BADOGLIO, Pietro
Nacque a Grazzano Monferrato (prov. di Asti; oggi Grazzano Badoglio) il 28 sett. 1871 da Mario e Antonietta Pittarelli, modesti proprietari di campagna. Entrato all'Accademia di artiglieria e genio di Torino, il 16 nov. 1890 fu nominato sottotenente di artiglieria. Frequentò, la Scuola di applicazione, e il 7 ag. 1892 fu promosso tenente e assegnato al 19° reggimento di artiglieria da campagna, ove restò per quasi quattro anni, prima a Livorno e successivamente a Firenze.
Nel dicembre 1895, alla notizia dell'eroico sacrificio del battaglione Toselli sull'Amba Alagi, il B. chiese di andare volontario in Africa.
Assegnato alla 6ª batteria da montagna, s'imbarcò a Napoli. A Porto Said apprese la notizia della grave rotta di Adua; ormai al gen. Baldisserra non sarebbe spettato che di coprire l'Eritrea e liberare il presidio del forte di Adigrat, che eroicamente ancora vi si sosteneva. Il 4 maggio 1896, infatti, il forte era raggiunto dal corpo di spedizione, che poi ripiegava sulla colonia e in gran parte rimpatriava. Rimasero in Africa due battaglioni e due batterie, una delle quali era la 6ª; il B. restò in Eritrea per oltre due anni nel presidio di Adi Caieh, a 2500 metri di altitudine in una zona arida e desolata, dirigendo le esercitazioni delle truppe e i lavori di fortificazione.
Tornato in Italia, nel settembre 1899 entrò nella Scuola di guerra, dove conseguì brillantemente il diploma il 23 ag. 1902. Il 13 luglio 1903 fu promosso capitano e assegnato al 12° reggimento di artiglieria da fortezza, a Capua. Frequentò però a Roma il corso di addestramento per lo Stato Maggiore, ottenendovi, il 16 nov. 1905, il diploma di idoneità. Dopo un anno di permanenza al corpo a Bari, tornò stabilmente a Roma, al ministero della Guerra, nella divisione dello Stato Maggiore, ove si rivelò ufficiale intelligente e attivo, benché alquanto duro e riservato. Collaborava intanto con articoli di organica militare alla rivista La Preparazione, diretta dal colonnello E. Barone.
Nell'ottobre 1911 il B. ricevette l'ordine di partire per la Libia, e s'imbarcò con le truppe dell'intendenza. Ai primi di novembre, dopo la rivolta araba e l'episodio di Sciara Sciàd, nuove poderose forze furono mandate a Tripoli e, ad affiancare l'opera del gen. C. Caneva, che aveva oltre al comando del corpo di spedizione anche le mansioni di governatore, giunse dall'Italia il gen. P. Frugoni, il quale chiamò il B. a far parte del suo Stato Maggiore. Essendo rientrato in Italia il capo di Stato Maggiore del corpo d'armata, il B. ne assunse le funzioni.
In questa carica contribuì notevolmente alla preparazione dell'operazione contro l'oasi di Zanzùr, a occidente di Tripoli, rimasta un pericoloso centro di forze nemiche lungo la costa, notevolmente rafforzatosi con opere semipermanenti. L'azione, ben coordinata, si risolse in un brillante successo: il B. fu promosso maggiore per merito di guerra e in seguito venne decorato di medaglia di bronzo al valor militare.
Tornato in patria, fu assegnato al 3° reggimento di artiglieria di assedio, a Roma, con il comando di un gruppo di artiglieria e una compagnia di allievi ufficiali. Il 25 febbr. 1915 venne promosso tenente colonnello di Stato Maggiore. In vista dello scoppio delle ostilità contro l'Austria, il gen. Frugoni, comandante della 2ª armata, destinata a operare sul medio e alto Isonzo, lo volle nuovamente presso di sé; ma dopo alcuni mesi il B. passava come capo di Stato Maggiore alla 4ª divisione, dislocata, agli ordini del gen. L. Montuori, nella zona di Gorizia.
Il campo trincerato austriaco constava di due parti fondamentali: la linea avanzata sulla destra dell'Isonzo, costituente la testa di ponte coi due caposaldi del Sabotino e del San Michele, e quella arretrata, appoggiata da un lato al Monte Santo e al San Gabriele, dall'altro all'Hermada. Dopo i sanguinosi e vani tentativi del '15 sul medio e basso Isonzo, il Cadorna aveva deciso di concentrare lo sforzo contro i due pilastri del Sabotino e del San Michele, cominciando dal primo. A questo fine bisognava innanzitutto rinnovare completamente i procedimenti di attacco e sistemare le linee difensive sul Sabotino, che erano, ancora alla fine del novembre 1915, in condizioni assolutamente insufficienti per un minimo di sicurezza. Il monte era infatti preso d'infilata dalle artiglierie nemiche e già era costato molte perdite.
Nel febbraio 1916 il B. accettò l'incarico di presiedere ai lavori sul Sabotino. Questi lavori procedettero così speditamente da arrivare, con due trincee, da oltre mille metri di distanza dalle posizioni austriache, a ottanta metri, con molti camminamenti scavati nella roccia e numerose caverne. Il 10 maggio 1916 il B. era promosso colonnello e, su richiesta del gen. L. Capello, comandante del VI corpo d'armata davanti alla testa di ponte di Gorizia, nominato suo capo di Stato Maggiore. Il B. tuttavia tornava spesso a ispezionare i lavori del Sabotino. Alla fine di luglio il monte poteva essere considerato come esempio classico di fortificazione campale e di preparazione offensiva del terreno. Il 6 agosto il B. diresse l'azione di una delle due colonne di attacco che conquistarono rapidamente la cima del monte, procedendo nella loro offensiva fin quasi alla riva dell'Isonzo. Il B. tornò poi al suo posto di capo di Stato Maggiore del VI corpo e il 27 agosto fu promosso maggior generale per merito di guerra. Passò quindi al comando di artiglieria del corpo d'armata, e poi, a metà settembre, trasferito il Capello sugli Altopiani, assunse, dietro sua richiesta, il comando della brigata Cuneo, nel tormentato settore di Sober, a sud-est di Gorizia, sulla sinistra della Vertoibizza.
In vista dell'offensiva della primavera 1917 il Cadorna il 4 aprile creava il comando della "zona di Gorizia", affidandolo al Capello, il quale tornava a volere il B. come suo capo di Stato Maggiore.
