CANDIANO, Pietro
Doge di Venezia, terzo di questo nome, figlio dell'omonimo doge, iniziò la sua partecipazione alla vita politica veneziana allorché venne inviato dal padre, com'era allora consuetudine, in missione a Bisanzio per prendere contatti con gli ambienti della corte di quell'Impero d'Oriente nella cui sfera di sovranità era inserito il ducato lagunare. Ne ritornò "cum maximis donis", ma è dubbio se anche investito del titolo aulico di protospatharius, come dice il cronista veneziano Giovanni diacono, titolo che non risulta nei documenti che al C. si riferiscono (in particolare la carta promissionis del patriarca di Aquileia Lupo del 13 marzo 944). Non è attestato che sia stato associato al governo dal padre, cosa sostenuta da alcuni studiosi.
Divenuto doge intorno al 942, succedendo a Pietro Partecipazio figlio del predecessore del padre (l'alternarsi di queste due famiglie è significativo d'un sostanziale equilibrio di forze, più che di diversi orientamenti politici), dovette soprattutto provvedere alla sicurezza dei traffici veneziani nelle zone adriatiche, ma non rinunciò a perseguire l'affermazione interna della famiglia e ad essere attento alle vicende italiche più di quanto la precedente tradizione veneziana comportasse. Con il C. inoltre sembra mutare qualcosa nei rapporti veneto-bizantini: si interrompono infatti le tradizionali missioni che il doge inviava a Bisanzio probabilmente in relazione alla sua elezione, uso che venne ripreso solo negli ultimi decenni del X sec. con il doge Tribuno Memmo (979-992). Sia da mettere o no tale omissione in relazione con il maggior interesse dimostrato dai dogi in questo periodo verso l'Occidente italico, e da interpretare o meno come cosciente volontà di distacco dall'Impero d'Oriente (fino a Pietro Orseolo (II), 998-1007, i dogi saranno privi dei titoli aulici bizantini), è certo che essa doveva rendere meno facili, se non precari, i rapporti del ducato con Bisanzio.
La prima azione decisa del C. fu diretta alla tutela dei confini settentrionali del ducato, ove erano minacciati gli sbocchi terrestri dell'attività commerciale di Venezia nell'alto Adriatico. Se durante il dogato paterno questa era stata turbata nella zona istriana dalle prevaricazioni del marchese del Friuli Wintero, nei primi anni del dogato del C. fa minacciata nella zona aquileiese-gradense dal patriarca di Aquileia Lupo. Qui, alle mai completamente sopite ragioni di tensione di carattere ecclesiastico si aggiungevano (e nella fattispecie predominavano) motivi di contrasto economico-commerciale. La base marittima di Grado, veneziana, controllava infatti l'imbocco della via fluviale verso terra, quello del Natissa, che era invece patrimonio della Chiesa aquileiese. Situazione, questa, che facilmente poteva portare a conflitti o a violazioni di accordi già intercorsi tra le parti (vedi l'accordo stipulato tra il patriarca Walperto ed il doge Orso il 13 genn. 880). Oggetto di contestazione potevano anche diventare gli usi civici che gli abitanti delle lagune di Grado praticavano per consuetudine nella selva friulana, e che erano garantiti loro dal pactum che regolava, dall'età carolino-lotariana, i rapporti tra il Regnum e Venezia (Mor, L'età, I, p. 222; Cessi, Politica, p. 206).
All'interno di questa situazione, oggettivamente delicata, vanno viste le "quaedam causae intervenientes" tra il patriarca di Aquileia Lupo ed i Venetici, che spinsero alcuni fedeli del primo ad entrare in armi a Grado ed a provocare quindi la "magna discordia" tra il patriarca stesso ed il doge, nei primi anni del governo del Candiano. Solo l'intervento del patriarca gradense Marino, già mediatore della crisi istriana sotto il dogato del secondo dei Candiano, poté convincere il doge a ristabilire l'antica "pacem et... amicitiam", dopo che vane erano state le ambascerie inviate allo stesso scopo direttamente da Lupo: con la promissionis carta del 13 marzo 944, il patriarca aquileiese, insieme con il suo clero ed il suo popolo, prendeva l'esplicito impegno di rispettare i termini stabiliti dal pactum che regolava i rapporti tra Regnum e ducato, ed in particolare a non compiere più aggressioni a Grado e negli altri territori del ducato, e a denunciare atti di aggressione da altri progettati.
