Aretino, Pietro
Nacque ad Arezzo nel 1492, da Luca, calzolaio, e morì a Venezia nel 1556. Lasciata la patria per Perugia, esordì come poeta con l’Opera nova (1512), firmandosi come «fecundissimo giovene Pietro Pictore Arretino»: una raccolta prossima alla convenzione della poesia cortigiana alla Serafino Aquilano. Più tardi, in una data non nota ma che dovette cadere tra il 1515 e il 1517, arrivò a Roma via Siena. Introdotto dapprima nella cerchia di Agostino Chigi, dal 1518 prese a frequentare quella di Leone X con un ruolo che mise in evidenza le sue doti di improvvisatore e di animatore della vita di corte. Nel 1521 (all’epoca era già conosciuto per l’efficacia della sua lingua) si distinse come pasquinista in occasione del conclave che portò all’elezione di Adriano VI. La dichiarata militanza filomedicea, ribadita di lì a poco nel conclave che elesse Clemente VII (nov. 1523), gli valse la considerazione del nuovo papa. Amico di artisti (tra gli altri Raffaello Sanzio, Sebastiano del Piombo, Giulio Romano, Iacopo Sansovino, Marcantonio Raimondi), godeva della fama di intenditore d’arte e in tale veste fu in rapporti con la corte francese e con quella di Mantova.
Partecipò alla vita culturale e – si illuse – politica con prove poetiche (canzoni encomiastiche per il papa e il cardinale datario Giovanni Matteo Giberti) e con iniziative poi risultate improvvide. Tale senz’altro l’intervento a favore dell’incisore Raimondi, imprigionato proprio su ordine di Giberti per le scandalose tavole erotiche dei Modi. A., che ottenne dal papa la scarcerazione dell’amico, per soprammercato compose i Sonetti sopra i XVI modi (i famigerati ‘sonetti lussuriosi’), il che gli procurò l’odio del datario, impegnato nella moralizzazione della curia. Fatto segno di un attentato nel luglio del 1525, nell’ottobre lasciò Roma per Mantova e per il campo dell’amico Giovanni de’ Medici. Nel novembre dell’anno successivo era di nuovo a Mantova, dove aveva accompagnato il condottiero morente e dove rimase fino al 25 marzo 1527, quando arrivò a Venezia.
In laguna si guadagnò presto, con la considerazione del doge Andrea Gritti, quella di autorevoli esponenti del patriziato (Domenico Venier, Federico Badoer, Daniele Barbaro ecc.), l’amicizia di Tiziano e l’attenzione di Pietro Bembo. Divenne familiare del duca d’Urbino, generale delle truppe della Repubblica.
Godette di grande credito presso gli stampatori cittadini. Oggetto dell’attenzione di alcuni tra i più grandi signori italiani, del re di Francia, dell’imperatore, vide riconosciuta la funzione di apologeta (poi, sopraggiunta la stagione della damnatio memoriae, si sarebbe detto di ricattatore) e in grazia di quella ottenne pensioni e donativi continui. Nel 1543 la signoria lo comprese nell’ambasceria inviata a Peschiera a rendere omaggio a Carlo V, che lo onorò invitandolo a cavalcare accanto a lui. Consapevole di non poter muovere per la strada della partecipazione diretta all’azione politica, accettò di fiancheggiarla pubblicamente. Nei decenni veneziani gli riuscì infatti di vedersi riconosciuta una funzione che l’interessato battezzò di «segretario del mondo» e di «quinto evangelista». In tale veste parteggiò prima per la Francia e poi, assecondando l’evoluzione della politica veneziana, per la Spagna, il che nel 1536 gli ottenne una pensione imperiale.
I sei libri delle Lettere, in particolare, pubblicati a partire dal 1538, furono lo strumento attraverso il quale fece sentire la sua voce di «virtutum et vitiorum demonstrator». Coltivò anche il miraggio del cardinalato, ma quando le condizioni sembrarono realizzarsi – con l’elezione del concittadino Giulio III – i tempi erano ormai cambiati e al cappello si arrivava per altre strade che non erano quelle della letteratura.
Come scrittore a Venezia conobbe una profonda metamorfosi. Dal Pasquino che era all’arrivo e che fino al 1534 lo aveva portato a redigere la serie dei pronostici satirici annuali, si impegnò progressivamente nell’epica cavalleresca sia seria (Marfisa, Lacrime d’Angelica) sia parodistica (Orlandino), nella scrittura teatrale (Marescalco, Cortigiana, Talanta, Ipocrito, Filosofo), nella parafrasi scritturale (Passione, Salmi, Umanità di Cristo, Genesi), nel dialogo erotico (Ragionamento de la Nanna e de la Antonia, Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa), nella trattatistica politica e di costume (Ragionamento de le corti, Dialogo del giuoco), nell’agiografia (vite di Maria Vergine, di Santa Caterina, di San Tommaso), nella tragedia (Orazia).