La direttrice strategica era la valle del Vippacco, ma accompagnata dal possesso delle alture di destra e di sinistra, ossia degli altopiani della Bainsizza e Ternova da un lato e dell'orlo settentrionale del Carso e dell'Hermada dall'altro. Poiché le riserve nemiche gravitavano sul Carso, compito della "zona di Gorizia" era di iniziare l'azione e cedere poi molte sue artiglierie pesanti alla 3ª armata. Per aggirare il baluardo naturale della Bainsizza prospiciente l'Isonzo, il Capello aveva pensato di forzare il fiume a nord con manovra a largo raggio, ma ritenendo poi di non disporre di forze sufficienti, limitò l'azione a un diversivo, facendo pertanto agire frontalmente le divisioni della "zona di Gorizia". Cominciato il bombardamento il 12 maggio, parve al Capello che il comandante del II corpo non fosse abbastanza efficiente, e il 13 lo sostituì interinalmente con il B., che, maggior generale, si trovò ad avere alle sue dipendenze tre tenenti generali e un brigadiere. Il 15 maggio, dopo aspra lotta, era preso il Kuk, e si procedeva contro il Vodice. Dopo una sospensione voluta dal Cadorna per operare sul Carso, il Capello otteneva di continuare l'azione, sia pure con artiglierie diminuite, e così il 18 anche la cima del Vodice era conquistata. La "zona di Gorizia" aveva richiamato su di sé tre divisioni austriache. Cominciava allora la serie dei furibondi contrattacchi austriaci, e la battaglia assumeva un aspetto di tipo carsico, sino a che il 28 maggio il Cadorna ordinava la cessazione delle operazioni. Il 14 giugno il B. era proposto per l'avanzamento straordinario per merito di guerra e gli era confermato l'incarico del grado superiore: continuava così a restare al comando del II corpo, che, soppressa il 1° giugno la "zona di Gorizia", tornava ad appartenere alla 2ª armata. Quale sviluppo della decima battaglia dell'Isonzo si aveva nell'agosto 1917 l'undicesima, detta della Bainsizza.
Il Capello, di sua iniziativa, fece dell'azione complementare sul rovescio di Tolmino l'operazione principale: ma proprio l'azione contro le alture di Tolmino, compiuta dalla destra del XXVII corpo, naufragava per prima, e fallita poteva considerarsi il 21 agosto anche l'azione sul Carso. Tuttavia, al centro il XXIV corpo comandato da E. Caviglia avanzava, mentre alla sua destra il B. con le tre divisioni del II corpo vincolava più di due divisioni austriache. Ma invece di concentrare gli sforzi al centro, il Capello s'intestava contro le alture di Tolmino: esonerava il comandante del XXVII corpo e, il 22 agosto, in piena battaglia, poneva al suo posto il B., che, essendosi gli Austriaci rinforzati da quel lato, poté ottenere però solo qualche successo locale. Comunque il 23 agosto gli era confermata la promozione straordinaria per merito di guerra a tenente generale e il 14 ottobre aveva il comando effettivo del XXVII corpo d'armata che aveva finito per trovarsi a cavaliere dell'Isonzo, con tre divisioni sulla sinistra dei fiume e una, più grossa, sulla destra.
Si avvicinava intanto il turbine della grande offensiva tedesco-austriaca sull'Isonzo, in un momento di particolare stanchezza per l'esercito italiano.
Il 18 sett. 1917 il Cadorna ordinava alla 2ª e 3ª armata di concentrare ogni attività nei preparativi per la difesa ad oltranza, ma, credendo poco a una grande offensiva nemica in un settore montano con la stagione avanzata, non prendeva le misure di sua spettanza, quali la costituzione di una riserva strategica sul medio Tagliamento e l'emanazione di precise norme sulla condotta della battaglia difensiva. Lasciava perciò praticamente mano libera al Capello, che intendeva, appena arginato l'impeto nemico, sferrare una controffensiva dalla Bainsizza a continuazione dell'offensiva fallita nell'agosto. Solo il 19 ottobre, avuta piena coscienza dell'imminente offensiva nemica, il Cadorna prescriveva tassativamente la difesa ad oltranza: il provvedimento era però tardivo e l'offensiva nemica coglieva l'esercito italiano in piena crisi di schieramento, con l'artiglieria priva di una sicura dottrina difensiva. La pressione nemica si ebbe il 24 ottobre principalmente proprio all'ala sinistra del XXVII corpo d'armata, comandato dal B., e qui si verificarono le due penetrazioni decisive, quella della 12ª divisione slesiana da Tolmino fin oltre Caporetto, grazie alla quale il contiguo IV corpo fu preso alle spalle, e la penetrazione dell'Alpenkorps tedesco sulle alture fronteggianti Tolmino, per cui fu scardinato il VII corpo posto come difesa arretrata e aggirato il caposaldo italiano dello Jeza. Davanti a Tolmino mancò quasi il tiro di contropreparazione e poi quello di sbarramento. Il B. in quella triste giornata restò tagliato fuori dalle sue truppe, cercando invano di raggiungere la sede del comando della sua artiglieria, e solo alle 16 fu in grado di rendersi parzialmente conto della situazione. I suoi difensori hanno voluto vedere in lui, in seguito, soprattutto la vittima della disobbedienza del suo superiore e maestro, il Capello, che avrebbe voluto sferrare la controffensiva proprio all'estrema ala destra del corpo di B., e che era assertore del semplicistico principio del tiro di sbarramento all'ultimo momento. Sta di fatto che, a differenza degli altri generali, il B., che pure in seguito scrisse a lungo sull'opera propria in altre circostanze, sul 24 ott. 1917 nulla scrisse, né ha lasciato alcun documento, sebbene l'argomento riguardasse anche l'onore e il prestigio di vari altri generali, fra cui il suo protettore Capello, e il buon nome del soldato italiano.
A sera il B. per vie traverse si portava nella zona del Globokak, importante altura alla testata della valle dello Judrio, per la difesa della quale il Capello gli aveva già assegnato la 47ª divisione bersaglieri; intanto le divisioni del XXVII corpo rimaste oltre l'Isonzo passavano agli ordini del gen. Caviglia. Venuto l'ordine di portare la difesa su una linea che andava dal Monte Maggiore al Kuk-Vodice, anche il B. retrocedeva e con il suo corpo d'armata, ricostituito con la 47ª divisione più la brigata Taranto e alcuni battaglioni d'assalto, ebbe il compito di difendere il tratto Judrio-monte Corada. Ma il 27 ottobre sopraggiungeva l'ordine di ritirata al Tagliamento e il nemico entrava in Cividale. La divisione bersaglieri, separata dal resto, si aggregò alle truppe di Caviglia; il XXVII corpo veniva quindi ricostituito per la seconda volta, dietro il Torre, con la 13 divisione al posto della 47ª. Il 28, superata anche la debole linea dietro il Torre, gli Austriaci giungevano a Udine. Il B. con due battaglioni di arditi e poche altre truppe ripiegò a nord-ovest verso San Daniele, mentre il resto del XXVII corpo si dirigeva a ovest verso Codroipo. Con le poche forze rimastegli il B. contribuì alla difesa sul canale di Ledra e poi a quella della testa di ponte di San Daniele, assieme alla cavalleria e ai bersaglieri ciclisti, e il 30 ottobre passava dietro il Tagliamento.