Conchiusa con un grosso successo l'operazione aquileiese, e garantito quindi lo sbocco sicuro ai commerci lagunari nell'area bavarese danubiana, l'attenzione del C. si rivolse agli Slavi della Narenta, i quali dovevano avere assunto pericolose iniziative dopo il crollo della potenza croata (Cessi, Politica, pp. 206 s.), e che, evidentemente era necessario riportare ai rapporti che fino a quel momento avevano avuto con Venezia. Le azioni navali condotte contro di loro intorno al 948, con grande spiegamento di forze (ben trentatré furono le navi allestite in tale occasione secondo la cronaca veneziana), furono in realtà non tanto un'operazione militare vera e propria, quanto, piuttosto, un'azione di intimidazione per ottenere la conferma degli accordi che garantivano a Venezia la sicurezza della navigazione nella zona del medio Adriatico (Cessi, Politica, p. 207). Fine, questo, che il ducato effettivamente raggiunse con la seconda delle spedizioni effettuate, che "federe firmato" tornò in patria (vedi anche Sestan, La conquista, p. 93). È assai dubbio che il C. abbia richiesto a Berengario II e da questo ottenuto, intorno al 951, la rinnovazione del pactum regolante i rapporti del ducato col Regnum, del quale comunque non ci è giunto il testo (vedi le diverse opinioni del Cessi, Pacta, p. 268, e del Mor, L'età, I, p. 223 n. 7).
Nell'ambito invece della politica interna è di particolare rilievo la decisione presa dal C. di associarsi al governo del dogato il suo omonimo figlio e successore; si rinnovava così una tradizione che era stata abbandonata negli ultimi decenni del IX secolo, mentre si tentava l'affermazione familiare. L'atto non provocò tuttavia traumi o scosse: la sensibilità e l'intelligenza politica del doge si fece "suggerire" dal "populus" tale decisione (Cronaca... diacono Giovanni, p. 137, e Cessi, Venezia ducale, I, p. 320 n. 1, anche per la polemica nei confronti di quegli studiosi, come il Lenel, il Kretschinayr ed il Maranini, che vedono l'instaurarsi in Venezia con i Candiano del principio dinastico-ereditario, o addirittura monarchico). Non sappiamo quando il C. procedette a tale associazione; certo prima del marzo 958, data in cui "una cum" Pietro "itemque duce filo (sic) meo", procedette da Rialto alla concessione di alcune saline del Palatium.
Nell'ambito di tale politica vanno ancora visti la nomina a vescovo di Torcello del figlio Domenico, ed i legami per quanto provati da tenui indizi, che certo ebbe con persone e cose dell'entroterra italico. Dalla Anna comitissa vedova del conte Guido, figlio di Bertaldo conte di Reggio Emilia (Hlawitschka, pp. 151-54), acquistò nel marzo 944 beni in Conche e Fogolana, posti in territorio padovano, ai confini con quello veneziano di Chioggia, centri di interesse politico e ancor più commerciale, per la loro posizione vicina alle vie fluviali brentane e atesine. Il nome stesso della moglie del C., Richilde, per quanto non si sappia nulla di più preciso sulla sua identità, non fa pensare ad una origine lagunare, ma piuttosto regnicola.
Gli ultimi tempi del dogato del C. furono turbati dalla ribellione del figlio e coreggente Pietro, che, "paterna monita floccipendens" tentò di rovesciarlo con la violenza. La solidarietà della "maior pars populi" con il vecchio doge portò al fallimento di questo tentativo, mentre la "misericordia" del C., se evitò la condanna a morte al figlio, che da parte sua il populus aveva già pronunciato, non poté evitargli la condanna all'esilio (da porsi intorno alla primavera-estate 959: Mor, L'età, I, pp. 181 s.). I maggiorenti ecclesiastici e laici, "cum omni populo", s'impegnarono quindi a impedire al quarto dei Candiano un ritorno al dogato, sia vivesse ancora il padre, sia dopo la morte di questo.
Non si hanno elementi precisi per identificare le ragioni di questi tragici fatti, che riportavano il clima politico veneziano ad un livello che da molto tempo più non conosceva. È certo ad ogni modo, che non solo ambizioni personali o rivalità di carattere familiare dovettero essere alla base della ribellione del quarto dei Candiano, ma anche profonde diversità di valutazioni e di orientamenti politici, con ogni probabilità legati all'evolversi della situazione del Regnum Italiae. Non si può non pensare che i "monita" rivolti dal C. al figlio riguardassero una raccomandazione a non farsi compromettere troppo in una direzione da cui forse erano giunte sollecitazioni e richieste di appoggio, al di là ed al di sopra di una contrapposizione tra interessi di carattere fondiario e di espansione in terraferma, attribuiti al quarto dei Candiano, e di interessi marittimi e mercantili di cui il padre, ed evidentemente la "maior pars populi", sarebbero stati i rappresentanti (per la eccessiva rigidità di tale contrapposizione vedi Cessi, Politica, pp. 210 s.). L'attività dell'esule ribelle durante i brevi mesi di esilio, e la collaborazione che egli diede alle operazioni militari del re italico Berengario II, disperatamente intento in questi anni cruciali alla difesa del suo potere nel Regnum, contro la pesante tutela del suo signore Ottone I, e la sua successiva attività politica, decisamente coinvolta nelle vicende italiche, rendono ben plausibile questa ipotesi.