Sua, si è già detto, anche la sfrontata e subito fortunatissima invenzione del libro di lettere volgari.
Tutto questo senza rinunciare mai al ruolo di autore satirico che coltivò alimentando una produzione instancabile di pasquinate e di capitoli d’occasione.
Il nome di M. non compare mai nell’opera di A. e viceversa, il che non è motivo di meraviglia data la distanza, ideale prima ancora che reale, che separa gli autori e i loro mondi; pure i due meritano di essere associati, soprattutto in grazia di un destino che per molto tempo li accomunò additandoli all’esecrazione universale. Prima di quella lunghissima stagione si dà infatti di cogliere solo echi e consonanze tematiche, mentre è noto solo un caso di ripresa testuale. Il fatto poi che la ripresa testuale sia anteriore all’attentato del 1525, mentre echi e consonanze sono successivi alla metà degli anni Trenta, e cioè seguano alla pubblicazione delle opere maggiori di M., è spia evidente dei tramiti attraverso i quali A. è venuto a contatto con il verbo del Fiorentino: che furono a Roma la Mandragola, attinta sia dalla viva parola degli attori sia dalle stampe, e poi a Venezia il dibattito sollevato dalle pagine dei Discorsi, delle Istorie e del De principatibus.
La ripresa, che riguarda la scena III 3 della Mandragola e la III 16 della prima redazione della Cortigiana, è stata segnalata per tempo da Arturo Graf (1878, p. 147) e poi richiamata e discussa da Giorgio Baratto (1964, p. 99) e da Mario Padoan (1978, p. 61); quindi è stata oggetto delle analisi ravvicinate di Maristella de Panizza Lorch (1980 e 1995) e di Angela Guidotti (1996): la prima l’ha letta in chiave soprattutto tematica (la confessione), la seconda in prospettiva più propriamente teatrale. Al di là delle interpretazioni, nessun dubbio sulla pertinenza di un recupero memoriale leggibile come riprova sia della precoce esemplarità della «Comedia di Callimaco et di Lucretia» sia della natura prensile dell’ispirazione dell’A. degli anni romani. La cronologia esclude invece la possibilità stessa di un rapporto diretto tra il Marescalco e la Clizia: negli anni della composizione della commedia ‘mantovana’ la Clizia era infatti ancora inedita. A monte delle coincidenze riscontrate va ipotizzata, naturalmente, la comune ascendenza plautina (nel caso si trattava della Casina: cfr. Padoan 1978, p. 51, nota 41).
Più vaghe e inevitabilmente episodiche, tali anzi per statuto, le pochissime consonanze e le allusioni colte. Come, a proposito del ruolo di ‘redentore’ dell’Italia preconizzato per un Medici, la prossimità del Principe xxvi e delle pagine sulla morte di Giovanni dalle Bande Nere (Lettere I 4) rilevata da Paul Larivaille (1997, pp. 124-25); o, in tema di definizione di vizio e di virtù, le corrispondenze tra Principe xv e la logica in atto nelle parole della Nanna, la protagonista delle sei giornate del Ragionamento e del Dialogo (Aquilecchia 1975, p. XXVIII). Ancora, va registrata la familiarità con il lessico di M., sia pure attinto tramite una lettura banalizzante presto diventata luogo comune, del tipo di quella che si intravvede in filigrana dietro affermazioni come «s’io fussi Principe avrei più a grado di essere amato che temuto; ma essendo Pietro tengo maggiore la sorte del temermi i signori, che non farei la fortuna de l’amarmi» (che si legge in Lettere III 124, a Francesco Marcolini).