L'8 novembre il Cadorna era sostituito nella carica di capo di Stato Maggiore dal gen. A. Diaz, con il gen. G. Giardino quale sottocapo, ma due giorni dopo veniva nominato un secondo sottocapo nella persona del Badoglio.
Quest'ultima nomina non destò sulle prime meraviglia: l'infelice bollettino di Cadorna dei 28 ottobre rovesciava tutta la colpa dell'improvvisa rotta sulle truppe, e il disastro nella sua stessa fulmineità e gravità non lasciò dapprima discernere le singole responsabilità. Per di più proprio il XXVII corpo, rimesso in sesto per la terza volta, non fu sciolto come tanti altri; il B. inoltre ebbe una medaglia d'argento per la difesa di San Daniele. La sua nomina si dovette a L. Bissolati, che già al tempo della conquista del Kuk e del Vodice, parlando con il direttore della Tribuna O. Malagodi, aveva definito il B. "soldato splendido, mio vecchio amico".
Entro il triumvirato, nelle cui mani erano poste le sorti d'Italia oltreché dell'esercito, il B. si occupò con lena instancabile e in modo veramente egregio soprattutto della parte organizzativa: lavoro immane quando si pensi che l'esercito era letteralmente dimezzato e che in quattro mesi vennero ricostituite 50 brigate di fanteria e 409 batterie. A metà febbraio 1918 il Giardino lasciava il Comando supremo e unico sottocapo di Stato Maggiore restava il B., che fu veramente il braccio destro di Diaz, tanto che, quando la Commissione d'inchiesta su Caporetto chiese di averlo a disposizione, il Diaz si oppose, non volendo privarsi di un così valido collaboratore in vista della grande offensiva austriaca. Il B. seppe far tesoro dell'esperienza dolorosa dell'ottobre: ebbe parte notevole nel definire i criteri per la nuova sistemazione difensiva del terreno e per l'impiego dell'artiglieria e delle mitragliatrici nell'azione difensiva. Dopo la battaglia del Piave, veniva elevato (27 giugno 1918) al rango di comandante d'armata per merito di guerra. Anche nella preparazione della battaglia di Vittorio Veneto ebbe una parte importante. Presiedette infine la commissione d'armistizio e, di fronte ai tentativi dilatori degli Austriaci, mostrò dignitosa energia. Per la sua opera dal novembre 1917 al novembre 1918 fu creato cavaliere di gran croce dell'Ordine Militare di Savoia e il 24 febbr. 1919 venne nominato senatore.
Nel marasma del dopoguerra il B. si trovò a partecipare in primo piano alle vicende della questione adriatica. Per ordine del presidente del consiglio Nitti aveva assunto nell'estate il comando dell'8ª armata e si era trasferito a Udine; dopo l'occupazione di Fiume da parte di D'Annunzio, veniva nominato commissario straordinario nella Venezia Giulia (14 novembre). Era suo compito impedire altri pronunciamenti militari e un ulteriore inasprimento della già difficile situazione. E realmente seppe agire con tatto, valendosi dell'influenza che aveva sul poeta; ma, desiderando levarsi presto da quel ginepraio, il 24 novembre accettava la carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito, in sostituzione di A. Diaz, ritiratosi per motivi di salute. Tre giorni prima era stato promosso generale d'esercito per merito di guerra.
Nella nuova veste dovette affrontare la grave questione del riordinamento dell'esercito secondo l'esperienza del grande conflitto e nell'ambito della nuova situazione politica: questione che suscitava dissensi profondi fra conservatori e democratici e che portò il B. ad urtarsi col ministro della Guerra I. Bonomi. Il 3 febbr. 1921 si dimetteva dall'alta carica, rimanendo soltanto membro del Consiglio dell'esercito, organo consultivo allora creato. Era inviato quindi in Romania per decorare le città di Bucarest, Jaşi e Galati, e i sovrani dello Stato amico; a fine giugno partiva per una missione negli Stati Uniti, per esprimere la riconoscenza dell'Italia verso i suoi figli in America, che tanto patriottismo avevano mostrato durante la guerra, e per far conoscere oltre Oceano il grandioso sforzo compiuto allora dal nostro paese.
Intanto il movimento fascista prendeva vigore. Dapprima il B. l'aveva guardato con una certa indulgenza, ma poi il dilagare delle violenze e la rumorosa adesione ad esso da parte di Capello l'avevano reso diffidente e quasi ostile. Alla vigilia della marcia su Roma, nell'ottobre del '22 interpellato dal Facta, il B. dichiarò che con dieci o dodici arresti al massimo il governo avrebbe potuto stroncare tutto il movimento. Rimase quindi per oltre un anno in disparte, sino a che, alla fine del 1923, compì il primo accostamento al fascismo, accettando la carica di ambasciatore straordinario in Brasile. Restò in quella sede per un anno e mezzo, ma già nel giugno '24, quando l'Italia fu scossa dal delitto Matteotti, egli inviava un telegramma di netta solidarietà a Mussolini. Questi, dopo essersi posto decisamente sulla via della dittatura con il discorso del 3 genn. 1925, non tardò a chiamare a sé il B. nominandolo capo di Stato Maggiore generale (4 maggio). Continuavano più che mai le polemiche sul riordinamento dell'esercito, e il compromesso tra conservatori e democratici tentato dal ministro della Guerra, gen. A. Di Giorgio, aveva suscitato un vespaio fra gli stessi militari. Mussolini, riuniti nelle sue mani i tre ministeri militari, con tre docili sottosegretari, intendeva creare le forze armate dell'Italia fascista e valersi dello stesso B. come semplice strumento. Tanto più che il 7 nov. 1925, fallito l'attentato Zaniboni con la rovina del gen. Capello, passato ormai all'antifascismo militante, il B. aveva nuovamente espresso a Mussolini la propria solidarietà.
Cominciava così il grande equivoco, destinato a protrarsi per quindici anni e in forma sempre più grave dopo il 1936, fra il B., che in fondo non era fascista, ma si considerava la più alta personalità militare italiana e, non rassegnandosi a restare in disparte, si adattava ad accomodamenti sempre meno sinceri, e Mussolini, sempre più intollerante di ogni obbiezione. Dal canto suo il re, sempre più esautorato da Mussolini, cercava di tenere il B. legato a sé.
