ARETINO, Pietro
Nacque ad Arezzo la notte fra il 19 e il 20 apr. 1492. Intorno all'ambiente familiare ed alla giovinezza dell'A. si hanno poche notizie sicure, le quali pur consentono di stabilire taluni essenziali punti di riferimento e fanno giustizia di molti equivoci che nutrirono secolarmente la tradizione aretiniana.
Cominciando dai suoi genitori, si può dire che furono gente di condizione modesta, irrequieta e travagliata da dissesti e dissensi, ma non mai miserabile e corrotta quanto e come volle la libellistica anti-aretiniana. Oscurissima, ma non più incerta, è la figura del padre, che fu un artigiano, un calzolaio aretino, nominato in certi documenti come Andrea ed in altri assai più attendibili come Luca, del quale è probabile, ma non ben provato, che il cognome fosse Del Tura, e che abitò con la moglie ed i figli (Pietro, poi una figlia della quale non conosciamo il nome, ed ancora una seconda che si chiamò Francesca) una modesta casa della contrada di S. Pier Piccolo, ove risiedevano i nobili Bacci. Poco più sappiamo di Luca, ma è importante registrare il fatto che in un momento assai incerto egli si guastò con la moglie e che, come dice un'antica testimomanza, "scappò per andare a iscriversi nella milizia ", poiché è sicuramente da connettere con quell'abbandono della famiglia la estraneità quasi totale che corse di poi tra l'A. ed il padre. Il quale tornò ad Arezzo, comunque, e vi morì in povertà nel 1551, a ottantacinque anni suonati, scarsamente compianto dall'omiai dovizioso e celebre figliolo, che fin da giovane ne aveva rifiutato il cognome e nutrì sempre nei suoi riguardi un rancoroso senso di ripulsa. Tita (o Margherita) Bonci (o del Boncio) si chiamò la madre e proveniva da famiglia non troppo oscura se tra i fratelli di lei si possono annoverare un giurista, Nicolò, lettore allo Studio di Siena, ed un canonico, Fabbiano, ambedue sicuramente presenti e partecipi alla educazione del nipote Pietro. Tita fu, pare, bellissima, sì che da giovane fu scelta a modello di una Vergine nunziata che un ignoto dipinse "di suso la porta di San Piero", come ricordava l'A. in una lettera al Vasari del dicembre 1548. Tita ebbe sicuramente una durevole relazione col nobiluomo Luigi Bacci e, anche se ignoriamo in quale rapporto cronologico sia da situare la relazione rispetto all'abbandono della famiglia da parte del calzolaio Luca, rimane certo che Pietro fu allevato dalla madre in familiare dimestichezza con i figli del Bacci, il quale non mancò mai di provvedere, come è provato dai registri della sua contabilità, ad assicurare il sostentamento della Tita e dei suoi ragazzi.
Frutto della unione non felice di una bella e ambiziosa borghese con uno scattoso, vivace artigiano, l'A. visse certamente un'infanzia sbilanciata dalla parte della madre, nell'orbita dell'ambiente di lei, dei suoi affetti e dei suoi interessi. Nel giro breve della Arezzo di fine sec. XV e di inizio del XVI, già tradizionalmente ricca di fervide personalità che avevano trovato gran fortuna fuori della piccola patria (onde a Michelangelo pareva che quella esportazione di ingegni fosse tipico tratto della sua terra), l'A. raccolse i primi nutrimenti vitali, divisi tra i rudimenti culturali, che forse gli impartì dapprima l'anziano e gioviale zio Fabbiano "canonico venerabile", e l'aperta casa dei Bacci. Certo è che il suo aguzzo e risentito carattere di indisciplinato tollerò per poco il curricolo che gli offriva la sorte. Che andasse alla scuola appena tanto da saper ripetere con gli altri ragazzini la giaculatoria "Santa Croce fatimi bene imparare", come egli volle dire più tardi, pare, più che notizia attendibile, vanteria polemica e postuma di ribelle arrivato, e certo è leggenda il suo discacciamento da Arezzo per aver composto, poco più che decenne, un sonetto "contro le indulgenze"; è probabile, invece, che egli stesso rendesse irregolari e saltuari gli insegnamenti che gli furono impartiti e certissimo è, d'altra parte, che si allontanò presto dalla città natale e che, accogliendo un uso assai frequente fra letterati, artisti e avventurieri del tempo, volle essere chiamato solo col nome della patria. Quale che ne fosse l'occasione, l'A. si trasferì presto a Perugia, ove sicuramente si trovava già nel 1510, protetto dall'umanista Francesco Bontempi e, contrariamente a quel disegno biografico da " maledetto " che si volle di lui divulgare in età più tarda indulgendo ad un caratteristico rilievo denigratorio circa la, sua ignoranza plebea, in dimestichezza assolutamente vincolante con l'ambiente aristocratico, con gli artisti e gli intellettuali della città umbra. Considerando, poi, che i fuorusciti Bontempi, di parte oddiana, furono riammessi a Perugia dopo la conciliazione tra Baglioni e Oddi voluta da Giulio II nel 1506, sembra ragionevole assegnare a quell'anno, o tutt'al più al seguente, l'arrivo dell'A. a Perugia. Contrariamente alle notizie fornite dalla tradizione libellistica, gli anni perugini non furono segnati per l'A. da stenti e dalla miseria. Sotto la scorta del Bontempi egli fu immesso, fin dall'arrivo, nel nobilesco ambiente letterario perugino, dove gli fu familiare maestro di poesia volgare Antonio Mezzabarba " d'ingegno chiaro e- d'età venerabile * ed amici Alberto Podiani,, Tito Ramazzani, G.B. Caporalii Leandro Signorelli, Mario Podiani, Giulio Oradini. tutti poeti perugini, i più di nobile casato, che l'A. ricordò sempre con affettuosa nostalgia. E come frequentava i poeti, così i pittori, che erano spesso gli stessi amici poeti, e inoltre studiosi d'ogni grado e condizione, dai piú autorevoli e severi, come Girolamo Bigazzini, matematico e astrologo di larga fama, agli studenti universitari più sbrigliati e vivaci, tra i quali spiccava Agnolo Firenzuola, che si legò all'A. in imprese burlesche e scapestrate durante un periodo in cui anche quest'ultimo frequentò, forse, lo Studio perugino. Se resta tuttavia incerta la qualifica studentesca dell'A., certo è ch'egli fu, sin da quegli anni, pittore e poeta. La prima testimonianza letteraria ci documenta la sua duplice attività. Nel 1512 pubblicò a Perugia, infatti, una raccolta di versi (che fu tuttavia stampata a Venezia presso Nicolò Zoppino), dal titolo Opera Nova del Fecundissimo Giovene Pietro Pictore Aretino, zo e Strambotti Sonetti Capitoli Epistole Barzellette et una desperata operetta ancora oggi pochissimo conosciuta, ma importante per la storia della formazione aretiniana.
Si tratta di componimenti privi al tutto di originalità e di efficacia, intonati sul gusto del petrarchismo prebembesco di fine secolo XV e ispirato alle cadenze che furono del Tebaldeo e, soprattutto, di Serafino Aquilano. Ma per quanto destituiti di vera dignità poetica, quei componimenti ci assicurano di un minimo di carriera letteraria attuato sotto la precisa influenza di un gusto e di una cultura che non erano d'accatto per l'A., ma frutto di una precisa ed elaborata educazione. Non dovrà dunque trarre in inganno, insieme al resto delle deformazioni tradizionali (le quali imponevano, dell'A. in Perugia, quasi l'immagine di un lacero pitocchetto analfabeta, che si fa la sua cultura lavorando da garzone nella bottega di un libraio), nemmeno la calcolata civetteria con la quale l'aggressivo e polemico A. della maturità si farà ad insistere sulla propria originaria innocenza culturale: l'A., in realtà, non fu né un ingenuo, culturalmente parlando, né un indotto. Fu, invece, fin da principio, un ambizioso dilettante, impaziente di disciplina e, nello stesso tempo, pericolosamente propenso ad impigrirsi sugli schemi più ovvi del gusto contemporaneo, un geniale inventore di immagini fortemente tentato da ambigue capacità di captazione e di mimetismo psicologico e stilistico.
Della sua vita perugina poco occorre ancora ricordare. Le burlesche scioprataggini, le avventure corse dal giovinotto per le scoscese viuzze di quella città che egli chiamò " mia patria come la patria propria ", ci ragguagliano, al massimo, dell'innato suo carattere violento, espansivo e ribelle. Ma per questo gli fu ben presto più ampio teatro e miglior scuola Roma, dove si trasferì verso il 1517. Tra Perugia e Roma vi fu, comunque, una permanenza a Siena. La cosa è sicurissima perché documentata da dichiarazioni dell'A., e specialmente da una lettera a Claudio Tolomei, in cui son ricordati i bei tempi passati insieme colà; è da aggiungere che non si dovette trattare neppure di una permanenza breve, a giudicare dalle relazioni che l'A. stabilì con quell'ambiente e dalla sua esperienza profonda dei costumi senesi. E sarà forse stato lo zio Nicolò Bonci a presentarlo ad Agostino Chigi e ad affidarlo al potente finanziere perché gli agevolasse la carriera di cortigiano a Roma. Il Chigi lo protesse, in effetti, nei primi tempi del soggiorno romano e lo introdusse nel mondo cortigiano della Roma di Leone X. Prima, dunque, fu presso il Chigi - un discendente del quale annoverava l'A. tra gli amici del mecenate, facendo il suo nome insieme a quelli del Bembo e del Bibbiena (" inter quos familiares habuit Augustinus fuere Petrus Arretinus... eruditus homo... vir acerrimi iudicii... ") - e poi presso Leone X; ma non è da dimenticare, fra i due, Bernardo Accolti, l'Unico Aretino, il quale ben presto prese a proteggere l'A. con tanta cura da adottarlo.
