BORGHESE, Pietro (Pierantonio)
Soprannominato il Crogio, nacque a Siena, da Onofrio, nel 1469. Appartenente a una delle principali famiglie della città, ascritta alla fazione magnatizia detta del monte dei Nove, il B. acquistò presto un ruolo di primo piano nelle vicende politiche senesi, nelle quali si distinse per il temperamento intollerante e sopraffattore tipicamente fazioso.
Già il primo episodio che lo vede protagonista è in questo senso largamente significativo: nel luglio del 1495, quando le contese tra i partiti senesi si erano per qualche tempo acquietate per l'intervento moderatore di Carlo VIII, fermatosi a Siena durante la sua avventura nel Regno di Napoli, e soprattutto per la presenza della guarnigione lasciata a Siena dallo stesso re di Francia, che tutelava a un tempo la pace cittadina e la supremazia di fatto della fazione novesca, fu il B. a rompere la tregua con un gesto gratuitamente provocatorio (l'irresponsabile e volutamente clamorosa celebrazione della tradizionale festività novesca del 21 luglio), sicché, mentre egli stesso, per sfuggire alle rappresaglie dei Francesi, era costretto ad abbandonare la città, riprendeva apertamente, ormai incontrollabile dalla guarnigione francese, la lotta dei fazionari del Popolo, dei Gentiluomini e dei Riformatori contro il partito novesco.
Rifugiatosi a Montepulciano presso Lucio Bellanti, comandante della guarnigione recentemente stabilita in quella città dai Senesi dopo la sua ribellione a Firenze, il B. lo indusse a marciare con i suoi trecento "provvisionati" su Siena, dove i due esponenti, noveschi entrarono effettivamente il 28 luglio, ristabilendo subito la situazione a favore del loro partito.
Nel clima di violenza e di disordini stabilitosi in Siena con la presenza dei trecento "provvisionati" il B. fu protagonista di un singolare episodio che è difficile interpretare nel suo significato politico: nell'agosto del 1495, infatti, egli e un Alessandro di Scipione Rimbotti irruppero in Balia con una scorta armata ("con altri loro bravussi e cagnetti", scrive l'Allegretti, col. 853), pretendendo di indurre con la forza il priore Antonio Turchi a promuovere una riforma del Consiglio del popolo che ne riducesse drasticamente i membri da 250 a 150. L'episodio, che non ebbe seguito per l'energica resistenza del priore e della Balia, va probabilmente inteso come una manifestazione incontrollata e del tutto individuale di esclusivismo fazioso.
Il 15 apr. 1496 il B. tornava nuovamente alla ribalta della vita politica cittadina con la clamorosa denunzia di una vasta congiura organizzata da Lucio Bellanti contro Pandolfo Petrucci, Niccolò Borghese e altri tra i maggiori esponenti noveschi. Il Bellanti, del resto anche lui appartenente alla fazione dei Nove, era spinto da motivi puramente personali, risentito com'era contro il governo senese che lo aveva di fatto esautorato dal comando dei "provvisionati", affidando la responsabilità politica di queste milizie al Petrucci; comunque la denunzia del B., che il Bellanti aveva cercato di guadagnare alla congiura, salvava il reggimento novesco - il quale provvedeva alla immediata repressione del complotto, obbligando alla fuga dalla città lo stesso Bellanti - da una situazione resa tanto più drammatica dagli accordi segreti intercorsi tra i congiurati e la Repubblica fiorentina, che spiava ansiosamente l'occasione di intervenire nella vita politica interna dello Stato vicino e rivale e che aveva spinto le sue milizie, al comando di Pier Capponi, sino a Staggia, in pieno territorio senese.
Per qualche anno non si hanno notizie del B., se non quella che nell'anno 1500 era tra i partigiani e clienti di Pandolfo Petrucci e ne assecondava il suo programma politico. Non è facile capire come il B., che era un tipico rappresentante del costume fazioso, potesse condividere l'intenzione del Petrucci di porre termine, con la signoria, agli antagonismi faziosi; più probabilmente egli si adeguò, come tanti esponenti della vecchia oligarchia novesca, alla supremazia ormai acquisita dal Petrucci, per i vantaggi pratici che tale remissività politica poteva offrire e per l'evidente temerarietà di ogni tentativo diretto a scalzare Pandolfo dal potere.