Tra il 1926 e il 1929 si verificava un progressivo esautoramento di B. a vantaggio delle velleità militari di Mussolini, ma accompagnato da un contemporaneo crescendo di onorificenze. L'11 maggio 1926 si aveva l'"ordinamento Mussolini" dell'esercito; in compenso quindici giorni dopo il B. era creato maresciallo d'Italia. Il 6 febbraio del 1927 il capo di Stato Maggiore generale veniva ridotto come dice il decreto di nomina a consulente tecnico del Capo del Governo per quanto concerne la coordinazione e la sistemazione difensiva dello Stato e i progetti di operazione in guerra; e colle attribuzioni, in tempo di guerra, che saranno stabilite per la sua carica dal Governo". Il 12 giugno 1928 però il re nominava il B. marchese del Sabotino. Si era intanto acuito l'attrito con il sottosegretario gen. Cavallero; alla fine di quell'anno Mussolini nominava il B. governatore della Tripolitania e Cirenaica, pur lasciandogli la carica di capo di Stato Maggiore generale, e il 6 genn. 1929, poco prima che partisse per Tripoli, il re lo creava cavaliere dell'Ordine della SS. Annunziata.
Si trattava di completare la riconquista e la sottomissione della Libia. Dopo il successo dell'azione condotta nel Fezzan dal gen. R. Graziani, fra il dicembre 1929 e il febbraio 1930, grazie soprattutto all'aviazione, il B. poteva volgere l'attenzione alla Cirenaica, ove nominava vicegovernatore lo stesso Graziani. Alla fine del 1930, con metodi durissimi, anche la Cirenaica era sottomessa e nel gennaio 1931 riconquistata l'oasi di Cufra. Il B. si dedicava quindi all'opera di riordinamento e di colonizzazione. Il 4 febbr. 1934 lasciava definitivamente la Libia.
Lasciati nel 1929 i ministeri militari, Mussolini ne riprendeva i portafogli in vista della conquista dell'Etiopia. Nel periodo 1929-33 era stata allestita una nuova aviazione e iniziato il rinnovamento del naviglio di guerra, ma l'esercito era rimasto nelle vecchie condizioni di preparazione. Gravissimo si presentava in particolare per una azione in Etiopia il problema logistico, mentre di fronte all'ostilità della Società delle Nazioni sarebbe stato necessario invece agire con grande celerità, sia per presentare il fatto compiuto, sia per non essere sorpresi dalla stagione delle piogge. Per questi motivi il B. era contrario all'impresa; seguì però tutti i preparativi e compì anche un viaggio in Eritrea. Mussolini avrebbe desiderato che l'impresa fosse attuata da un generale fascista, il quadrumviro De Bono, che in effetti il 3 ott. 1935 iniziava le ostilità con l'occupazione di Adigrat, Adua e Axum, e, dopo una necessaria sosta, Macallè (8 novembre). Ma, per il suo procedere, troppo lento agli occhi di Mussolini, fu sostituito dal Badoglio.
Questi il 30 novembre sbarcava a Massaua, trovandovi una situazione non favorevole, ad onta dello sforzo grandioso dei mesi precedenti. Mentre gli Italiani si erano spinti avanti per centinaia di chilometri, gli Abissini avevano compiuto la mobilitazione e la radunata prima del previsto e, contro le loro precedenti abitudini, prendevano l'iniziativa dell'offensiva, tendendo a tagliare la lunga linea di operazione italiana con una duplice azione sul fianco destro, l'una a raggio ristretto, l'altra ad amplissimo raggio; contemporaneamente una grossa massa avanzava frontalmente. Molto saggiamente il B., lungi dal proseguire nell'avanzata, decise di prolungare la sosta per migliorare tutta la sistemazione logistica e tattica, e chiese altre due divisioni in rinforzo alle sette già sul posto. Gliene furono mandate tre, mentre altre due divisioni rafforzavano il fronte somalo. La situazione delle forze contrapposte era pertanto ben diversa da quella del 1895-1896, allorché 20.000 Italiani fronteggiavano 100.000 Abissini: adesso di fronte ai 215-000 Abissini, con pochi cannoni e senza aviazione, l'Italia allineava 200.000 uomini con 750 cannoni, 7000 mitragliatrici e 350 aerei. L'azione abissina a largo raggio, stante l'opportuno ripiegamento del II corpo italiano fino ad Axum, si risolveva alla fine di dicembre in una puntata nel vuoto; quella a raggio più ristretto era fermata con la prima battaglia del Tembièn. Dopo tre mesi di sosta, gli Italiani, sicuri sul fianco destro, riprendevano l'offensiva: con la battaglia dell'Amba Aradam (11-15 febbr. 1936) il B., con duplice azione convergente, sostenuta validamente dall'aviazione e da opportuni concentramenti d'artiglieria, annientava la massa principale nemica, composta di 80.000 uomini, di fronte a Macallè; quindi con abili mosse combinate annientava successivamente le due masse ancora impegnate nell'azione avvolgente, mentre il 28 febbraio sulla principale direttrice di marcia occupava l'Amba Alagi. Dopo un altro periodo di sosta il B. riprendeva ad avanzare e il 31 marzo sbaragliava presso il lago Ascianghi la guardia del corpo del negus. Intanto dalla Somalia avanzava vittorioso il gen. Graziani e il negus fuggiva imbarcandosi a Gibuti. Il 5 maggio il B. entrava in Addis Abeba alla testa di una spedizione autocarrata, partita da Dessiè dodici giorni prima.
Proclamato l'impero il 9 maggio, il B. fu nominato viceré d'Etiopia e l'11 duca di Addis Abeba; ma lasciò subito il posto al gen. Graziani per rientrare in Italia e riprendere le sue funzioni di capo di Stato Maggiore generale. Roma gli conferì la cittadinanza onoraria e il partito fascista gli dette la tessera ad honorem. Nell'ottobre dello stesso 1936 il B. narrava gli avvenimenti d'Etiopia nel volume La guerra d'Etiopia, edito a Milano, che recava una prefazione di Mussolini.