Cresceva intanto la fortuna aretiniana e se solo dal 1520-21 le cronache della vita romana ce ne recano testimonianza, è ben sicuro che a quelle prime pezze d'appoggio non mancarono precedenti. Lo Strascino da Siena ricorda nel suo Lamento un'opera aretiniana che non ci è giunta, Il Regno de la Morte, con parole di convinto entusiasmo; una Farsa del 1520, certamente aretiniana, ci documenta insieme della disinvoltura canzonatoria ormai acquistata dall'autore e del prestigio raggiunto. E così si allargava la fama della prontezza e dell'audacia espressiva dell'A., che ormai conosceva corte e suburbio, palazzi e osterie, * stufe * e studi d'artisti come forse nessun altro. Gioviale e intelligente, dotato d'una sfacciataggine ch'era insieme improntitudine e oculata sagacia, prudente all'occorrenza e sempre attento a captare impressioni e sensazioni d'ogni genere, l'A. alimentava una precocissima fama di mordacità, che lo rendeva tanto temuto quanto la simpatia che ispirava lo rendeva caro. Fu presto un personaggio insostituibile della corte leonina, e, protetto dai più potenti, guardato con simpatia dai minori emuli e soci, poté dispiegare una fortunata attività artistica, letteraria, mondana, trafficando in ogni direzione in pro' del proprio immediato prestigio.
Amico di artisti come Sebastiano del Piombo, Giovanni da Udine, Raffaello, Iacopo Sansovino, confidente di diplomatici e politici, intimo di tutti i letterati più e men seri che la corte aveva attirato a Roma, raccoglitore di aneddoti, regista di beffe e piacevolezze mondane, l'A. commissionava e forniva quadri e anticaglie, organizzava spettacoli, scriveva versi senza troppo impegno, adoperandosi con instancabile fervore. Fu il suo modo di inserirsi nel mondo, la sua maniera di prender parte alla vita e alla cultura contemporanea, immergendosi in un bagno di attuali, palpitanti aspetti della realtà politico-sociale italiana, con notevole incremento dell'intelligenza critica delle cose, anche se di una intelligenza guicciardinianamente "particolare ", viziata da una egoistica fragilità della interpretazione e da un profondo ottundimento delle facoltà morali. Così le sue reazioni agli eventi ebbero, nei momenti migliori, il pregio indubbio della immediatezza e una straordinaria capacità di aderire ai fatti nella loro colorita e difficile corposità, di intenderli nella misura in cui la sua immaginazione era disposta a ferirli o ad accarezzarli, ma non ebbe quasi mai invece la facoltà di raccoglierne il significato profondo, di armonizzarne l'esperienza in una visione critica coerente.
La morte di Leone X (24 nov. 1521), mentre gettava nello scompiglio la società romana, offrì all'A. l'occasione di manifestare da una tribuna di interesse nazionale, e più che nazionale, l'estro satirico e l'abiltià diplomatica affinata negli anni precedenti. Egli si impegnò a fondo nella produzione di pasquinate a favore dell'amico e protettore cardinale Giulio de' Medici e a violenta denigrazione degli altri concorrenti alla Sedia papale, superando in ferocia e brillante sarcasmo quanti predecessori aveva avuto in tal genere di componimenti. Seppe, in quell'occasione, andare oltre la satira personale, riuscì fin dal principio a esprimere l'accidia burlesca e amara e lo scontento dei gran pubblico romano e italiano, che vedeva cinicamente nel conclave un affare pericoloso e una tragica fiera di vanità. Quando, poi, il conclave finì con la inattesa elezione del fiammingo Adriano VI, l'A. ebbe il coraggio e l'abilità di continuare la sua campagna, esprimendo in forme violentissime il risentimento generale per quella scelta sgradita e preoccupante. Ricavò da quell'impresa un successo notevolissimo. La sua fama corse assai fuori di Roma, come di interprete felice dei sentimenti e degli interessi della maggior parte del pubblico italiano riguardo al nuovo pontefice. Ma prima che questi giungesse a Roma, l'A. capì bene che, era necessario cambiare aria e si allontanò dalla città che gli aveva offerto il destro dei primi trionfi. Partì alla fine di luglio del 1522, un mese prima che a Roma arrivasse Adriano VI e 1asciò alle sue spalle tutta una schiera di amici e di ammiratori che coltivavano la sua fama e si facevano banditori delle pasquinate che, pur da lontano, egli seguitava a indirizzare contro la corte del fiammingo.
Fu dapprima a Bologna, poi ad Arezzo e a Firenze, sempre alle dipendenze onorevoli del suo protettore ufficiale, il cardinale Giulio de' Medici. Vi era ancora nel febbraio del 1523, quando Federico Gonzaga, marchese di Mantova, lo invitò presso di sé ed egli accettò l'invito malgrado che il cardinale si staccasse a malincuore dal protetto, invidiato e conteso. Di tali contese, del resto, l'A. trasse ottimo partito per affermare in sordina il suo diritto di scelta e sfruttare fino in fondo la propria fortuna, sicché proprio in questo periodo egli riuscì a gettare le basi di quella eversione dei rapporti cortigiani che, in un certo senso, resta il capolavoro della sua attività, quel rovesciamento dei termini, cioè, per il quale egli fu temuto un giorno ed onorato come libero umiliatore dei " gran maestri ", principi, re, papi o imperatori che fossero. E curava, intanto, a Mantova come a Firenze, di non far tacere l'ingegno maledico e satirico; sì che, tornando in aprile presso il cardinale, trovò che Adriano VI aveva a questi ordinato " che gli lo volessi dar nelle mani " e proibiva frattanto a Roma la tradizionale festa di Pasquino. Per la fama dell'A. una tal messa al bando valeva una consacrazione preziosa, ma poneva in seri pericoli la non meno preziosa incolumità. Non potendolo proteggere scopertamente, il cardinal Giulio lo inviò presso il suo congiunto Giovanni de' Medici, che teneva il campo a Reggio.
Fu un incontro fortunato di due temperamenti che trovarono subito un accordo equilibrato nelle differenze e nelle somiglianze. Sfrenati ambedue, ambiziosi e audaci, avevano interessi tanto diversi e obbiettivi tanto divergenti da potersi apprezzare reciprocamente senza urto di suscettibilità; sicché tra il condottiero delle Bande Nere e l'A. poté nascere e crescere quell'amicizia famosa e pur incomprensibile a chi non capì l'uno o l'altro, o tutti e due i personaggi, un'amicizia che è tratto caratteristico della temperie spirituale di quella ricca e vitale età. E giova ricordare, non per vacue e fredde esaltazioni di fantasmi, ma per documentare il fatto in quel clima, che Giovanni delle Bande Nere scriveva all'A.: " Tutti potrebbero far tristizie alle volte, ma tu mai non già "; che l'A. mantenne sempre un virile culto del suo * signor Giovanni "' e, infine, che il Guicciardini scriveva che al Medici sarebbe convenuto aver molti Pietri Aretini intorno a sé.
Il primo incontro, tuttavia, non durò a lungo. Nel settembre 1523 Adriano Vi moriva e l'A., dopo un'intensa attività pasquinesca, già trionfante da lontano, tornò a Roma nel novembre successivo alla elezione del cardinale Giulio de' Medici, che prese il pontificato col nome di Clemente VII. A Roma lo attendevano il favore del papa, l'agio e le tentazioni del favore popolare, i pericoli della fama. Cominciò un periodo di maneggi politici, di esperienze di sottogoverno e di coperta diplomazia. L'A. rimase presto invischiato dalla benevolenza non meno che dalla incerta condotta politica di Clemente, che dava contraccolpi pericolosi a tutto l'organismo della corte romana. " Pietro Aretino che sta tanto in favore Come la rana fu preso al boccone ", commentavano ironici i pasquillanti romani. Ma dopo pochi mesi di tranquillo sfruttamento dei propri meriti toccò all'A. la prima prova di forza contro il nuovo datario pontificio, Giovanni Matteo Giberti, uomo di primissimo piano alla corte e poco disposto a tollerare le ingerenze e le spavalderie dell'Aretino. Cosi avvenne che, nella primavera del 1524, quando il datario fece incarcerare l'incisore Marcantonio Raimondi perché aveva riprodotto sedici disegni erotici di Giulio Romano, l'A. si interpose, rompendo clamorosamente col Gíberti, ed ottenne la scarcerazione dell'artista direttamente dal papa. P- da vedere, crediamo, in questa mossa aretiniana non solo una prova di solidarietà verso l'amico Raimondi, ma una manovra politica ispirata dalla parte filospagnola della corte contro il filofrancese datario. Non contento del primo successo, l'A. volle mostrare che tutto gli era permesso e scrisse sedici sonetti a commento delle figure di Giulio Romano. Scoppiò un nuovo scandalo e al Giberti riuscì bene di rovesciare le sorti del primo scontro: l'A., minacciato di carcere, fu costretto ad abbandonare Roma e vagò per alquanti mesi, dall'agosto al novembre 1524, recandosi prima ad Arezzo e poi a Fano, al campo di Giovanni delle Bande Nere, ove fu presentato con molto successo a Francesco I, re di Francia. In novembre, poi, la pace col papa fu fatta e, apparentemente, anche col datario, tanto che l'A. dedicò all'uno e all'altro canzoni celebrative. Ma ormai l'antico equilibrio era rotto: l'A. guardava alla corte romana con occhi profondamente disillusi, mentre si maturava in lui un sentimento di rivolta che cercava rabbiosamente sfogo, ed era uno sfogo tanto più rabbioso perché contrastava con gli interessi materiali e con il fatto che in quel mondo difficile e variopinto, lussuoso e miserevole della corte, l'A. si specchiava ancora volentieri. Ai primi del 1525 l'A. era già al punto di poter riflettere, nella prima redazione della commedia La Cortigiana,la propria condizione di complicità e di saturazione critica rispetto al mondo romano.
Dopo i Sonetti del Conclave e i Sonetti Lussuriosi, la Cortigiana, del 1525, si presenta come opera ben altrimenti impegnata e risolta, e certamente come il primo lavoro aretiniano che affermi il carattere d'artista dell'autore. Improntata com'è dì spiriti pasquineschi e antiletterari, la commedia riesce a promuovere l'antiletterarietà programmatica sul piano di un efficace, anche se frammentario, realismo mimetico e supera - con una originalità che è anche prodotto di una meditata scelta critica - gli impacci normativi del genere comico, bruciando, nella densità delle farsesche e impietose risoluzioni sceniche, gli spunti novellistici e gli impegni di intreccio che solitamente appesantiscono le commedie di quella età.