La prima associazione dei due nomi di M. e A. venne in una Basilea allora tra le capitali continentali del libro. Ed era un’associazione tutta in positivo, condotta nei termini di un’adesione entusiasta al verbo di autori sentiti evidentemente come componenti ineliminabili di quella civiltà. Se ne fece portavoce Johannes Basilius Heroldt che, in una lettera del settembre 1548 (Lettere scritte a Pietro Aretino II 279), scriveva all’A. di aver tradotto in tedesco il Principe e l’Arte della guerra e di aver messo mano a Genesi. Nessuna di quelle iniziative arrivò alla stampa, e forse le parole del dotto letterato bavarese erano solo un tastare il terreno e davano per realizzati o in via di realizzazione meri progetti. In ogni caso si trattava di progetti realistici; la strada infatti era al momento praticabile, mentre, almeno nei Paesi cattolici, non lo sarebbe stata più solo dieci anni dopo. Già dal 1557, e definitivamente dal 1559, A. e M. sarebbero stati compresi nell’Index; e in quello del 1559 tra gli autori della prima classe, dei quali il divieto era senza appello e riguardava gli «opera omnia». La storia successiva è nota, per l’uno e per l’altro autore; qui importa richiamare le coincidenze forzose di quei destini, dal momento che quello che non avevano detto né le vicende delle biografie né le parole scritte, lo dissero le nomee indotte dai pronunciamenti romani e poi tràdite. Per cui da subito nel mondo cattolico e poco dopo anche in quello riformato quei nomi si trovarono accomunati nell’esecrazione universale. All’origine le motivazioni erano state diverse – di natura morale per l’uno e politica per l’altro – ma col tempo la sovrapposizione sarebbe stata totale. L’esemplificazione è facile. Basta ricordare come, mentre nell’Inghilterra degli anni Ottanta del Cinquecento il tipografo John Wolfe poteva ancora comprendere nel suo catalogo le opere dei due autori (Gerber 1907), passato solo qualche lustro il clima si sarebbe modificato radicalmente e i due nomi sarebbero stati motivo di scandalo. Il lessico ne avrebbe preso atto con il neologismo Mach-Aretines che si lesse nelle Lachrymae lachrymarum di Joshua Sylvester del 1613 (Praz 1962, p. 136). La strada del riscatto sarebbe stata lunga, e M. vi avrebbe preceduto l’altro.
Una svolta si ebbe con la Storia della letteratura italiana desanctisiana (1870), che pur nel perdurare di forti preconcetti ideali ne fece due protagonisti assoluti del loro secolo e della storia stessa dell’Italia. Alla fine, ma siamo ormai alle soglie del Novecento, venute meno le pregiudiziali religiose, morali e ideologiche, M. e A. avrebbero visto riconosciuti i loro diritti di autori; le loro opere, sottratte agli ‘inferni’ delle biblioteche e restituite ai rispettivi contesti storici e culturali, sarebbero state oggetto delle attenzioni filologiche e critiche indispensabili.
Bibliografia: Lettere, a cura di P. Procaccioli, 3° vol., Roma 1999; Lettere scritte a Pietro Aretino, a cura di P. Procaccioli, t. 1, Libro I, t. 2, Libro II, Roma 2003-2004. Per gli studi critici si vedano: A. Graf, Studii drammatici, Torino 1878; A. Gerber, All of the five fictitious Italian editions of writings of Machiavelli and three of those of Pietro Aretino printed by John Wolfe in London (1584-1588), «Modern language notes», 1907, 12, pp. 129-35; M. Praz, Machiavelli e gli inglesi dell’epoca elisabettiana, in Id., Machiavelli in Inghilterra ed altri saggi sui rapporti letterari anglo-italiani, Firenze 1962; M. Baratto, Tre studi sul teatro (Ruzante-Aretino-Goldoni), Venezia 1964; G. Aquilecchia, introduzione a P. Aretino, Sei giornate, a cura di G. Aquilecchia, Roma-Bari 1975; G. Padoan, La Mandragola del Machiavelli, in Id., Momenti del Rinascimento veneto, Padova 1978, pp. 34-67; M. de Panizza Lorch, Confessore e chiesa in tre commedie del Rinascimento: Philogenia, Mandragola e Cortigiana, in Il teatro italiano del Rinascimento, a cura di M. de Panizza Lorch, Milano 1980, pp. 301-48; M. De Panizza Lorch, Pietro Aretino revisited: confessore e chiesa in the Cortigiana, in Pietro Aretino nel cinquecentenario della nascita, Atti del Convegno, Roma-Viterbo-Arezzo 28 sett.-1° ott. 1992, Toronto 23-24 ott. 1992, Los Angeles 27-29 ott. 1992, 2° vol., Roma 1995, pp. 735-51; A. Guidotti, Riscrittura aretiniana di una scena della Mandragola, in Studi offerti a Luigi Blasucci dai colleghi e dagli allievi pisani, a cura di L. Lugnani, M. Santagata, A. Stussi, Lucca 1996, pp. 299-308; P. Larivaille, Pietro Aretino, Roma 1997.