Nel settembre 1937 il B. succedette a G. Marconi nella presidenza del Consiglio delle ricerche, venendo così a trovarsi a capo del Comitato nazionale per l'indipendenza economica e della Commissione per gli studi sulle materie fondamentali per la difesa. Ma le sue fortune cominciavano a declinare. Il 30 marzo 1938 Mussolini annunziava al senato che la guerra futura sarebbe stata guidata da lui solo, e poco dopo si faceva proclamare dalla Camera e dal Senato, insieme con il re, primo maresciallo dell'Impero, suscitando lo sdegno, senza conseguenze, del sovrano e del Badoglio. In realtà, Mussolini intendeva così dividere con il B. la direzione delle cose militari, lasciandogli l'alta direzione degli apprestamenti bellici e riservando per sé il supremo comando in guerra. Il compito di B. si faceva sempre più arduo: la guerra e la sistemazione d'Etiopia, la guerra di Spagna, l'occupazione dell'Albania avevano assorbito e disperso le scarse risorse; ormai la sua voce era ben poco ascoltata da Mussolini, al quale egli disse a volte la cruda verità, indulgendo altre volte a un ottimismo di maniera estremamente pericoloso.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale il B. fu per la neutralità: il 26 maggio 1940 giunse a dichiarare a Mussolini che l'entrata in guerra sarebbe stata un suicidio, ma, tre giorni dopo, nel consiglio di guerra tenuto da Mussolini, non sollevò alcuna opposizione o riserva. Scesa in campo anche l'Italia, il B., pur nella sua alta carica, non prese parte attiva alle decisioni sulla condotta della guerra, che Mussolini, spesso senza neppure preavvisarlo, riservava a sé. Pure continuò a pazientare: anche quando Mussolini decise di invadere la Grecia, non seppe tenere un contegno deciso. Solo quando, cominciati i rovesci sul fronte greco e attaccato con virulenza da R. Farinacci su Regime Fascista, non ottenne soddisfazione, si dimise (4 dic. 1940).
Visse allora a Roma il 1941 e 1942 tenendosi appartato, ma nella primavera del 1943, in coincidenza con l'aggravarsi della situazione dell'Italia nel conflitto, cominciò a prendere contatti con elementi antifascisti e con il re, con il quale aveva avuto buoni rapporti negli anni precedenti. Non prese parte alla preparazione degli avvenimenti che portarono, il 25 luglio 1943, alla caduta di Mussolini e al suo arresto, ma i contatti con la corte, anche tramite il conte Acquarone, fecero sì che, quando si dovette cercare un militare da porre a capo del nuovo governo, la scelta cadesse su di lui, anziché sul gen. Caviglia, come era stato proposto da D. Grandi.
Il B. per il suo passato non rappresentava certo un elemento di rottura decisiva con il fascismo, ed era quindi l'uomo adatto agli scopi del sovrano, che lo poneva alla presidenza di un ministero di tecnici e di funzionari con pieni poteri e con il compito di avviare il distacco dalla Germania nazista e di cercare una via d'uscita dalla guerra. Ma il governo di B. iniziava con un tentativo di prendere tempo: nel proclama, scritto da V. E. Orlando e da B. solo sottoscritto trasmesso la sera del 26 luglio 1943, si diceva che la guerra continuava mantenendo fede alla parola data. In realtà continuare la lotta, dopo l'occupazione della Sicilia e con la disastrosa situazione dei rifornimenti, era impossibile, ma assai difficile era l'apertura di trattative con gli Anglo-Americani, molto diffidenti anche nei confronti del governo dei B., mentre assai arduo era lo sganciamento dai Tedeschi.
Il ministero di B. visse nel timore di una ripresa da parte dei fascisti, di movimenti di sinistra e di un colpo di mano tedesco: in urto con gli esponenti democratici e antifascisti, non aveva neppure il cordiale appoggio del sovrano, che, troppo compromesso con il fascismo, non aveva voluto un ministero di carattere politico ed escludeva qualsiasi concessione agli elementi di sinistra. Così, respinta da Hitler la proposta di un incontro con il re, avanzata da B., a guadagnar tempo fu volto anche il convegno di Tarvisio (7 agosto) fra i ministri degli Esteri e i capi di Stato Maggiore generale italiani e tedeschi. Persa una settimana preziosa, furono avviate le trattative con gli Anglo-Americani, prima con sondaggi per via diplomatica, poi con l'invio di un militare, il gen. G. Castellano, in Portogallo, a prendere contatto con i rappresentanti degli Stati Maggiori alleati. Non si poté ottenere nulla più che la resa incondizionata: il 1° settembre il B., insieme con il capo di Stato Maggiore Ambrosio, e il ministro degli Esteri Guariglia, accettò il gravissimo armistizio, cui dette il proprio assenso il re, e che fu firmato il 3 settembre a Cassibile, presso Siracusa.
In esso fra l'altro gli alleati si arrogavano pieno diritto di disarmo, smobilitazione e demilitarizzazione di tutte le forze militari italiane. L'articolo 12 del trattato preannunziava poi l'imposizione di altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario. Alle rovinose clausole del "corto armistizio" si sarebbero aggiunte così quelle del "lungo armistizio". Al Castellano era però stato letto un "promemoria aggiuntivo", concordato fra Churchill e Roosevelt, in cui era detto: "La misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato dal governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra". Gli alleati prescrivevano inoltre che il governo italiano avrebbe proclamato l'armistizio subito dopo l'annuncio datone dal gen. Eisenhower, ordinando alle forze armate e al popolo di collaborare da quel momento con gli alleati e di resistere ai Tedeschi. Il Castellano ottenne che unitamente allo sbarco principale a sud di Roma un altro ne venisse effettuato nelle vicinanze della capitale, con una divisione aviotrasportata, paracadutisti e artiglieria, ma non poté saper altro se non che sbarco e proclamazione di armistizio sarebbero avvenuti un giorno "X". La notte sull'8 settembre due ufficiali alleati venuti a Roma per accordarsi sull'operazione di sbarco presso Roma, resisi conto del rischio che avrebbero corso le truppe alleate per l'immediata vicinanza ai campi di aviazione di potenti forze tedesche, e dell'estrema difficoltà di ricevere un valido appoggio italiano, fecero sospendere l'aviosbarco. Il B. telegrafò chiedendo inutilmente agli Anglo-Americani di rinviare di alcuni giorni la dichiarazione dell'armistizio e implicitamente l'aviosbarco e le operazioni ad esso connesse; fallito questo tentativo, la sera dell'8 settembre trasmetteva per radio la notizia dell'armistizio. All'alba del 9 settembre il B., con i ministri militari e gli Stati Maggiori, circa un centinaio di persone, seguì il re e il principe ereditario a Brindisi nel precipitoso abbandono della capitale: si trattò di ben altro che di un regolare spostamento del governo, come allora si disse, e soprattutto ciò avvenne senza che venissero lasciati ordini precisi a chi restava nella più disperata situazione a Roma stessa e in tutte le località più lontane, ove i soldati italiani erano stati mandati a combattere. Tristemente ironica potrà suonare la tarda accusa lanciata da "radio Bari" ai primi di ottobre: "A Roma sono state lasciate sei divisioni contro due germaniche. A suo tempo saranno appurate le cause della resa della capitale". Proprio a Roma reparti dell'esercito, già messi in stato di allarme dal gen. G. Carboni la sera dell'8, ed elementi popolari, avevano tentato, nel disfacimento degli organi di governo, una generosa resistenza ai Tedeschi, primo episodio di una più grande lotta contro il nazismo. Resistenza per nulla infeconda, perché valse a trattenere 60.000 Tedeschi con 600 carri armati medi e pesanti, quando gli Anglo-Americani compivano (9-16 settembre) con circa cinque divisioni soltanto lo sbarco nel golfo di Salerno ed era provvidenziale per il gen. Clark di poter disporre dell'82ª divisione aviotrasportata.