Nella Cortigiana si incrociano due fili d'azione comica. Il primo è relativo alla storia di messer Maco, che giunge a Roma da Siena per farsi cortigiano e che, nella sua dabbenaggine e vanità di ignorante provincialotto, è vittima di beffe clamorose e crudeli le quali riescono a disingannarlo e a disamorarlo della facile Mecca che s'era figurata; l'altro filo, poi, si svolge attorno alla figura di messer Parabolano, ricco cortigiano e pur scaltro, ma accecato dall'amore al punto di affidarsi alle sordide mene di servi che sfruttano l'occasione per vendicarsi del padrone e far guadagno delle sue voglie. Queste due trame sono però assai tenui e appena riconoscibili nella snodatura della commedia, la quale rivela il suo motivo più autentico nella rassegna mimeticamente burlesca, ma non spensierata, che l'A. in essa compie degli atteggiamenti più tipici della violenza e della inquietudine della vita cortigiana di Roma. Pur nello scoppiettìo continuo del gioco delle beffe romane c'è nell'A. un'amara impostazione ed un impegno critico che staccano di molto il suo primo lavoro drammatico dai consimili, per quanto abili, lavori dì commedia: ché la novella di tradizione boccaccesca, la beffa, la facezia, sono qui ingredienti che interessano solo come sottofondo letterario furbescamente e dilettosamente accettato da chi tende a un discorso altrimenti circostanziato, alla rappresentazione di quell'esistenza cortigiana priva di ieri e di domani che correva verso la catastrofe del 1527.
È, interessante, del resto, che in questo suo primo lavoro di grande impegno l'A. si sentisse indotto ad accompagnare il testo con una serie di dichiarazioni di poetica antipetrarchistica, antiaccademica e antiletteraria, quale è quella contenuta nell' " Argomento " e nel "Prologo ".
A parte la Cortigiana, i rapporti tra l'A. e la corte romana non parevano cattivi, nei primi mesi del 1525; ma ecco la scadenza della festa di Pasquino, in aprile, ed ecce la serie di pasquinate che riappiccò il fuoco alle polveri male inumidite dai rappacciamenti d'occasione. L'A. fu, per di più, in quell'anno, il protettore ufficiale della festa e non mancò certo di farsi onore, di tener alta la sua bandiera ai danni del Giberti. Il quale, dal canto suo, rispose con tragica nettezza di propositi e - forse sfruttando il risentimento di un tale Achille Della Volta cui, si disse, l'A. aveva insidiato l'amica - si fece mandante di un attentato che fu consumato la notte del 28 luglio di quell'anno, e dal quale l'A. scampò per caso, pur restando ferito alle mani e al volto da diverse pugnalate vibrategli dal Della Volta. Il fattaccio, a Roma e per le corti d'Italia, fu subito all'ordine del giorno. Tutti sapevano o capivano che dietro al Della Volta c'era qualcuno più potente, e non era difficile intuire chi fosse. Del resto, i fedeli e i protetti del Giberti apertamente gioivano e inveivano contro l'A. ancora degente, come il mai così livido Berni, che gli augurava "un pugnale Miglior di quel d'Achille e più calzante ", o il Casio, che si vendicava con scipiti epitaffi dei vecchi morsi aretiniani, mentre i più prudenti scuotevano la testa, come il Mauro sentenziante, in un altro noto e pur frainteso capitolo, che " Questo gli avvien per essere dicente - Di quelle cose che tacer si denno - Per non far gire in collera la gente *. Il cui prodest e una ricca serie di testimonianze non lasciano dubbi sull'autore primo dell'attentato, anche se oggi a noi sfuggono gli elementi circostanziali dell'operazione, intomo ai quali fu stesa una cortina di silenzio dai contemporanei, tutti precisamente allusivi e pur sfuggenti. E il Giberti (né l'A. glielo perdonò mai) ebbe faccia d'andare a trovare la sua vittima per congratularsi dello scampato pericolo, mentre l'A. chiedeva a gran voce esemplare vendetta, oltre che giustizia piena sul suo caso. Ma si dovette accorgere ben presto dell'inanità delle proprie pretese. Clemente VII non osò affrontare il datario e abbandonò alla sua sorte l'A. che in quel momento gli apparve tanto più debole dell'altro. Sconfitto, amareggiato e gonfio di spiriti vendicativi contro tutta la corte romana, l'A. partì da Roma, appena rimesso dalle ferite, il 13 ott. 1525, con una lettera accompagnatoria del cardinale Schómberg per il marchese di Mantova.
Non a questo suo ammiratore e protettore larghissimo di promesse l'A. si affidò tuttavia; dopo una breve visita a Mantova, corse al campo del fedele amico Giovanni delle Bande Nere, che agiva allora nel Mantovano contro gli imperiali Insieme a Giovanni rimase fino alla morte del condottiero, stringendo amicizia con i suoi capitani e comrnilitoni, seguendo la curva di un'avventura ricca di promesse e d'avvenire, bruscamente interrotta dalla ferita mortale che stroncò la vita di Giovanni delle Bande Nere sul finire del novembre 1526. La morte repentina dell'amico, lì per lì celebrato in una lettera a Francesco degli Albízi, che ha vivissimo spicco d'arte nella sua commossa varietà di toni realistici ed eloquenti e che resta esemplare nella storia della prosa del XVI secolo, non interruppe soltanto il diversivo della campagna m:Uitare, ma aggravò materialmente e psicologicamente quella che fu la crisi di crescenza della fortuna aretiniana e provocò frattanto l'affioramento di un senso di solitudine e di precarietà, contro il quale l'A. ebbe a lottare per diversi anni. Resi gli ultimi onori all'amico, l'A. si fermò a Mantova, cedendo alle insistenze di Federico Gonzaga, sempre affascínato dall'estro satirico di Pietro.
Non vi restò a lungo, appena dal dicembre 1526 al marzo 1527, incalzato e sospinto com'era verso una base altrimenti sicura dalle minacciose brighe della corte di Roma, che l'aveva ormai segnato sulla lista nera e che, del resto, egli stesso procurava di mantenere in istato di esasperazione con i continui sfoghi del suo livore estroso e velenoso. Anzi, proprio in quei mesi di vita mantovana, l'A. sviluppò fino alle estreme conseguenze le premesse dell'esperienza pasquineséa, elaborando forme satiriche più aguzze, dando la stura alla serie dei " pronostici " e degli " avvisi ", ch'erano pepatissime e ben calcolate previsioni satiriche congegnate sul modello dei correnti pronostici astrologici e dedicati a quel generico ed anonimo pubblico cortigiano d'Italia che era già il suo pubblico, preparato a riconoscere nell'A. il proprio interprete ed il proprio eroe. Consapevole, del resto, del bisogno di crearsi un retroterra letterario meno estemporaneo ed occasionale, e della opportunità di impegnarsi a fondo nella via dell'arte fin qui sfruttata ai margini, ma poco battuta, mentre badava a divulgare di sé l'immagine provocatoria ed altera del banditore a oltranza della verità, autodefinendosi il Quinto Evangelista, trattava col marchese Federico di un poema in onore dei Gonzaga (che fu poi l'interrotta Marfisa), abbozzava una commedia (Il Marescalco), leggeva e - scriveva e - a sentire l'affascinato marchese - faceva " miracoli ", " tante cose, et versi et prose, che in X anni non le metteriano insieme tutti li ingegni d'Italia ".
Nella commedia (che noi conosciamo soltanto nella redazione messa a stampa fino dal 1533, sei anni dopo la stesura iniziale) l'A. scelse ancora una burla a perno dell'azione. Il duca di Mantova ha deciso d'autorità di dar moglie al proprio marescalco (cioè maniscalco, ma con l'arcaico e feudale. significato di sovrintendente alle scuderie) il quale è di tutti altri pensieri e nutre per le donne radicatissima avversione. Le resistenze, le furie e la disperazione dello sventurato (le quali formano il tessuto vero deUa rommedia e consentono all'autore di tradurre m linguaggio scenico una piccola folla di personaggi boriosamente e pettegolmente cortigiani) a nulla valgono, ed egli è finalmente costretto ad accompagnare la sposa non scelta e non conosciuta fino al luogo della cerimonia dove, togliendo il velo dal volto della propria nemica, egli scopre la faccia maliziosa di un paggio del duca; cosicché la commedia si chiude con una gran tirata misogina e la camevalesca soddisfazione dei cortigiani del brioso monarchetto. Anche in questo lavoro, forse meno impegnato che la Cortigiana, ma più abile e misurato, l'arte comica dell'A. puntò ad una rappresentazione caustica delrambiente e bene riuscì nella rassegna dei caratteri e tipi caratterinici della società rinascimentale, individuandone anche talune impronte locali ben specificate.
