BOLDÙ, Pietro
Nato verso il 1470 dal patrizio veneziano Leonardo di Pietro Boldù del ramo di San Samuele, era di mediocre fortuna. La terre possedute a Castelbaldo, nel territorio padovano, soggette in quegli anni alle frequenti inondazioni e ai danni della guerra, non dovevano consentire troppa larghezza alla sua numerosa famiglia: sposatosi nel 1487 con Trevisana Trevisan di Alvise, aveva infatti avuto da lei dodici figli.
La sua prima carica pubblica di cui abbiamo notizia è quella di conte ad Arbe, in Dalmazia, che ricoprì dal febbraio 1499 al maggio 1500. Fu poi, prima del 1507, uno degli Auditori vecchi. Nel giugno 1509, dopo la sconfitta di Agnadello, fece parte di una commissione incaricata di provvedere alle fortificazioni e alla difesa di Chioggia. Nel settembre del 1510 lo troviamo al fianco del figlio Leonardo, provveditore a Castelbaldo, tra i combattenti che respinsero un attacco delle truppe francesi. Nel luglio e agosto del 1513 accorse alla difesa di Padova, minacciata dall'esercito imperiale, anche allo scopo di beneficiare del decreto del Senato che assicurava in tale circostanza ai debitori dello Stato (era appunto il suo caso) l'eleggibilità alle cariche pubbliche, altrimenti precluse. Dal 1514 al 1516 fu officiale alle Rason vecchie, e nel 1518-19 provveditore sopra Camere: in tale veste fece annullare una vendita di alcuni campi e valli nel Veronese effettuata in precedenza dallo stesso ufficio, rivendendoli ad un prezzo doppio. Nel 1519 e negli anni seguenti lo troviamo a più riprese attivamente impegnato in incarichi concernenti la regolazione delle acque nella terraferma (sopra gli argini dell'Adige, provveditore sopra la Fossa Lovara).
Nel 1520 il B. venne eletto per la prima volta al Senato, ove poi siederà quasi senza interruzioni per il resto della sua vita. Val la pena di ricordare, di quell'anno, il suo sfortunato intervento a favore di Marino Becichemo, che leggeva retorica a Padova, contro Battista Egnazio, ambedue aspiranti alla cattedra di umanità, sostenendo la tesi che "si pol ben esser docti in umanità e non saver grecho". Decisamente le dispute culturali e accademiche non erano fatte per lui, uomo pratico, tutto preso dalla politica, ed ormai entrato nel gruppo dirigente del patriziato. Lo troviamo il 6 luglio del 1521 tra i Quarantuno elettori del doge Antonio Grimani, e il 19 maggio del 1523 tra i Quarantuno che elessero il doge Andrea Gritti, di cui egli era sostenitore. Il 1º aprile di quello stesso anno aveva fatto il suo ingresso nel Collegio come savio di Terraferma.
Nel 1525 fu uno dei Venti Savi deputati alla revisione dell'estimo, e il 23 aprile del medesimo anno fu eletto podestà e capitano di Crema, proprio all'inizio di quel critico periodo seguito alla battaglia di Pavia, in cui gli Stati italiani attuarono l'estremo tentativo di opporsi al predominio spagnolo.
Da questa che era la piazzaforte più avanzata della terraferma veneziana, dovette assolvere soprattutto a due importanti e delicati compiti: sorvegliare le mosse dell'esercito imperiale, attraverso un'intensa attività di esploratori, che da Crema si irradiavano in tutta la Lombardia e fino al Piemonte a spiare il campo avversario; e organizzare la difesa della città fornendo in pari tempo ogni possibile appoggio all'armata veneto-pontificia, che dopo la stipulazione della lega di Cognac era entrata in campagna contro le truppe imperiali nel Milanese, occupando la vicina Lodi. Furono per il B. sedici mesi di febbrile attività, di cui è ampia testimonianza nelle numerosissime lettere che quasi quotidianamente, dall'agosto 1525 al novembre 1526, egli inviò a Venezia, e che il Sanuto ha in gran parte trascritte o riassunte nei suoi Diarii: dispacci ricchi di notizie militari, ma non privi d'interesse politico, per i contatti che il B. ebbe personalmente con protagonisti di primo piano di quegli avvenimenti.
Da Crema il B. ritornò nel novembre 1526, e fu poco dopo eletto savio di Terraferma per il primo semestre del 1527. Con l'autorità conferitagli da tale carica (riconfermatagli poi anche nel 1528) intervenne ripetutamente in Senato, sostenendo, contro quanti propendevano verso un accordo con Carlo V, il partito della fedeltà all'alleanza con la Francia e della prosecuzione della guerra per la "libertà d'Italia", non esitando anche a proporre quei severi e impopolari provvedimenti finanziari che erano resi necessari dalle spese militari.
A definire il suo carattere austero e intransigente contribuisce forse più di ogni altro episodio il modo severo e imparziale - alieno dalle consuete compiacenze e omertà di classe, che tanto spesso viziavano l'opera dei magistrati e dei consigli veneziani - con cui il B. resse l'ufficio di avogadore di Comun, dall'aprile 1528 all'agosto 1529. Il caso più clamoroso di cui fu protagonista fu senza dubbio la denuncia e l'arresto per malversazione del proprio collega Michele Trevisan, che egli fece condannare dalle Quarantie riunite, pronunciando un'arringa precisa nell'esposizione dei fatti, ma priva di quegli eccessi retorici che allora andavano di moda nello stile oratorio. È pure significativo che il B. proponesse la pena di morte e la confisca dei beni, benché poi la maggioranza si accontentasse di condannare il Trevisan alla relegazione perpetua a Cherso.
Tanta severità non trovava ormai molta fortuna presso la maggior parte del patriziato: ed è forse indizio d'una certa impopolarità e conseguenza dell'inimicizia di alcune famiglie nobili direttamente colpite il fatto che per due anni il B. non riuscì poi ad ottenere alcuna nuova carica pubblica, uscendo sconfitto da tutti gli scrutini in cui aveva avanzato la propria candidatura. Alle magistrature cittadine ritornò soltanto con l'elezione a governatore delle Entrate, avvenuta nel maggio del 1531.
Nel novembre del 1532 entrò nel Consiglio dei Dieci, e ne fu membro per un anno, riuscendo spesso eletto tra i capi dello stesso. Venne poi nominato censore, e nel 1534 duca di Candia, uno dei reggimenti più ambiti per utilità economica e per prestigio politico.
Ritornato a Venezia nel 1537, dopo che erano scaduti i tre anni del mandato, dettò il proprio testamento, in cui, tolti alcuni legati, lasciava erede il figlio Leonardo, e dopo pochi mesi, il 13 apr. 1538, si spense a Venezia. Fu sepolto nella chiesa di S. Stefano, nell'arca della famiglia.
Fonti e Bibl.: La principale fonte è costituita da M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, II, III, VII-LVIII, ad Indices, e in particolare XXXIX-XLIII in cui sono riportati i dispacci dei B. da Crema; cfr. anche Venezia, Biblioteca Civica Correr, cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, c. 105v; Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritiiveneti, II, p. 55. Nello stesso Archivio: Capi del Consiglio deiDieci, Lettere di rettori, busta 66, nn. 108, 109, 112, 113; busta 285: nn. 41-45; Sez. notarile,Testamenti Chiodo, busta 203, c. 171r.