Il 9 settembre a Roma il Comitato nazionale delle correnti antifasciste si mutava in Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) "per - chiamare si dichiarava - gli Italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni"; e tre giorni dopo si proclamava governo di fatto, espressione della volontà popolare. Il B. si trovava a Brindisi senza autorità; e più che mai diveniva pesante la sua posizione fra i sospetti degli alleati, l'ostilità degli antifascisti, e la diffidenza e scontentezza nei suoi riguardi dello stesso sovrano. Sotto un certo rispetto Churchill, con il suo discorso ai Comuni il 21 ottobre, prese le sue difese, dichiarando necessario che tutte le forze vive della nazione italiana si stringessero attorno al loro legittimo governo. Ma in realtà egli intendeva valersi, date le condizioni di confusione e di anarchia prevalenti in Italia, del re e di B. per ottenere la piena esecuzione delle clausole dell'armistizio; solo per salvare le apparenze parlava poi della necessità che venisse costituito un governo di coalizione antifascista, da mantenere sino al termine della guerra, quando il popolo italiano avrebbe deciso non già del proprio regime, ma semplicemente di un altro governo.
Intanto, nell'immane tragedia del dissolvimento dell'esercito, non poche truppe italiane in Jugoslavia, in Grecia, a Lero, a Samo, a Cefalonia, isolate e senza ordini, ancora si battevano contro i Tedeschi, fino allo sterminio, o si univano ai partigiani greci e jugoslavi; e altre combattevano in Corsica, mentre nell'Italia occupata dai Tedeschi Napoli si ribellava il 27 settembre e si andava allargando ovunque la lotta partigiana. Nel "regno del sud" mentre alcuni animosi attorno a Benedetto Croce si adoperavano per crear formazioni di volontari, il B. pensava di organizzare un piccolo corpo regolare italiano. Il 28 settembre era infatti costituito a Brindisi un raggruppamento motorizzato agli ordini del gen. Dapino, composto da due battaglioni di fanteria, uno di bersaglieri, nove batterie di artiglieria, un battaglione controcarri. Negli stessi giorni il B. era avvertito di doversi trovare a Malta, con altri suoi capi militari, il 29; ma non fu per trattare della collaborazione militare, bensì per firmare il documento previsto dall'art. 12 delle condizioni di armistizio di Cassibile.
Esso era intitolato "strumento di resa dell'Italia" e aggravava notevolmente le già durissime condizioni, ponendo a disposizione degli alleati tutti i mezzi di trasporto terrestri, acquei, aerei, tutti i mezzi di diffusione di notizie e di propaganda; sottomettendo al loro controllo la vita economica italiana e togliendo all'Italia ogni diritto a rappresentanze diplomatiche e consolari all'estero. Anche ora però una lettera di Eisenhower al B. riconosceva come molte clausole fossero ineseguibili e che tutto poteva essere modificato con l'intensificarsi della cooperazione italiana. Il B. firmò; quanto all'entrata in guerra dell'Italia, affermò di poter apprestare, appena ritirate le truppe dalla Sardegna, da otto a dieci divisioni, ma non si impegnò circa la dichiarazione di guerra alla Germania, poiché tali erano gli ordini del re, che si illudeva di poterla negoziare.
Tornato a Brindisi, il B. cercò di ottenere armi, trasporto in terraferma delle truppe della Sardegna, passaggio di questo territorio all'amministrazione italiana; ma il gen. Mac Farlane, capo della delegazione militare alleata, dichiarò che la guerra alla Germania era la premessa di ogni concessione alleata. Il re dovette cedere, e alla dichiarazione di guerra, comunicata l'11 ottobre via Madrid, fece seguito il riconoscimento dell'Italia quale co-belligerante. In realtà però il governo del re e di B. doveva servire quasi esclusivamente, non già a rafforzare l'azione militare italiana contro i Tedeschi, bensì a spremere dall'Italia quanto ancora fosse possibile. Dal canto suo il re, dopo aver invano preteso d'includere il gerarca fascista Dino Grandi nel ministero, si appoggiava a elementi fascisti e anche comunisti. Il B. tornava più che mai a trovarsi fra l'incudine e il martello: a Napoli nessuno voleva partecipare al suo governo, e a Roma il 16 ottobre il C.L.N. precisava il suo atteggiamento con un ordine del giorno che, fu detto, segnava "lo statuto fondamentale del C.L.N. in Italia", ma sanciva pure il distacco dalla monarchia e dal suo governo da parte delle forze democratiche. In questa difficile situazione il B. il 24 ottobre manifestò al re con una lettera leale ed esplicita l'opportunità d'abdicare, lui e il figlio, per salvare la monarchia, creando una reggenza per il giovanissimo Vittorio Emanuele. Di eguale parere erano il conte Sforza, rimpatriato da poco dall'America, e Benedetto Croce: il re però non volle saperne, poiché riteneva che l'abdicazione avrebbe affrettato la caduta della monarchia. Intanto però la guerra assumeva, dal Volturno al Sangro, un carattere di logorio, e la liberazione di Roma appariva sempre meno prossima.