Cercando di divertire la corte mantovana con le più frizzanti trovate giocose riuscì facile all'A. di situarsi al centro dell'attenzione generale. Godè d'ogni risorsa di Mantova, né sapremmo immaginare come la crisi che attraversava e lo angustiava avesse potuto illanguidire la sua protervia vitale. S'invaghì, nel febbraio del 1527, d'una fanciulla della corte, Isabella Sforza, e fece della sua passione pubblico spettacolo, proclamando che la bella lo aveva " convertito * ad amare le donne e celebrando buffonescamenti il " miracolo * in due sonetti. Conversione relativa, del resto, ché giusto in quel tempo si invaghi anche d'un giovinetto, tal "figliolo del Bianchino ", e pretese, come nell'altra occasione, i buoni uffici del marchese, il quale sembra che adoperasse invano tutta la sua buona volontà per accontentarlo. E frattanto, da Roma, giungevano al marchese proteste e minacce per la protezione data all'Aretino. Federico era diviso tra l'ambizíone di tenersi l'artista e la ragione politica, ma, naturalmente, questa prevalse e il 4 maggio del 1527 faceva scrivere dalla cancelleria al suo ambasciatore in Roma che, se al papa fosse piaciuto, " facesse pur secretamente un motto del voler suo... et se l'ha scapato le mani de altri non scaparà forsi le sue [cioè di Federico] et faria ben di modo che non se saperia ad instantia de chi fosse stato fatto ". Il 25 marzo, tuttavia, l'A. era andato senza far troppo chiasso a Venezia, per suo conto, lasciando a Mantova robe che contava certo di riprendere dopo un viaggio di breve durata e che, invece, abbandonò per sempre. Così l'A., fosse fiuto o fortuna, si sottrasse a tempo da quella che poteva diventargli, da un momento all'altro, una trappola mortale, malgrado i sorrisi e le profferte del marchese. Del quale si vuol pensare almeno che con quelle promesse di coperto omicidio intendesse tenere a bada la corte romana e che suggerisse magari egli stesso all'A. di cambiare aria. Certo è che per aUora e poi per diversi anni tra l'A. e Federico Gonzaga i rapporti rimasero ottimi, ma l'A. da Venezia non tornò mai a riprendersi i bei cavalli lasciati nelle stalle marchionali e anzi li donò, scherzando sulla inutilità delle cavalcature in una città acquatica come Venezia. Quivi, all'arrivo, aveva frattanto trovato ottima accoglienza, specie nell'ambiente artistico, in mezzo al quale strinse gli antichi legami d'arnicizia con Iacopo Sansovino e dove conobbe Tiziano, del quale anche divenne in breve amicissimo.
Nei primi tempi del soggiorno veneziano l'A. accarezzò il disegno di trasferirsi presso la corte di Francesco I ed anche più tardi annunciò progetti di trasferimento, seppure sempre con minor convinzione, ché - invece - ben presto dovette accorgersi che nessun rifugio più sicuro di Venezia e così splendidamente adatto aUe sue voglie, alle sue ambizioni ed al suo gusto di vivere avrebbe potuto trovare. Oltre all'impressione favorevolissima che gli fece la città (i bellissimi palazzi, il lusso dei tolleranti ed accorti aristocratici, la magnificenza dei mercanti, le donne, che qui certo gli piacquero assai, il fervore delle stamperie e dei circoli letterari), è da notare la facile naturalezza con la quale egli si unì ed amalgamò agli esponenti culturali e politici di quel mondo. Anzi è da sottolineare come evento di primaria importanza nella vita dell'A. l'aperta protezione che i responsabili maggiori della vita politica veneziana garantirono sin dal principio all'A.' a cominciare dal doge Andrea Gritti. Par chíaro, infatti, che tra quegli esponenti e l'A. dovettero correre impegni precisi di collaborazione politico-diplomatica, gli uni mettendo a favore dell'A. garanzie di protezione e magari utili strumenti d'informazione e di propaganda, l'altro, dal canto suo, una ben collaudata sagacia politica di informatore e di fiancheggiante propagandista di primissima qualità. Né è da dire quanto l'evento del Sacco di Roma, pronosticato e celebrato in anticipo dal fortunatissìrno Quinto Evangelista, giovasse alla sua fama di esperto delle cose politiche. Mentre i feroci tripudi vendicativi dell'A. correvano per l'Italia (specialmente nella forma della frottola pasquinesca Pax vobis brigata, che si dice facesse piangere di umiliazione e di furore Clemente VII chiuso in Castel S. Angelo), la fama di lui subiva un ulteriore e ben forte impulso; e quella stessa crescita di popolarità dovette influire sul calcolo dei Veneziani e sulle accoglienze da riservare al geniale uomo da poco giunto fra loro. E Venezia divenne, insomma, la patria d'elezione dell'A. che, a trentacinque anni si apprestava a dare un seguito tutto nuovo, e ben più fortunato e fecondo, al corso della propria esistenza. Malgrado gli impegni assunti col Gonzaga circa il poema celebrativo della casata di Mantova, curò al principio di dare seguito ed autorità maggiori alla propria vena di antiletterario e caustico banditore delle verità "politicodiplomatiche del momento, affidandosi al favore del pubblico per i suoi "avvisi " et pronostici " e allo sgomento e alle interessate blandizie dei signori d'Italia. Così, al primo ritratto che Tiziano gli fece poco dopo l'arrivo, e che egli mandò in dono al marchese di Mantova, aggiungeva un sonetto programmatico, che aveva tali versi: " Togli il lauro per te Cesare e Omero - Ch'imperator non son' non son poeta - E lo stil diemmi in sorte il mio pianeta - Per finger no, ma per predire il vero. - Son l'Aretin, censor del mondo altero - E de la verità nunzio e profeta ". Intenzioni ben soddisfatte dalla pratica, se nei primi tempi già affluiscono all'A. doni e denari da volontari protettori munifici, tra i quali, oltre al consueto Federico Gonzaga, sono Cesare Fregoso, monsignor Giovanni Gaddi, il marchese di Musso, il conte Guido Rangoni, il conte Massimiano Stampa, il marchese Bonifazio di Monferrato, il conte Manfredo di Collalto. Nel 1528 il Gonzaga, grato del pronostico di quell'anno, che gli fu favorevole, concesse all'A. di organizzare a Mantova una lotteria e l'A. ci guadagnò assai. Nel 1529, invece, ì rapporti con Mantova non furono più tanto buoni e il pronostico per l'anno assai sfavorevole.
Frattanto l'A. si organizzò con una certa larghezza e affittò da Domenico Bolani una bellissima casa, sita di fronte a Rialto, nel più degno lato ch'abbia il Canal Grande, all'angolo di Rio S. Giovanni, casa che fu presto detta "dell'Aretino", come il rio e la via che la fiancheggiava da un lato. Vi rimase per ventidue anni, felice dell'abitazione e convinto in cuor suo che le lodi ch'egli donava puntualmente al proprietario valessero almeno quanto la pigione che si guardava bene dal pagare. Finché il Bolani perse la pur grande pazienza e sfrattò, nel 1551, l'inquilino onorevole e poco redditizio, costringendo l'A. a spostarsi sulla riva del Carbone, non molto lontano, nella casa che gli affittò Leonardo Dandolo, dopo che l'A. ebbe persuaso il duca di Firenze a pagare per lui i 60 scudi di canone annuo.
Gli anni che seguirono da presso il 1529 videro il consolidamento dell'attività dell'A. e della sua ormai irrefutabile potenza. Nel 1530, dopo l'incoronazione a re d'Italia di Carlo V, salutata da un pronostico aretiniano favorevole, furono avviate - auspice il doge Gritti - trattative di pace tra Clemente VII e l'A., il quale vi si accomodò di buon grado, ansioso com'era di inserire nel gioco dei suoi interessi tutti i personaggi più autorevoli della politica contemporanea. Nello stesso anno, Arezzo invocava la protezione aretiniana dal pericolo che le truppe imperiali ne invadessero il territorio e l'A. riuscì a stornare dalla sua patria quel pericolo. Poco dopo gli giungeva formale invito dal duca Alessandro de' Medici di trasferirsi a Firenze: invito rifiutato fermamente dall'A. che veniva raccogliendo ottimi frutti dalla sua personale politica di equilibrio tra gli interessi mutevoli dei potenti. Ruppe nel 1531 col Gonzaga, né si sa perché, e gli rimasero, per così dire, invenduti i versi della Marfisa che era venuto componendo alla stracca in quegli anni, tanto più che il duca Alessandro rifiutò, da Firenze, un dirottamento del contenuto encomiastico verso casa Medici e solo il. vanaglorioso marchese del Vasto (in altra occasione poi crudelmente dileggiato dall'A. per un insuccesso militare) fu disposto ad accollarsi il finanziamento del disgraziato poema, che l'A. non condusse mai a termine e del quale pubblicò solo due isolati frammenti nel 1532.
Di pari passo con il crescere della fortuna politico-sociale, l'A. veniva sviluppando un vivace inserimento nella vita culturale e- letteraria; e colse ben volentieri l'invito del Bembo, nel 1531, ad intervenire per lui nella polemica sollevata da Antonio Brocardo intorno all'opera ed alle posizioni letterarie del Bembo stesso. Dopo il sonetto satirico dell'A., la polemica si inasprì, ma fu tosto interrotta dalla morte prematura del giovane letterato padovano, subito compianta in versi e in prosa anche dall'A., che pur non mancò, più tardi, di far rilevare al suo pubblico la micidialità dei propri interventi. Non c'era, veramente, mossa del caso che l'A. non sapesse volgere a proprio tornaconto. E intanto usciva, nel 1532, la redazione definitiva del Furioso e recava all'A. il prezioso dono di un riconoscimento da sbandierare in faccia a chiunque, là dove, posto in eletta compagnia di poeti, di lui era detto " ... il Flagello dei principi, il divin Pietro Aretino ". Poco dopo, un altro riconoscimento: il catenone d'oro inviatogli da Francesco I sul finire del 1533, che, oltre al valore di più che seicento scudi, aveva quello di un ulteriore atto di consacrazione dell'A. come personaggio primario del suo secolo. Quel dono sembra che valesse a farlo recedere dalla intenzione di abbandonare Venezia in un momento di sconforto creato da passeggere difficoltà finanziarie (la prodigalità dell'A. ebbe del leggendario ed egli bruciò sempre più denari di quanto non riuscissero a fornirlo i munifici protettori) ed anche da certi attacchi, che potrebbero definirsi contropasquineschi, partiti dal pubblico veneziano e fedelmente registrati dal Sanudo nei suoi Diari. Nel 1533 Luigi Gritti, figlio naturale del doge e ambasciatore a Costantinopoli del re d'Ungheria, aveva invitato l'A. a raggiungerlo promettendogli accoglienze di inaudito favore di cui elargiva qualche anticipazione con donativi che l'A. intascò volentieri, pur rifiutando l'invito; ne andava però menando gran vanto presso le corti d'Europa, oltre che d'Italia, dichiarando esser loro di vergogna il fatto che l'Aretino fosse costretto a dover pensare d'andare a procacciarsi il pane in Turchia per la loro avarizia.