È comunque significativo il ruolo di primo piano giocato dal B. dopo la morte di Pandolfo, nel 1512, nell'opposizione a Borghese Petrucci, figlio del vecchio signore, nel quale il tentativo del padre - secondo la logica familiare del potere politico negli Stati cittadini italiani del XV e del XVI sec. - avrebbe forse potuto trovare un continuatore. Riprendendo invece l'antica prassi faziosa che risolveva i problemi dell'equilibrio politico cittadino facendo appello agli interventi esterni, il B. fu infatti tra i principali promotori della tutela pontificia sulla Repubblica, che ebbe immediatamente il risultato di sostituire alla signoria di Borghese quella del vescovo di Grosseto Raffaello Petrucci, suo cugino, e più mediatamente provocò l'allineamento della politica estera senese a quella dei pontificati medicei, il che espose rovinosamente la Repubblica, negli anni seguenti, a tutti i contraccolpi delle vicende internazionali. Inviato a Roma dal governo senese nel 1515 in qualità di oratore, insieme con il cardinale Giovanni Todeschini Piccolomini "e altri principalissimi senesi... a fare in pubblico nome certa capitolazione o confederazione con Leone X" (Ugurgieri Azzolini, I, p. 322), il B. rimase presso la S. Sede, divenendo subito uno dei principali strumenti del programma senese del pontefice, la cui intenzione di affidare il governo della Repubblica toscana al suo cliente Raffaello Petrucci era in realtà una ripresa insieme della vecchia politica fiorentina di intervento nelle cose senesi e delle tradizionali velleità pontificie di supremazia in Toscana.
Era ovviamente un riconoscimento della collaborazione che il B. offriva ai disegni senesi del pontificato la concessione fattagli da Leone X, in quello stesso anno 1515, della dignità di senatore di Roma (non sembrano infatti esatte le notizie di qualche autore secondo cui il B. avrebbe goduto di tale dignità sin dal 1510, o addirittura dal 1506). In tale qualità il B., il 4 nov. 1515, confermò lo statuto dell'Arte dei Vaccinari.
Durante la preparazione del colpo di stato che avrebbe costretto Borghese Petrucci ad abbandonare il potere al vescovo di Grosseto, rinunziando a qualunque resistenza, il B. dovette intervenire soprattutto nei maneggi e nelle segrete intese che indussero finalmente la fazione novesca, sino allora sostenitrice di Borghese, a rivolgersi contro di lui. Certo è significativo che quando, nel 1516, Raffaello Petrucci fece il suo ingresso in Siena, il B. fosse al suo fianco, avendo ottenuto da Leone X una speciale licenza dalle sue incombenze di magistrato romano proprio per contribuire alla prima instaurazione del nuovo signore.
In seguito il B. dovette vivere prevalentemente a Roma, dove pare che la carica gli fosse rinnovata negli anni seguenti e confermata ancora nel 1524. Durante questo suo soggiorno sposò la romana Giulia Tomarozzi. Secondo lo storico secentesco Ugurgieri Azzolini sarebbe stato lo stesso Raffaello Petrucci a chiedere a Leone X di trattenere il B. a Roma, "temendone la troppa potenza e dubitando che non gli rivoltasse quello stato con total sua rovina e con evidente danno della Casa dei Medici" (I, 322): una ipotesi che, sebbene piuttosto vaga e non confermata dai documenti, e seppure in chiaro contrasto con il ruolo effettivamente esercitato dal B. nell'instaurazione della signoria del vescovo di Grosseto, risulta peraltro abbastanza credibile, dato il temperamento inquieto del Borghese.
Salito al potere in Siena, dopo la morte di Raffaello, Francesco Petrucci, il B. capeggiò a Roma, insieme con Giovanni Martinozzi, l'opposizione contro il nuovo governo ed ebbe una parte di primo piano nel persuadere Clemente VII, appena asceso al soglio pontificio, a riprendere contro di esso la politica di intervento su Siena che era stata già di Leone X. Infatti, convocato subdolamente a Roma dal papa, Francesco Petrucci fu da lui esautorato e Sostituito, il 29 dic. 1523, con l'ultimo figlio di Pandolfo Petrucci, Fabio, col quale sembrava aprirsi un nuovo periodo di egemonia novesca. Da allora il B. rimase stabilmente in Siena, dove continuò a distinguersi nei nuovi, violenti rigurgiti faziosi degli anni successivi.