Il 16 novembre il B. annunciava il completamento del governo, formato soprattutto con sottosegretari aventi funzione di ministri: la presenza alle Finanze dell'ex ministre fascista Guido Jung sollevò specialmente contro il re, ma anche contro il B., l'indignazione generale. Il B. cercò poi di impedire che venisse autorizzato un convegno dei C.L.N. delle province dell'Italia occupata, ma il 7 genn. 1944 gli alleati, dopo varie oscillazioni, dettero il consenso ed esso venne fissato per il 28-29 gennaio a Bari. Anche la preparazione militare andava a rilento; falliva la costituzione di corpi volontari autonomi, patrocinata dal Croce, ma osteggiata dal re e dagli alleati; costoro non volevano saperne neppure di forze regolari notevoli: non più di 14.000 uomini avrebbero dovuto combattere in prima linea. Non fu concessa la costituzione di otto o dieci divisioni, e si rifiutò il concorso di tre gruppi alpini per la guerra fra le aspre montagne del Sannio: dei 300.000 uomini disponibili gli alleati si servirono solo in parte, e per lavori nelle retrovie, mentre vuotavano i magazzini superstiti per mandare armi e indumenti ai partigiani greci e jugoslavi. L'aviazione italiana, che contava ancora trecento aeroplani, si prodigò fra continui rischi, ma non ricevette il materiale necessario per il ricambio e per le riparazioni; anche l'uso della flotta fu sempre limitato e contrastato. Alla fine i 5000 uomini del gruppo motorizzato furono portati in zona di guerra; essi parteciparono a Monte Lungo, dall'8 al 16 dicembre, alla grande lotta per il forzamento della stretta di Mignano, sulla via verso Cassino, distinguendosi per valore e subendo gravissime perdite.
Il 22 genn. '44 ebbe luogo lo sbarco alleato ad Anzio, potente diversivo che colse di sorpresa il gen. Kesselring; ma non si seppe sfruttarlo, e la liberazione di Roma restò sempre lontana. Intanto il gen. Eisenhower aveva lasciato la direzione della guerra nel Mediterraneo, e il gen. inglese Alexander, capo delle forze alleate in Italia, si mostrava ostilissimo al congresso di Bari. Una nuova soluzione del problema istituzionale, escogitata da Enrico De Nicola, e che comportava l'abbandono del potere da parte del re e la luogotenenza al figlio Umberto, fu ancora respinta da Vittorio Emanuele III. Ma al congresso di Bari si chiese all'unanimità l'abdicazione del re, si dichiarò che il governo doveva avere i pieni poteri fino all'elezione della Costituente e si elesse una giunta che prese a funzionare regolarmente. La situazione del governo di B. era quanto mai difficile: il maresciallo, premuto dal sovrano, si valeva di elementi fascisti, come l'ex generale della milizia O. Giannantoni, provocando le rimostranze degli stessi suoi sostenitori, ma nel contempo assumeva un atteggiamento contrario al re nella questione istituzionale. Il 20 febbr. 1944 Vittorio Emanuele finì con l'accettare la soluzione della luogotenenza, purché ciò avvenisse dopo la liberazione di Roma.
Intanto il B., minacciando le dimissioni, doveva sventare la minaccia della cessione di un terzo della flotta italiana all'URSS, quale compenso per l'appoggio sovietico al re e al suo governo; il 18 marzo infatti Mosca, al fine di far sentire l'influenza russa nel Mediterraneo, annunziava che avrebbe stabilito rapporti diretti con il regio governo di Badoglio. Il 27 giungeva dall'URSS Palmiro Togliatti, il quale si dichiarava pronto a entrare nel governo Badoglio, con viva soddisfazione del maresciallo. In realtà l'intervento sovietico, che sulle prime irritò quasi tutti gli antifascisti, valeva a modificare la politica degli Anglo-Americani che il 10 aprile, per bocca del generale Mac Farlane, presenti i membri nuovi e vecchi del Consiglio consultivo d'Italia, dichiaravano essere ormai indispensabile la rinuncia immediata del re alle sue prerogative e ai suoi poteri e suggerivano una luogotenenza del principe di Piemonte. Era un vero ultimatum: il re dovette cedere, salvo rinviare la trasmissione del potere al momento della liberazione di Roma.
Il B. iniziava allora le consultazioni per il nuovo ministero, che il 21 aprile era formato, con rappresentanti dei partiti - conservando solo in carica i ministri militari - e con sede a Salerno: esso s'impegnava a far eleggere a guerra finita un'assemblea costituente. In questo modo però il nuovo governo risultava più che mai legato all'Inghilterra e all'America, e faceva cadere i timori di Churchill che un governo democratico potesse richiedere una revisione o un'attenuazione delle durissime clausole del duplice armistizio. Contro la permanenza di B. al governo e contro il nuovo ministero, considerato legato a circostanze transitorie e di carattere provvisorio, si schierava il C.L.N. dell'Italia settentrionale con una mozione del 26 aprile. Invece il C.L.N. romano, nel cui seno si erano pure manifestati forti contrasti, riflesso anche dell'eccidio delle Fosse Ardeatine del 24-25 marzo, il 5 maggio stabiliva che tutti i partiti cooperassero con il governo "ai fini della guerra di liberazione nazionale".
Ma una vera partecipazione alla guerra con forze adeguate secondo i piani di B. e del nuovo capo dello Stato Maggiore generale, maresciallo G. Messe, incontrava ancora ostacoli. Solo il 10 febbraio si ottenne che il raggruppamento motorizzato, riorganizzato dal gen. U. Utili, fosse di nuovo impiegato come unità combattente nella zona alle sorgenti del Volturno, settore relativamente secondario, dove il 18 febbraio ebbe il primo, onorevole contatto con il nemico. Spostato poi a nord di Cassino, il 31 marzo il raggruppamento conquistava monte Morrone, dopo aver preso l'antistante cima di Castelnuovo, respingendo poi con gravi perdite per l'assalitore un tentativo tedesco di riprendere monte Morrone nella notte sul 10 aprile. Il 18 aprile il raggruppamento assumeva il nome di Corpo italiano di liberazione, ed era subito ingrossato da un battaglione di fanteria di marina e dalla divisione paracadutisti Nembo, finalmente trasportata dalla Sardegna. Anche la marina e l'aviazione si prodigavano. Nella grande battaglia per la liberazione di Roma, iniziata il 12 maggio 1944, le truppe italiane, aggregate all'8ª armata, che si mosse dopo il successo della 5ª, non vennero impegnate che molto tardivamente, dietro insistenze e non poterono entrare in Roma, il 5 giugno, fra le truppe liberatrici.
Liberata Roma, Vittorio Emanuele intendeva firmare nella capitale il decreto di nomina di Umberto a luogotenente, ma la maggioranza del ministero era per la firma immediata, che fu imposta dal gen. Mac Farlane a Ravello, presso Salerno, nella villa Rufolo, nel pomeriggio del 5 giugno, presente anche il Badoglio.