Riprendeva, frattanto, un'attività letteraria meno casuale, ricollegandosi, al di là degli anni trascorsi e al di sopra della clamorosa e facinorosa produzione quotidiana da Quinto Evangelísta, all'esperienza di autore di commedie. Nel 1533 pubblicò il Marescalco. Nel 1534, che è l'anno della ripresa letteraria fondamentale, e può dirsi della " scelta "professionale che sconfessa il citato sonetto del 1527, l'A. pubblicò, in aprile, la prima parte dei Ragionamenti, cioè il Ragionamento della Nanna e dell'Antonia, fatto in Roma sotto una ficaia, composto dal divino Aretino per suo capriccio a correzione dei tre stati de le donne; e nel giugno La Passione di Gesù (anticipato frammento della Umanità di Cristo, più tardi compiuta); nell'agosto la Cortigiana, rifatta in più luoghi e sostanzialmente variata rispetto alla primitiva impostazione di immediato ritratto polemico, e nel novembre, infine, I sette Salmi de la penitenzia di David, con i quali trionfalmente si chiude quell'annata aretiniana. La quale vide, oltre alla conferma della sua vocazione di scrittore di commedie, l'invenzione di due moduli nuovi, e nella resa assolutamente originali, dell'attività dell'A.: il dialogo puttanesco, nato indubitabilmente (anche se la critica non l'ha finora riconosciuto) da precise intenzioni parodistiche (e di sforzato, esasperato parodismo, fino all'assurdo di un " maccaronico " in volgare) - dove l'oggetto della parodia è il dialogo platonizzante e petrarchistico, dagli Asolani in giù - e, d'altro canto, l'operetta devota, d'impostazione programmaticamente cattolica ed intesa ad un libero fiancheggiamento della politica antiluterana con l'adozione, in fondo, delle medesime armi, che - con ben altra applicazione spirituale - Lutero stesso si era trovato ad usare nel corso della sua battaglia: la divulgazione dei testi sacri. Anche se all'A. sfuggiva la profonda differenza, la diversità di obbiettivo morale e di intellettuale angolazione del proprio lavoro rispetto a quello che aveva elaborato, al di là delle Alpi, il capo della Riforma, pure la sua parafrasi narrativa, anche nella superficiale ottemperanza ad una istanza di semplice diffusione divulgativa, intendeva rispondere se non ad imperativi teologici, almeno alla esigenza di assorbire anche i testi chiesastici nell'ambito di quella conoscenza diretta e libera, che era orgoglio acquisito della cultura borgliese-rinascinientale. E i suoi libri di argomento sacro, pure rispondendo al gusto della narrazione ovvia, o scontata addirittura , quanto al soggetto (affascinante però, e fasto d'eloquenza, per novità d'immaginli in sé stesse attraenti e inattese, e disposte con pittorica eleganza ed evidenza), trovarono uno smercio e un successo dei quali è giunta agli studiosi moderni l'eco sicura, non spenta ancora da secoli di infastidita e preoccupata noncuranza.
I sette Salmi de la penitenzia di David consistono in una estrosa parafrasi dei biblici salmi penitenziali, i quali furono tradotti dall'A. in ogni versetto e poi arricchiti della sua prosa celebrativa ed immaginosamente estensiva. Fu questa l'opera sperimentale del nuovo stile sacro. Assai meglio riuscita, e più ricca di incisività artistica, la seguente Umanità di Cristo, in quattro libri, ove la vicenda di Gesù - fedelmente ripresa dai Vangeli - ènarrata con intensità di discorso e vivacità di effetti figurativi. Coi Genesi l'A. tornò alla Bibbia, e tentò di innestare sulla parafrasi del primo libro del Vecchio Testamento, in uno scorcio visionario e profetizzante, una scelta dei principali spunti narrativi contenuti nella Bibbia. La farraginosa riuscita di tale composizione non annega i risultati di alcuni momenti del racconto o dei grandeggianti affreschi aretiniani. La Vita di Maria Vergine riprese, di seguito, il filo della Umanità, indubbiamente più consentaneo alla fantasia dell'autore. A questa tennero dietro la Vita di Caterina vergine e martire e la Vita di s. Tommaso beato, per le quali l'A., in un più libero disegno di agiografia, consonante agli spiriti della cultura controriformistica, e nella maturazione di uno stile modernamente composito, si rifece alla tradizione iconografica ed a quella letteraria con più intensa e consapevole determinazione culturale. Quanto ai Ragionamenti, ai quali risale la fama dell'A. come scrittore osceno, essi consistono in una parodia del dialogo platonizzante già in grande voga nel primo Cinquecento, e particolarmente del dialogo sulle questioni d'amore. A quei codici d'un amore spiritualizzaio ed intellettualístico, vanente dalla realtà quotidiana e dal costume di una età assai propensa alla sregolatezza degli appetiti, l'A. oppone il più praticato codice della camalità, dell'amore "profano* ed esibisce un ritratto della società contemporanea che, nei limiti della sua particolare accentuazione erotica, nella esagerazione del punto di vista prescelto dall'autore (che è tuttavia " esagerazione " critica, cioè consapevole della propria misura parodistica e caricaturale), riesce a colpire nel segno e costituisce uno dei documenti capitali del Cinquecento; l'opera va posta in relazione non tanto con le astrazioni tecniche defl'erotismo e meno ancora con quelle della pomografia, quanto invece con la comprensione di una società e di un costume sorpresi in un punto essenziale del proprio essere storico; costretti per così dire, ridendo, alla confessione della propria precaria consistenza nel gioco della doppia verità. Solo che nella trama di questo gioco l'A. spesso si perde e i Ragionamenti non sono un capolavoro. L'opera è divisa in due " parti ". La prima di esse, ripartita a sua volta in tre giomate, èoccupata dalla esposizione che la Nanna (già donna di piacere ed ora esperta e sollecita madre della Pippa) elargisce alla comare Antonia, a Roma, " sotto una ficaia " dei suo giardino, riguardo alle esperienze raccolte in merito alla vita delle donne nei tre " stati * di monache, maritate e prostitute. Si tratta di scegliere quale stato sia più conveniente per la giovane Pippa, e si conviene alla fine che, rebus sic stantibus la carriera di cortigiana è la più sicura e - in fondo - la più onesta. Nella seconda parte, divisa anch'essa in tre giomate, la Nanna insegna alla Pippa, nel corso della prima, il mestiere e gli accorgimenti della perfetta cortigiana; nel corso della seconda le espone i rischi della professione ed in particolare i tradimenti " che fanno gli uomini alle meschine che gli credono"; durante la terza, poi, le due donne ascoltano la Comare e la Balia le quali ragionano dell'arte della mezzanla.
Ai Ragionamenti va aggiunto tradizionalmente (per quanto non sempre sia stata accettata l'attribuzione all'A.) il Piacevole ragionamento dello Zoppino fatto frate, Lodovico puttaniere, dove contenesi la vita e la genealogia di tutte le cortigiane di Roma, l'argomento del quale è ben dichiarato dal titolo e rimanda ad una attività satirico-scandalistica che nell'A. del periodo romano trova un esponente di assoluto rilievo. A parte quest'ultima opera, ai Ragionamenti si ricollegano per la prosecuzione del disegno parodistico e per il bozzettismo della trattazione (ma se ne distaccano, per una più complessa trama saggistica ed uno stile più maturo) i due dialoghi Delle Corti e quello detto Delle Carte parlanti, cioè il Dialogo del Divino, Pietro Aretino nel quale si parla del gioco con moralità piacevole. Il primo è uno sfogo (artisticamente filtrato dalla esperienza veneziana) del residuo anticortigianesco dell'A., con il sottinteso tema della libertà o piuttosto della " disponibilità " individuale. Nel secondo il sarcasmo dell'A. raggiunge intenzionalmente ogni strato sociale e nel far parlare le carte da giuoco realizza una satira delle illusioni e delle debolezze umane che ottiene una forte durata artistica, sempre rimanendo sul terreno della n-úmetica accoglienza delle movenze tipiche della società contemporanea.
Nel 1534 moriva Clemente VII e saliva al soglio pontificio Paolo III (Alessandro Farnese). Il tentativo di accaparrarsi l'animo del nuovo papa non andò disgiunto da un nuovo scontro con il Giberti, ma la polemica per quanto violenta non poteva più incidere sul corso della carriera dell'Aretino. Si avvicinava, invece, il momento di una scelta fondamentale, di carattere - vorremmo dire - non meno politico che culturale. Il 1535 non vide grandi fatti esteriori nella vita aretiniana, ove sian tolti il rinnovato rifiuto ad installarsi presso Alessandro de' Medici e la prima edizione dell'Umanità di Cristo, ma fervevano in Europa eventi decisivi, seguiti con intensa partecipazione dall'osservatorio veneziano dell'Aretino. Nel 1536 scoppiò la terza guerra tra Francesco I e Carlo V, e l'A. era ancora incerto tra i due, anche perché alle forti promesse del re francese andava unita, a favore di questo, una simpatia umana, una partecipazione antica dello spirito aretiniano che non possono essere sottovalutate, posto che anche più tardi l'A. mostrò schietta simpatia per il cavalleresco e avventuroso signore dei destini francesi. Le ragioni politiche erano tutte a favore, comunque, di Carlo V, che faceva sentire il suo imperio, la sua maggior prestanza di sovrano ed il suo interesse politico anche a suon di scudi pagati in anticipo, fissando ricche pensioni e donativi cospicui in favore dell'Aretino. Tra il marzo e il giugno questi ponderò la scelta, finché si risolvette decisamente per la parte imperiale. Con questa determinazione si compiva un'altra grande svolta nella vita dell'A., il quale, anche in conseguenza dei grossi impegni politici sottoscritti in tal modo di fronte al pubblico europeo, sentiva crescere la necessità di ulteriori acquisti di prestigio intellettuale. E certo fu questo un momento delicato per l'A., che da un lato avvertiva l'insufficienza della propria produzione letteraria e se ne faceva egli stesso critico più acerbo del dovuto, in altra direzione assumeva impegni politici definitivi e squilibranti il vecchio asse diplomatico sul quale si era appoggiato fino allora, mentre "li nasceva in cuore", a quarantaquattro anni ben suonati, una passione delicata e violenta per la fragile e pur accesa moglie d'un suo " creato ", Polo Bartolino, la Pierina Riccia, che gli si era insediata in casa sul finire dell'anno.