Incapace di concepire se non nella maniera più diretta e brutale la preponderanza politica della sua fazione, quando il 18 sett. 1524 una rivolta popolare costrinse l'inetto Fabio Petrucci ad abbandonare Siena, il B. non fu capace di capire il tentativo di Alessandro Bichi, che gli succedeva nel potere, di stabilire un più velato, ma non meno efficiente dominio, novesco, attraverso un governo formalmente estraneo e anzi ostile alle fazioni. Perciò il B. non nascose la sua ostilità al governo del Bichi, al punto che, quando il 6 apr. 1525 il Bichi fu ucciso da una congiura organizzata da esponenti del monte del Popolo, gli stessi uccisori presero le difese del B. contro la plebe infuriante ai danni delle famiglie novesche. E, ancora, tre giorni dopo, il nuovo governo chiamava il B. a far parte del magistrato dei Conservatori della libertà.
Ma anche nella nuova situazione il B. doveva dare saggio della sua irrequietezza: nell'agosto successivo, infatti, metteva a rumore la città raccogliendo gente per risolvere con i soliti sanguinosi sistemi una contesa puramente privata, costringendo così il magistrato di Balia a prendere provvedimenti militari che, scongiurando un nuovo scontro armato nelle vie della città, evitasse che quei privati rancori dessero occasione a un nuovo rivolgimento politico.
E finalmente, il 24 luglio 1527, un nuovo eccidio organizzato contro i Noveschi dagli esponenti del Popolo, capeggiati da Mario Bandini, aveva nel B. la sua vittima più illustre, "tagliato a pezzi" dalla plebe, come riferisce il Sanuto (col. 590), insieme con Giovan Francesco, suo figlio, e con altri congiunti.
Il Sanuto, abituato a pensare sempre in termini di interesse e di necessità politica, tentò di spiegarsi il sanguinoso episodio argomentando che i Noveschi "volevano fare trattato a la città et metere li ussiti dentro" e che "volevano che la città desse denari et artiglierie a imperiali, et che lo exercito loro passasse per il senese per mandarlo a danni di Fiorentini" (coll. 545, 590 s.). In realtà il diarista veneto attribuisce un significato politico abbastanza improbabile a un episodio che fu in sostanza soltanto l'ennesima manifestazione di una secolare faida faziosa.
Fonti e Bibl.: A. Allegretti, Diari delle cose sanesi del suo tempo, in L. A. Muratori, Rerum Italic. Script., XXIII, Mediolani 1733, coll. 851, 853, 856; Diario romano dal 3 maggio 1485 al 6 giugno 1524 di Sebastiano di Branca Tedallini, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XXIII, 3, a cura di P. Piccolomini, p. 362; M. Sanuto, Diarii, XLV, Venezia 1896, coll. 545, 590 s.; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1929, p. 158; I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi, Pistoia 1649, I, p. 322; G. A. Pecci, Mem. storico-critiche della città di Siena, Siena 1755, I, pp. 115-118, 132, 164; II, pp. 56, 171, 187, 259; F. A. Vitale, Storia diplom. de' Senatori di Roma..., Roma 1791, II, pp. 492 s., 497 s.; P. Visconti, Città e famiglie nobili e celebri dello Stato Pontificio, III, s. l. né d., p. 916 (distingue un Pier Antonio di Onofrio, al quale attribuisce le vicende romane del B., da un Pietro di Nicolò, cui riferisce erroneamente quelle senesi); N. Borghese, Vita di S. Caterina da Siena...,aggiuntovi l'elenco degli uomini illustri dell'eccellentissima casa Borghese, a cura di R. Luttazi, Roma s.d. (ma 1869), pp. 121, 154; U. G. Mondolfo, Pandolfo Petrucci signore di Siena, Siena 1899, p. 32; L. von Pastor, Storia dei papi, XII, Roma 1930, p. 32.