È evidente che il C. preferiva una posizione di prudente attesa, e di rifiuto quindi di qualsiasi offerta, conscio dell'incertezza della situazione e timoroso di eventuali reazioni da parte delle grandi potenze con cui Venezia aveva a che fare: Bisanzio, allora in piena riscossa nell'Italia meridionale, ed in rapporti assai fluidi sia con Ottone I che con Berengario II; ed Ottone I, che con l'invio vittorioso del figlio Liutolfo negli anni 956-57, in Italia, aveva dimostrato da una parte la sua decisione di fronteggiare le ambizioni di Berengario, dall'altra la debolezza di quest'ultimo.
Al bando di esilio decretato contro il figlio, il C. sopravvisse solo due mesi e mezzo; morì quindi intorno all'estate-autunno 959, dopo diciassette anni di governo. Di lui conosciamo oltre a Pietro, altri tre figli: Domenico, il già citato vescovo di Torcello, Stefano, Vitale detto Ugo. Se si deve accogliere la testimonianza del Dandolo, ebbe anche un quinto figlio, quel Vitale, che fu a sua volta doge, dopo Pietro Orseolo (I), dal 1º sett. 978 all'ottobre 979 (ma vedi a proposito di questa parentela Cessi, Venezia ducale, I, p. 338 e n. 5).
Fonti e Bibl.: Andreae Danduli ducis Venetiarum Chronica per extensum descripta, a. 46-1280 d.C., in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XII, 1, a cura di E. Pastorello, p. 184; A. Gloria, Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l'undicesimo, II2, Venezia 1877, n. 1538 pp. 508-509; La cronaca veneziana del diacono Giovanni, a cura di G. Monticolo, in Cronache veneziane antichissime, Roma 1890, in Fonti per la storia d'Italia, IX, p. 137; I diplomi di Ugo e Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L. Schiaparelli, I, Roma 1924, ibid., XXXVIII, p. 378; Docum. relativi alla storia di Venezia anteriari al Mille, a cura di R. Cessi, II, Padova 1941, n. 37 pp. 59 s., n. 38 pp. 61 s., n. 40 pp. 671 s.; S. Giovanni Evangelista di Torcello, a cura L. Lanfranchi, Venezia 1958, p. 159; S. Giorgio Maggiore, II, Documenti 982-1159, a cura di L. Lanfranchi, Venezia 1968, n. 6 pp. 35-37, n. 7 pp. 37-39. n. II pp. 45-48; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, ad Indicem;W.Lenel, Venetianisch-istrische Studien, Strassburg 1911, p. 20; A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle crociate, Torino 1915, p. 21;G. Maranini, La costituzione di Venezia dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, Venezia 1927, pp. 63 s.; R. Cessi, Pacta Veneta, II, Dal "Pactum Lotharii" al "Foedus Octonis", in Le origini del ducato veneziano, Napoli 1951, pp. 268, 305;C. G. Mor, L'età feudale, I, 2, Milano 1952, ad Indicem;P.Paschini, Storia del Friuli, I, Udine 1953, p. 192;R. Cessi, Politica, economia e religione, in Storia di Venezia, II, Venezia 1958, ad Indicem;E. Hlawitschka, Franken, Alemannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien, Freiburg im Br. 1960, pp. 151-54;R. Cessi, Venezia ducale, I, Duca e popolo, Venezia 1963, pp. 317-24;R. Hiestand, Byzanz und das Regnum Italicum im 10. Jahrhundert, Kiel 1964, pp. 210 s.;C. G. Mor, Aspetti della vita costituzionale veneziana fino alla fine del X secolo, in Le origini di Venezia, Firenze 1964, p. 129;E. Sestan, La conquista veneziana della Dalmazia, in La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 93, 95 ss.; A. Pertusi, Quaedem regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, in Studi veneziani, XII (1966), pp. 66, 104-07.