Quanto alla crisi letteraria, per violenta che fosse, si risolse presto nella invenzione, geniale sotto ogni punto di vista, di una elaborata scelta di lettere, in parte raccolte tra vecchie minute debitamente corrette, in parte scritte appositamente, che avrebbe divulgato una libera, persuasiva immagine della vita contemporanea filtrata dall'estro e dalle mille relazioni dello scrittore. Fu, questa delle Lettere, l'invenzione sua più autentica, la scoperta stilistica e culturale più completa ch'egli seppe trarre dall'esperienza di sé e del suo tempo. Onde, avendo toccato col Libro 1 (1537) l'apogeo della propria fortuna letteraria, dette seguito all'impresa con altri cinque libri di lettere (pubblicati rispettivamente nel 1542, 1546, 1550, ancora nel 1550 e l'ultimo, postumo, nel 1557), più altri due di Lettere a P. A., dati alle stampe nel 1551. Così, del resto, sviluppando fino all'esaurimento della vena il modulo che aveva incontrato fortuna, si era condotto con i generi, o meglio le " serie " essenziali della propria produzione, ed ai Ragionamenti del 1534 aveva fatto seguire nel 1536 la Seconda Parte dei Ragionamenti, nel 1538 i Ragionamenti de le corti, nel 1539 la Terza parte dei Ragionamenti e nel 1543 il dialogo delle Carte parlanti, mentre ai Sette Salmi de la penitenzia di David aveva dato seguito, nel 1535 con l'Umanità di Cristo, nel 1538 con Il Genesi, nel 1539 con la Vita di Maria Vergine, nel 1540 con la Vita di Caterina vergine e martire e nel 1543 con la Vita di s. Tommaso beato.
Quanto alla serie teatrale, al Marescalco, del 1533, tennero dietro nel 1534 la Cortigiana rifatta, l'Ipocrito e la Talanta nel 1542, il Filosofo nel 1546 e, nello stesso anno, la tragedia Orazia.
Dalla commedia Lo Ipocrito in poi deve notarsi, nella produzione teatrale dell'A., un progressivo riavvicinamento a quelle regole e consuetudini tradizionali del teatro comico che egli aveva progranunaticamente dileggiate nelle prime due commedie. Ipocrito è il personaggio sornione ed abile che dietro una apparenza di irreprensibilità, di sollecitudine generosa e di carità tutta spirituale, opera in modo da rendersi indispensabile, guadagnando pranzi e denari. Egli è posto al centro di una trama di amori contrastati dove il vecchio Liseo, le sue belle cinque figliole ed i loro vari spasimanti sono sottoposti all'altemo ed eterno gioco comico degli scambi di persona, degli equivoci e dei finali aggiustamenti matrimoniali. Resta vivo in questa commedia il tipo dell'ipocrita, il personaggio centrale che offre il titolo al lavoro. Nel Filosofo si intrecciano due temi. Il primo riguarda le disavventure coniugali del filosofante messer Plataristotile, descritto con magistrale arguzia, la cui moglie, Tessa, trascurata tanto quanto vogliosa e bella, si consola della freddezza maritale col giovane Polidoro. I sospetti dell'allarmato filosofo non riescono a concretarsi in prove soddisfacenti a causa dell'astuzia di Tessa, ma se gli è impedita una azione violenta e riparatrice, Plataristotile ricava dall'avventura il sano proposito di dedicarsi alla moglie con più fervore del passato. Il secondo motivo, che s'intreccia al primo e ne sospende e varia l'azione, altro non è che una brillante riduzione scenica della famosa novella boccaccesca di Andreuccio da Perugia. Nella Talanta l'A. narra, rifacendosi agli schemi della commedia latina, le avventure di una bella cortigiana "che spartisce accortamente i propri favori tra quattro spasimanti: Orfinio, giovane, ardente e veramente innamorato; il capitano Tinca (sorta di Pirgopolinice dei Miles gloriosus); un vecchio veneziano vizioso ed avaro ed un romano, Amuleo, che si finge innamorato solo per poter frequentare la casa di Talanta. Il capitano ed il veneziano donano alla donna il primo uno schiavo saracino e l'altro una schiava', ma lo schiavo è in realtà una donzella travestita e la schiava un travestito garzone, che sotto vesti femminili viveva presso il capitano per amoreggiare con la figliola di lui. Nel vario succedersi dei nuovi casi, nella confusione che segue alla scoperta dei due schiavi di essere fratello e sorella, ed alla loro fuga, le passioni sono vagliate e setacciate, i caratteri dei personaggi dinamizzati e sorpresi nella loro verità. Tutto si chiude con la vittoria di Offinio sugli altri pretendenti e la restituzione d'ognuno alla pace e felicità. L'Orazia, infìne, si presenta come il caso estremo del progressivo accrescimento di cura e di letteraria vigilanza dell'Aretino. Sulla traccia del racconto liviano, l'autore realizzò la tragedia della orazia Clelia innamorata di uno dei Curiazi e perciò lacerata tra gli affetti familiari e di patria e la passione amorosa. Così' dopo la lotta dei campioni di Alba e di Roma, durante il trionfo del fratello superstite, ella manifesta tutto il suo dolore quando vede e riconosce tra le spoglie dei vinti una veste da lei stessa tessuta per l'amato. E quel dolore offende il fratello, l'Orazio vincitore, fino a spingerlo ad uccidere la fanciufla, con l'approvazione del fiero padre, il vecchio Publio. Un dibattito sul gesto omicida, la assoluzione dell'Orazio condizionata ad un atto d'umiliazione chiudono la tragedia. Essa, nel contrasto dei sentimenti di Clelia e d'Orazio, nella difesa impetuosa dei diritti dell'amore di fronte ai ferrei sentimenti civili della patria e dello Stato, rappresenta uno dei punti d'arrivo più notevoli dell'arte aretiniana.
Né questa produzione, mantenuta simultaneamente su diversi registri ed evidentemente concentrata per la quasi totalità entro il quindicennio 1535-50, esaurì l'attività aretiniana, ché anzi, insieme a tali serie maggiori, per così dire, e comunque di più forte impegno, lo scrittore impiegò penna ed ingegno in una quantità di altri interventi in rima e in prosa. La pubblicazione dei due canti Delle lagrinze di Angelica nel 1538 (ch'era un brano della sfortunata Maifisa), la ripresa burlesca dell'Orlandino (1540) e della più tarda Astolfeida, gli Strambottì alla víllanesca farneticati da la quartana (1544), i sei capitoli burleschi ed i sei non satirici dedicati ai signori del tempo, le Stanze in loda de la Sirena (1537) ed una continua produzione libellistica, polemica e di sonetti, madrigali, canzoni e pasquinate, frammentariamente pervenutaci, testimoniano nel complesso di un'attività instancabile, la quale nella stessa abbondanza e varietà denuncia, del resto, il limite di un esibizionismo velleitario e stordente.
Nel 1537, mentre gli entrava in casa la Pierina Riccia, l'animo dell'A. si apriva alla gioia schietta e clamorosa della prima paternità, essendogli nata allora, dall'amante Caterina Sandella, la prima figliola, cui impose il nome di Adria, per gratitudine a Venezia. Sono note le dimostrazioni di affetto, le trepidazioni e gli slanci paterni dell'A., riguardati a lungo come curiosa anomalia morale di quel mostro di cinismo vizioso che la tradizione voleva riconoscere ad ogni costo nel nostro scrittore. E cinico e vizioso fu certamente l'A. nel ridurre a sistema di vita e a sfruttare senza esitazioni di sorta i caratteri più equivoci e precari del costume e della ben fragile moralità pubblica contemporanea. Ma è da considerare, chi almeno voglia non scioccamente scusarlo, bensì comprenderlo, come la sua sfrontatezza ricattatoria, la sua maldicenza e il suo cinismo investissero proprio la zona esteriore dei rapporti sociali, la sfera del vivere pubblico e come il suo fosse, insomma, un cinismo d'acquisto, strumentale, che non aveva riscontro effettivo nel comportamento " privato ", negli impulsi spontanei del suo carattere gioviale e affettuoso. Adria crebbe in casa dell'A., circondata di ottime cure, e andò sposa, giovanissima, nel 1549, a un ricco bergamasco, Diotallevi Rota, che risiedeva ad Urbino, dove condusse la moglie. L'A. ebbe altre due figlie, l'una delle quali morta infante e l'altra, nata non si sa da quale delle sue donne, nel 1547, ebbe nome Austria in onore del maggiore protettore del padre, Carlo V. Austria visse col padre fino alla morte di lui e poi, forse, entrò in monastero. L'accennato amore per la Pierina Riccia sconvolse morbosamente la vita intima dell'A., che subì i capricci, i tradimenti e le ripulse della giovane do a tra gli alti e i bassi di un'avventura che durò fino al 1545, quando la Pierina stessa morì tisica. Altre avventure, dei resto, si erano intrecciate a quella più complessa, e vuol essere ricordato, anche per l'esito letterario delle Stanze in loda de la, Sirena, il vagheggiamento, tra platonico e no, per una Angela Sirena Sarra, che era pur essa moglie di un protetto dell'A. e che morì anch'essa giovane, nel 1540. Senza indugiare in rievocazioni pittoresche della vita e dell'ambiente quotidiani dell'A., bisogna pur ricordare ch'egli menava un'esistenza liberissima, fastosa, aperta all'ospitalità più spettacolare che si potesse mai immaginare. Le sue donne avevan funzioni di govemanti, serventi e concubine, senza colore alcuno di schiavitù, del resto, ché era generalmente invidiata la condizione delle "aretine" e di tutta la tribù o piccola corte di servi, aiutanti e collaboratori dei quali l'A. si circondava. Luogo di ritrovo abituale e prediletto degli amici artisti e letterati d'ogni grado, dal Bembo al Tiziano, la casa dell'A. era famosa in Europa e oggetto di visite continue, quasi di un peuegrinaggio, nel quale l'A. scorgeva accortamente un affare vantaggiosissimo, malgrado le spese di quello sfarzo ospitale. E tra i collaboratori aveva accolto, fin dal 1536, il giovane beneventano Nicolò Franco, col quale presto si guastò (per improntitudine e poca fedeltà del bizzarro protetto,) cacciandolo di casa prima della fine del 1538 e ricavandone una inimicizia implacabile che il Franco sfogò in versi e prose di ossessiva violenza. Più tardi accadrà la stessa cosa con A.F. Doni, che fu intimo ed amicissimo dell'A. fin dal primo suo giungere a Venezia (1547) e poi, negli ultimi due anni di vita dell'A., gli si rivelò velenosamente ostile, contribuendo fortemente col suo Terremoto, insieme alle rime del Franco ed a quelle del Berni, a stabilire gli estremi della tradizione antiaretiniana più autorevole e tenace. Erano, del resto, gli incerti di una esistenza avventurosa, fortunata e vissuta senza scrupoli. Sembrò, nel '38, che la protezione veneziana subisse un'alterazione grave perché all'A., nella primavera di quell'anno, fu intentato un processo di bestemmia e, pare, anche di sodomia. Le circostanze del processo non ci sono note, ma è certo che l'A. dovette, per poco tempo, allontanarsi da Venezia, recandosi nelle vicine Gambarare, di dove tornò dopo che Francesco Maria della Rovere ebbe messo a tacere ogni cosa. Incidenti, tutto sommato, di poco conto, ché era quello il periodo di maggior potenza dell'A. e di maggiore incidenza della sua varia attività sul costume e sulla vita intellettuale contemporanea.
