esse, sebbene non sempre del tutto equivalenti, si possono attribuire al C., a Roma, l'affresco della tomba di Matteo d'Acquasparta (m. 1302) in Aracoeli, dove egli aveva lasciato, secondo il Vasari, la sua migliore opera nell'abside poi distrutta, e il devastato affresco dell'abside di San Giorgio in Velabro; a Napoli, alcuni tratti meno alterati ncll'Albero di Iesse in un affresco del duomo e piccola parte - alcune delle grandi figure di apostoli e di profeti, e qualche tratto del Giudizio universale, sebbene non uguaglino le opere romane - degli affreschi di S. Maria Donna Regina, quasi per tutto il resto opera di mediocri seguaci. Nulla si può riconoscere del C. negli affreschi della chiesa superiore di S. Francesco ad Assisi, dove più si è voluto rintracciarne l'attività, riuscendo ad attribuzioni disparatissime: i più affini alla maniera del C., tra cui primeggiano quelli delle Benedizioni di Isacco, ne differiscono per vigore plastico, raggiunto anche mediante il contorno, e per profondità di spazio, così da potersi meglio inserire nelle prime opere di Giotto (v.). Il crocifisso intagliato in legno, nella basilica ostiense, che già al tempo del Vasari qualcuno attribuiva al C., è troppo gotico per lui; e non c'è prova che il maestro lavorasse di scultura.
Il C. ebbe numerosi seguaci, tra cui è da porre anche Filippo Rusuti: uno dei più primitivi egeguì gli affreschi di S. Maria in Vescovio presso Stimigliano, che non si possono credere della giovinezza del maestro perché mescolano a caratteri più arcaici il riflesso delle sue qualità più sviluppate; ad altri diversi sono da attribuire il musaico di S. Crisogono a Roma, una Madonna (1325) del duomo di Anagni, affreschi in S. Lorenzo Maggiore a Napoli, la decorazione della sala dei Notai a Perugia, e altre opere minori.
V. tavv. CLXIX e CLXX e tav. a colori.
Bibl.: A. Venturi, Storia dell'arte italiana, V, Milano 1907, p. 131 segg.; F. Hermanin, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, VI, Lipsia 1912 (con la bibl. precedente); J. Wilpert, Die römischen Mosaiken und Malereien der kirchlichen Bauten vom IV bis XIII Jahrh., 2ª ed., Friburgo 1917, passim; S. Lothrop, in Memoirs of the American Academy of Rome, II (1918), p. 77 segg.; R. van Marle, The Devlelopment of the Italian Schools of Painting, I, L'Aia 1923, p. 505 segg.; A. Busuioceanu, P. C. e la pittura romana del duecento e del trecento, in Ephemeris Dacoromana, Roma 1925, pp. 259-406; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I, Torino 1927, pp. 981-988; R. van Marle, Gli affreschi del Duecento in S. Maria in Vescovio, in Boll. d'arte, n. s., VII (1926-27), pp. 1-30.