Avuto dal principe Umberto l'incarico di costituire il nuovo ministero, il B. giunse a Roma con il luogotenente la mattina dell'8. Ma qui tutti i membri del C.L.N. romano, presente il gen. Mac Farlane, dichiararono necessario un governo schiettamente democratico, formato da elementi di sicura fede antifascista, e tale da poter condurre energicamente la guerra e preparare la libera consultazione popolare per la scelta della forma istituzionale, designando unanime il Bonomi quale presidente. Così il B. lasciava silenziosamente Roma la mattina del 9 giugno, invano sperando che P. Togliatti non approvasse l'operato del C.L.N. Il 10 giugno il Bonomi presentava al luogotenente la lista del nuovo ministero: gli alleati tardarono a riconoscere il fatto compiuto, e si dové attendere a Salerno il loro placet; solo il 15 luglio il nuovo ministero poteva insediarsi a Roma. Pare che il B. si adoperasse per avallare il nuovo governo presso gli alleati. Ma prima di sparire definitivamente dalla scena politica, nella speranza di cancellare la macchia della fuga di Pescara, il B. si adoperò perché venisse iniziata una severa inchiesta circa la mancata difesa di Roma, e specialmente contro il gen. Carboni che, invece, di sua iniziativa, aveva cercato di difenderla contro i Tedeschi.
Ritiratosi a vita privata, fu dichiarato decaduto da senatore il 30 marzo 1945 per l'adesione data al fascismo; due anni dopo il provvedimento era cassato dalla Corte di Cassazione. Pubblicava poi due libri di memorie: Rivelazioni su Fiume, Roma 1946, con ampia appendice di documenti, e L'Italia nella seconda guerra mondiale (Memorie e documenti), Milano 1946.
Il B. morì a Grazzano il 1° nov. 1956.
Bibl.: La bibliografia relativa a B. è quasi sempre polemica o apologetica. Biografie riassuntive sono quelle di U. Caripenta, Il Maresciallo B., Milano 1936, e di A. Mosti, P.B., Milano 1956; molto apologetico il libro di V. Vailati, Badoglio racconta, Torino 1955, con prefazione del B. stesso. Giudizi sempre ostili in E. Caviglia, Diario 1925-1945, Roma 1952, pp. 56 s., 77 s., 119-121, 124, 279 s., 291, 358, 416. Sull'impresa del Sabotino, E. Venturi, La conquista del Sabotino, Finalborgo 1925 e E. Marras, Sabotino, Roma 1933. Sulla X e XI battaglia dell'Isonzo: G. Baj Macario, Kuk 611 - Vodice - M. Santo, Milano 1933 (il lavoro, per quanto riguardava il II Corpo, fu esaminato prima della stampa dal B. stesso). Su B. a Caporetto: Relaz. della Comm. d'Inchiesta. Dall'Isonzo al Piave, a cura della Commissione d'Inchiesta, Roma 1919, II, pp. 159-166, 247-63; L. Capello, Per la verità, Milano 1920, pp. 147-166; A. Gatti, Uomini e folle di guerra, Milano 1921, pp. 189-225; N. Papafava, Badoglio a Caporetto, Torino 1923, (dello stesso: Considerazioni sulla battaglia di Caporetto, Padova 1961, pp. 44-50); E. Caviglia, La XII battaglia, Milano 1933, pp. 100-107, 128-141, 179, 188, 192, 209, 211, 269-77, 298 s.; P. Pieri, La prima guerra mondiale. Problemi di storia militare, Torino 1947, pp. 240-50, 276-88; S. Cilibrizzi, Caporetto nella leggenda e nella storia, Napoli 1947, pp. 58-83; V. Vailati, Badoglio risponde, Milano 1958, pp. 13-63 (non si tratta di memorie o documenti lasciati dal B., ma di uno sforzo di ricostruzione storica della scrittrice). Su B. e la questione fiumana: P. Alatri, Nitti, D'Annunzio e la questione adriatica, Milano 1959, pp. 216-22, 271-78, 283-87, 323-32. Sul periodo fascista in generale, oltre L. Salvatorelli-G. Mira, Storia d'Italia nel Periodo fascista, Torino 1956, vedi Indice; F. Catalano, L'Italia dalla dittatura alla democrazia, 1919-1948, Milano 1962, pp. 347-479, passim, si veda specialmente E. Canevari, La guerra italiana. Retroscena della disfatta, I, e II, Roma 1949, passim, e anche S. Cilibrizzi, P. B. rispetto a Mussolini e alla storia, Napoli 1947. Per la guerra d'Etiopia, Q. Armellini, Con Badoglio in Etiopia (con prefazione di B.), Milano 1937. Per l'azione di B. nella seconda guerra mondiale, si veda G. Salvemini, Badoglio nella seconda guerra mondiale, in Il Ponte, VIII (1952), pp. 1097-1103, 1222-36, 1724-36; IX (1953), pp. 300-316, 933-949 (giunge quasi alla fine d'agosto '43; la parte ms. inedita arriva al 9 sett. '43); Q. Armellini, Diario di guerra. Nove mesi al comando supremo, Milano 1946, passim (per il 1940); V. Vailati, Badoglio risponde, cit., pp. 67-181 e l'appendice critica di G. Gigli su B. nel 1939-40, pp. 255-345. Per gli avvenimenti del settembre 1943 si veda P. Monelli, Roma 1943, Roma 1945, passim; G. Zanussi, Guerra e catastrofe d'Italia, II, Roma 1945, pp. 157-246; A. Sanzi, Il Generale Carboni e la difesa di Roma, Torino 1946, pp. 19-26, 37-50; G. Carboni, Memorie segrete, Firenze 1955, pp. 183 ss.; E. Faldella, L'Italia nella seconda guerra mondiale, Bologna 1959, pp. 624-80. Per il "regno del sud" si veda A. Degli Espinosa, Il regno del Sud, Roma 1946, passim; B.Croce, Quando l'Italia era tagliata in due, Bari 1948; N. Kogan, Italy and the Allies, Cambridge, Mass., 1956, lavoro importante, con ricca bibl. e ampia documentazione; C. R. S. Harris, Allied Military Administration of Italy, 1943-45, London 1957, lavoro notevole e ricco di notizie sulle varie organizzazioni alleate operanti in Italia; L'armistizio, gli alleati e il Governo Badoglio, in Il Movimento di Liberazione in Italia, fasc. 54 (1959), pp. 64-75; fasc. 55, pp. 41-57; fasc. 56, pp. 22-51; fasc. 58 (1960), pp. 24-41: memoriale di B. o di persona della sua cerchia (con present. di F. Parri) in difesa dell'opera del governo B. dal 3 sett. 1943 alla liberazione di Roma (5 giugno 1944). Fra le più recenti ricostruzioni degli avvenimenti del 1943-44, vedi F. W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, Torino 1963, v. Indice; G. Bianchi, Il 25 luglio, Milano 1963, v. Indice; G. Castellano, La guerra continua, ibid. 1963, v. Indice.