Nel 1541 riprese contatti assai vivi con la corte di Francesco I, ma senza impegni politici. Durante la quarta guerra tra il re di Francia e Carlo V toccò all'A. di vedersi fatto segno di onori inauditi dall'imperatore in persona, il quale, nel luglio del 1543, avendolo incontrato presso Peschiera, in mezzo al seguito del duca Guidobaldo d'Urbino, riconosciutolo da lontano, spronò il cavallo per corrergli incontro e lo volle con sé, solo, cavalcando per parecchie miglia e conversando con lui dopo che gli ebbe ceduto la destra. Tali segni di favore coronavano ben fastosamente l'ingegnosa audacia del figlio di Luca calzolaio, che si era inserito come potenza autonoma nell'aspro gioco delle potenze contemporanee; ma tuttavia è da notare che il riconoscimento ufficiale della funzione e della dignità dell'opera aretiniana contribuiva a snaturare la sua vecchia protervia critica. Comincia ormai l'età tridentina.; tutto - intorno all'A. - sta mutando assetto e placandosi rispetto agli empiti dell'età precedente. L'A. è reso dalle stesse raccomandazioni di Carlo V ai signori veneziani - che badassero a lui come se avessero in custodia le imperiali pupille - un monumento, e tutti cominciano a provare per lui più rispetto formale che il vecchio autentico tremore. Anche l'attività letteraria veniva risentendo - del resto - della mutata atmosfera e basti pensare all'andamento più "regolare" delle ultime commedie aretiniane e all'impostazione tecnica e morale della pur bella tragedia Orazia. È tuttavia, l'A. un monumento sui generis, tutt'altro che languido e muto. Seguita ad esercitare la sua esazione di pensioni e gratifiche con immutata energia, riprende nel 1545 l'attività pasquinesca ai danni di Paolo III, grandeggia a Venezia, personaggio insostituibile, impone la propria vitalità e la propria presenza ad amici e nemici, ai lontani non meno che ai vicini. Nel 1547 ebbe un incidente con l'ambasciatore inglese Harowell, ch'egli accusò pubblicamente di essere la causa prima della mancata remunerazione da parte di Enrico VIII per la dedica del secondo libro delle Lettere. L'A. non mancò, anzi, di far capire che lo Harowell si era forse appropriato dei denari e questi rispose facendolo aggredire nottetempo da sei uomini che lo bastonarono. Nondovette aver danni gravi l'A., se pochi giorni dopo i due contendenti si scambiarono pace e scuse; e la bastonatura fu forse più simbolica che sostanziale. Non molti i casi eminenti o significativi degli ultimi anni dell'Aretino. Godeva degli onori che riscuoteva (notevoli, nel 1550, il conferimento dei titolo di gonfaloniere da parte di Arezzo e l'accettazione del cavalierato di S. Pietro conferitogli da Giulio III) e, mentre eurava ristampe delle proprie opere, organizzava gli ultimi libri dell'epistolario. Nel 1553 un viaggio a Roma (stranissimo in lui che, quando si mosse soltanto fino a Peschiera, smaniò di nostalgia per Venezia dopo solo un giorno di lontananza), fatto in compagnia del duca Guidobaldo d'Urbino, fu determinato dalla speranza, non del tutto assurda, di ottenere il cappello cardinalizio da Giulio III. Partito nel maggio, in agosto era di nuovo a Venezia, senza galero tuttavia. Nel 1555 ebbe a subire le noie derivanti dalla ostilità del Doni e dagli attacchi di un ultimo protetto-traditore, una mezza figura di spia del duca Cosimo de' Medici, tal Medoro Nucci, aretino, che gli rinfacciò, preziosamente per noi che ne ricaviamo informazioni sicure, la discendenza dal calzolaio Luca, discendenza che l'A. non amava e che fino a quel momento aveva tenuto celata. Il 1556 è l'anno dellasua morte.
Il pievano di S. Luca a Venezia testimoniò' alquanti anni più tardi (21 sett. 1581), che l'A. si era voluto confessare, senza pericolo imminente, il giovedì santo del 1556 e che "si confessò e pigliò la santissima Comunione, piangendo estremamente". Pochi mesi più tardi, un infarto ("una cannonata d'apoplexia" riferiva l'oratore di Firenze al duca Cosimo) lo rovesciava sulla sua "cadrega d'apozo" (testimoniava il pievano di S. Luca) e lo stendeva morto sull'impiantito, la sera di mercoledì del 21 ottobre di quell'anno. Gli furono fatti solenni funerali durante i quali il bel catenone di Francesco I, che sempre aveva portato al collo, fu dispensato ai poveri. Fu sepolto, come attestò il pievano, in S. Luca "in un sepolcro novo, vicino alli gradi della sagrestia", dove più tardi trovarono posto anche i suoi amici Ruscelli e Dolce, come risulta da quel che scrisse Francesco Sansovino, nel 1568, a proposito della sepoltura del Dolce: "fu seppellito in S. Luca di Venezia nel medesimo sepolcro dove fu prima posto Pietro Aretino et Jeronimo Ruscelli, acciocché sì come la volontà gli aveva fatti, vivendo, tutti tre amici, fussero, così, morti, perpetui compagni". Alla fine del secolo, Lorenzo Schrader poteva copiare di quel sepolcro l'epitafflo che ancora vi si leggeva: "D'infima stirpe a tanta altezza - venne Pietro Aretin biasmando il vizio immondo - Che da color che tributava il mondo - Per temenza di lui tributo ottenne". Più tardi il sepolcro andò distrutto e si perse ogni traccia dei resti dell'Aretino.
Edizioni: La situazione editoriale dell'opera aretin ana è tuttora precaria e lacunosa. Salvo alcune eccezioni relative a moderne ristampe parziali e scelte antologiche condotte con criteri di scientifica serietà, la massima parte della produzione dell'A. resta affidata a imprese di carattere divulgativo o relegata alle stampe antiche, spesso assai malfide e per lo più difficilmente reperibili.
Dell'Opera Nova del fecundissimo giovene Pietro pictore Arretino esiste soltanto l'edizione fatta presso Nicolò Zoppino a Venezia, nel 1512. Le cosidette Pasquinate del Conclave furono pubblicate per la prima volta da V. Rossi col titolo Pasquinate di P.A. ed anonime per il conclave di Adriano VI, Palermo-Torino 1891. Sebbene siano state ristampate da G. Sborselli nella sua raccolta di Poesie di P.A., Lanciano 1929-30, l'edizione del Rossi è da preferire per l'abbondanza e l'accuratezza delle note che l'arricchiscono. I cosidetti Sonetti lussuriosi non hanno a tutt'oggi una edizione degna di tal nome. Il settecentesco Libro del Perché li conserva contaminati e confusi insieme ad una varia produzione pornografica che all'A. è attribuita per comodità di fama, ma che non gli compete affatto. Una stampa italiana del 1889 ("In Pafo... pei tipi Adonei, con licenza di Venere") non offre migliori garanzie. Tralasciando le pur interessanti edizioni e traduzioni in francese e in tedesco, ricorderemo che G.M. Mazzuchelli nella sua fondamentale Vita di P.A., Brescia 1763, ricordava una edizione s.I.n.d., ma presumibilmente del 1660 ed un'altra fatta a Venezia presso il Giolito nel 1556, ma non si conosce né l'una né l'altra.
Dei "pronostici" dell'A. rimangono soltanto un frammento di quello redatto per il 1527 e quello per il 1534. Furono pubblicati ambedue da A. Luzio: il primo nel volume intitolato P.A. nei suoi primi anni a Venezia e la corte dei Gonzaga, Torino 1888; l'altro in Un pronostico satirico di P.A., Bergamo 1900.
I due frammenti del poema cavalleresco progettato a Venezia e poi rifiutato dall'A. si possono leggere nella citata raccolta di poesie aretiniane curata da G. Sborselli. Tale raccolta in due volumi comprende, oltre ai ricordati Sonetti del Conclave, i sei Capitoli ai Signori, l'Orlandino, l'Astolfeida ed una scelta di pasquinate estravaganti (nel I vol.); La Marfisa, L'Angelica, le Stanze in loda de la Sirena, cinque Ternari encomiastici, i sonetti contenuti nelle Lettere ed altre rime di vario argomento (nel II vol.). La raccolta non esaurisce la produzione in versi dell'A. ma la, rappresenta con utile larghezza.
Le opere di argomento religioso, ove si tralasci la esigua e malcerta scelta che ne tentò E. Allodoli in Prose sacre di P.A., Lanciano 1914, ed una ristampa senza nome di curatore della Umanità di Cristo (Roma 1945), vanno tuttora ricercate nelle stampe antiche. Particolarmente autorevole tra queste, ma molto rara, l'edizione aldina curata dall'A., la quale raccoglie le sei opere in due volumi. Ne diamo indicazione a preferenza delle precedenti separate edizioni cinquecentesche e delle assai meno rare, ma infide, ristampe seicentesche: Al beatissimo Giulio III papa com'il II ammirando; il GENESI, l'HUMANITÀ DI CHRISTO e i SALMI-Opere di M. Pietro Aretino...In Vinegia nel l'anno MDLI. In casa de' figliuoli d'Aldo. - A la somma bontà di Giulio III al par del II invittiss. La VITA DI MARIA VERGINE di CATERINA SANTA et di TOMASO AQUINATE BEATO. Compositioni di M. Pietro Aretino...In Vinegia nel MDLII, In casa de' figliuoli d'Aldo.
Più volte ristampato, il teatro aretiniano è anch'esso in attesa di un'edizione modernamente accurata. Tra le varie imprese resta consigliabile la raccolta delle cinque commedie e della tragedia Orazia che effettuò N. Macarrone in Teatro di P.A., 3 voll., Lanciano 1914. Quello che si è detto del teatro vale per i Ragionamenti, che si possono leggere nella ristampa curata da D. Carraroli, I Ragionamenti di P.A., 2 voll., Lanciano 1911. Il Ragionamento delle Corti fu ristampato nel 1914 a cura di G. Battelli presso il solito e benemerito editore Carabba di Lanciano, presso il quale anche apparve nel medesimo anno, a cura di F. Ciampi, il dialogo delle Carte parlanti.
Delle Lettere il "Primo" ed il "Secondo libro" ebbero moderne cure filologiche da F. Nicolini (Il Primo libro delle Lettere, Bari 1913 e Il secondo libro delle Lettere, Bari 1916) e più recentemente da F. Flora e A. Del Vita in Lettere, il primo e il secondo libro, Milano 1960 . Una ampia scelta delle lettere di argomento artistico è stata allestita da F. Pertile ed E. Camesasca in Lettere sull'arte di P.A., 3 voll., Milano 1960 . Per il resto del grande epistolario aretiniano è necessario ricorrere alle edizioni antiche e fra queste alla unica completa, in sei volumi, che è stata stampata a Parigi nel 1609.
Una scelta di lettere indirizzate da contemporanei più illustri all'A. fu curata dall'interessato destinatario. Ne esiste una buona ristampa modema, curata da T. Landoni: Lettere scritte a P.A., Bologna 1873-75.
Tra le antologie dell'opera aretiniana di notevole interesse critico vanno infine ricordate: Le più belle pagine di P.A., a cura di M. Bontempelli, Milano 1923; I piacevoli e capricciosi ragionamenti, a cura di A. Piccone-Stella, Milano 1943; la scelta di Lettere, a cura di S. Ortolani, Torino 1945 ed infine la antologia Scritti scelti di P.A. e di A.F. Doni, a cura di G. G. Ferrero, Torino 1951.
Bibl.: Per indicazioni che ragguaglino delle fonti e della produzione critica antica e moderna si possono consultare le ricche note bibliografiche di G. Petrocchi, P. A. tra Rinascimento e Controriforma, Milano 1948, pp. 343-380, e di F. Pertile ed E. Camesasca in Lettere sull'arte di P. A., III, 2, Milano 1960, pp. 539-570; Per la storia della critica G. Innamorati, Tradizione e invenzione in P. A., Messina-Firenze 1957, pp. 7-89. Per la biografia aretiniana, partendo dalla classica e fondamentale monografia mazzuchelliana e tenendo presente che le ricerche di carattere biografico sono intrecciate ad indagini di altro genere, segnaliamo: G. M. Mazzuchelli, La vita di P. A., Brescia 1763; Ph. Chasies, Etudes sur W. Shakespeare, M. Stuart et l'Aretin, Paris 1851; G. Gaye, Carteggio inedito d'artisti dei secoli XIV, XV, e XVI, II, Firenze 1839-40, passim; S.Casali, Gli annali della tipografia veneziana di Francesco Marcolini, Forlì 1861 (n. ediz. a cura di A. Gerace, Bologna 1953); S. Bongi, Vita del Doni, in A. F. Doni, Marmi, Firenze 1863, pp. LLIV; A. Baschet, Documents inédits tirés des archives de Mantoue concernant la personne de messer P. A., in Arch. stor. ital., s. 3, III (1866), pp. 105-130; A. Luzio, L'Orlandino di P. A., in Giorn. di filologia romanza, VI(1880 ), pp. 68-84; F. Virgili, Francesco Berni, Firenze 1881, pp. 110-119 e passim; G. Sinigaglia, Saggio di uno studio su P.A., Roma 1882 (rec. da A. Luzio in Giorn. stor. d. letter. ital., I[1883], pp. 330-37); A. Luzio, La famiglia di P.A., in Giorn. stor. d. letter. ital., IV (1884), pp. 361-388; E. Panzacchi, P. A. innamorato, in Nuova Antologia, s. 2, LIII (1885), pp. 409-425; E. Sicardi, L'autore dell'antica "Vita di P. A.", in Misceli. nuziale Rossi-Teis, Bergamo 1887, pp. 295-314; A. Luzio, L'A. nei suoi primi anni a Venezia e la corte dei Gonzaga, Torino 1888; S. Bongi, L'ultimo libro dell'A., in Arch. stor. itat., s. 4, XXI (1888), pp. 3-11; G. Lumbroso, I maestri di zecca di P.A., in Memorie italiane del buon tempo antico, Torino 1889, pp. 129-142; L. Morandi, Pasquino e pasquinate, in Nuova Antologia, s. 3, XIX (1889), pp. 271-300; S. Bongi, Annali di Gabriel Giolito de' Ferrari, Roma 1890 -95, passim; A. Luzio, P. A. e Pasquino, in Nuova Antologia, s. 3, XXVIII (1890 ), pp. 679-708; V. Rossi, Pasquinate di P. A. ed anonime per il conclave di Adriano VI, Torino-Palermo 1891 (rec. da A. Luzio in Giorn. stor. d. letter. ital., XIX[1892], pp. 80-102, e da D. Gnoli, ibid., XXII [1893], pp. 262-267); G. Sanesi, Un libello e una pasquinata di P. A., in Giorn. stor. d. letter. ital., XXVI (1895), pp. 176-88; G. Tassini, Delle abitazioni in Venezia di P. A., in Arch. veneto di scienze, lettere ed arti (1896), pp. 205-208; Id., Di Angela Serena Sarra amata da P. A., ibid., pp. 208-211; A. Luzio, L'A. e il Franco, in Giorn. stor. d. lett. ital., XXIX(1897), pp. 229-283; Id., Un Pronostico satirico di P. A., Bergamo 1900; C. Bertani.. P. A. e le sue opere secondo nuove indagini, Sondrio 1901 ; A. Salza, Le commedie del secolo XVI, in Giorn. stor. d. lett. ital., XI, (1902), pp. 397-439; E. Levi, Dell'unica e rarissima edizione degli strambotti alla villanesca di P. A., Firenze 1903; A. Salza, Pasquiniana [e rassegna di vari studi aretiniani], in Giorn. stor. d. lett. ital., XLIII (1904), pp. 88-116 e 193-198; L. Venturi, P. A. e G. Vasari, Parigi 1924; A. Mambelli, F. Marcolini e P. A., in Forum Livii, V (1930), pp. 121-130; A. Del Vita, Note su un nemico minore di P. A., in Il Vasari, VI (1933-34), pp. 936-961; Id., Notizie e documenti su P. A., ibid., IX(1936-37), pp. 140-152; Id., L'A. Le cause della sua potenza e della sua fortuna, Arezzo 1939; T. C. Chubb, A., scourge of Princes, New York 1940.
Fuori della indagine biografica sia specifica sia occasionale restano diversi saggi assai importanti per lo studio della personalità aretiniana e del suo storico significato; tra questi sono da segnalare: A. Graf, Un Processo a P. A., in Attraverso il Cinquecento, Torino 1888, pp. 89-167; K. Vossler, Pietro Aretino's Künstlerisches Bekenntnis, in Neue Heidelberger Yahrbücher, IX(1900), pp. 38-65; S. Ruju, Le tendenze estetiche di P. A., Sassari 1909; G. Apollinaire, L'A., Les Ragionamenti, Paris 1912; B. Croce, La "commedia" del Rinascimento, in Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1946, pp. 251-263; L. Tonelli, L'amore nella Poesia e nel Pensiero del Rinascimento, Firenze 1933, pp. 187 s.; A. Del Vita, L'originalità letteraria di P. A., in Il Vasari, IX(1936-37), pp. 19-22; P. Pancrazi, L'A. in casa sua, in Il giardino di Candido, Firenze 1950, pp. 93-98; M. Bontempelli, Verga, l'A., Scarlatti e Verdi, Milano 1941; B. Croce, Libri sulle corti, in Poeti del pieno e del tardo Rinascimento, II, Bari 1945, pp. 199-201; L. Fontana, Indole e lingua di P. A., in Lingua nostra, VIII(1947), pp. 19-23; G. Innamorati, Tradizione e invenzione in P.A., Messina-Firenze 1957; G. Weise, Manierismus und frühbarocke Elemente in den religiösen Schriften des P.A., in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XIX(1957), pp. 170-194.
Particolarmente sul teatro, che rimane l'aspetto più studiato della produzione aretiniana, sono da ricordare infine: A. Graf, Tre commedie italiane del Cinquecento, in Studi drammatici, Torino 1878, pp. 184 s., 189 s.; O. Ferrini, L'"Orazia" tragedia di P. A., in Primi saggi sul Cinquecento, Perugia 1885, pp. 39-62; V. De Amicis, L'imitazione latina nella Commedia italiana del XVI secolo, Firenze 1897; E. Perito, La Talanta di P. A., Girgenti 1899; D. Grasso, L'A. e le sue commedie, Palermo 1900; U. Fresco, Le commedie di P. A., Camerino 1901; T. Parodi, Le commedie di P.A., in Poesia e letteratura, Bari 1916, pp. 137-164; M. Baratto, Commedie di P. A., in Belfagor, XII(1957), pp. 361-402, 506-539.