RIPARI, Pietro Antonio
– Nacque a Solarolo Rainerio il 18 luglio 1802, secondogenito di Giovanna Ronchi e di Lodovico, piccolo proprietario terriero.
Ebbe per fratelli Giuseppe (1801), Gaetano (1805), entrambi possidenti, e – se è da credere l’unica traccia esistente sul minore, nell’epistolario di Giuseppe Mazzini (SEI, LXI, Imola 1932, pp. 124-126) – l’assai più giovane Fabio, che Mazzini accolse a Londra negli anni Cinquanta, curandone la formazione e collocandolo come istitutore, morto nel 1860.
Dopo gli studi liceali a Cremona, Pietro si iscrisse nel 1821 all’università di Pavia: completata la formazione chirurgica si trasferì a Padova e nel 1827 si laureò in terapia medica. Versato soprattutto nella clinica, nel 1830 ottenne l’impiego di medico secondario all’Ospedale Maggiore di Cremona. Ma già l’anno seguente comportamenti tacciati d’insubordinazione lo costrinsero alle dimissioni. Per un quindicennio esercitò la meno prestigiosa e redditizia professione di medico condotto nelle campagne d’origine. Il che non gli impedì di elaborare una personale teoria elettrica dell’infiammazione, che non passò inosservata (Nuova teoria medica. Discorso sull’infiammazione, Milano 1842).
Colto, dotato di estro e gusto vivace per la narrazione, Ripari fu generoso di ricordi e aneddoti autobiografici su molti momenti della sua lunga vita pubblica, ora dati alle stampe – come le corrispondenze in tempo reale inviate al Corriere cremonese fin dal maggio 1860, durante la spedizione garibaldina –, ora rimasti inediti, ora affidati nel corso di lunghi scambi epistolari agli autori più impegnati nella costruzione di una mitografia radicale nell’Italia postunitaria – da Francesco Domenico Guerrazzi a Jessie White Mario, che molto se ne avvalsero – ora declamati dinanzi alla corte di reduci, giovani e giornalisti che, da anziano, attorniava l’eccentrico patriota nella birreria di piazza Colonna a Roma. Ma sulle circostanze della sua formazione politica Ripari diede adito a notizie non sempre univoche. Se negò di aver mai aderito a società segrete in gioventù, negli ambienti a lui più vicini, alla fine della vita, lo si diceva cospiratore fin dagli anni Venti (quando frequentò i due atenei politicamente più inquieti del Lombardo-Veneto) e carbonaro prima che fervente adepto della Giovine Italia, il cui verbo avrebbe poi diffuso, profittando della sua professione, «ora a piedi ora a cavallo, pei monti e nei più abbietti tuguri della plebe della campagna» (Annuario biografico universale, a cura di A. Brunialti, Torino 1885, p. 470; Il Secolo. Gazzetta di Milano, 17-18 marzo 1885). Allo stato attuale della ricerca non hanno trovato conferme queste tappe di uno specchiato cursus honorum radicale, ripetute sulle lapidi affisse in suo onore nel cremonese a inizio Novecento ma non – e forse non per caso – su quella della sua tomba al Verano.
Se tale nomea non pare comunque incompatibile con un’effettiva, accorta e ritirata opera di fiancheggiamento, certo è che alla vigilia del 1848 Ripari era ormai vicino a personaggi come il coetaneo cremonese Gaetano Tibaldi, mazziniano, e doveva essere ben inserito, sebbene non nei primi ranghi, nei compositi ambienti dell’opposizione lombarda. Le prime tracce di sue attività portano al dicembre 1847, quando, pare anche a seguito del coinvolgimento in alcuni duelli che avrebbero potuto attrarre su di lui e sulle reti locali di patrioti l’attenzione della polizia, partì dal Lombardo-Veneto, nel tentativo di coordinare la loro azione a quella dei liberali degli Stati italiani dove le recenti riforme avevano concesso spazi di dibattito e di manovra preclusi ai sudditi dell’Impero. Iniziò così per lui un periodo di febbrile mobilità, esperienza comune a decine di migliaia di attivisti e volontari che le vicende politiche del lungo Quarantotto misero intensamente in moto tra le frontiere a un tratto fattesi porose degli antichi Stati. Viaggiò tra i Ducati padani, le Legazioni e la Toscana (dove scrisse sul giornale fiorentino La Patria) finché alla notizia dell’insurrezione di Milano rientrò in Lombardia, unendosi a Bologna alla colonna del mazziniano Tito Livio Zambeccari – fugace occasione, per lui, del primo confronto con la vita militare. Collaborò da principio col Governo provvisorio milanese, occupandosi di volontari e di non meno delicate questioni relative ai rapporti con le province lombarde, con Venezia repubblicana e con i militi pontifici al confine ferrarese. Presto tuttavia fu evidente la sua aperta adesione al campo radicale: fu volontario nella colonna cremonese guidata dall’amico Tibaldi per la prevista spedizione in Trentino (aprile 1848), si occupò di raccogliere fondi e armi tra la Lombardia e la Svizzera e fu tra i redattori de L’Italia del popolo. Dalle colonne dell’organo mazziniano intervenne su questioni politiche, finanziarie e militari e, nella polemica contro i liberi voti di annessione al Regno di Sardegna, invitò Carlo Alberto a farsi «Presidente perpetuo della nuova Italiana Repubblica» (L’Italia del popolo, 2 giugno 1848). Pochi mesi dopo, dall’esilio svizzero, dove seguì Mazzini dopo il ripiegamento della guerra regia, in un virulento pamphlet decretò il sovrano sabaudo «traditore della patria e come tale meritevole di morte» (Tradimenti e colpe, Italia 1848, p. 19). Deciso fautore della ripresa delle ostilità, in ottobre prese parte al fallito moto mazziniano in Val d’Intelvi, che valse ai coinvolti l’espulsione dalla Svizzera. Dopo varie peregrinazioni tra il Regno di Sardegna, la Toscana del governo democratico e la Repubblica di Venezia, a inizio 1849 riuscì finalmente a raggiungere a Macerata la Legione Italiana di Giuseppe Garibaldi, che aveva incrociato nella Milano liberata. Iniziava così la sua lunga carriera di combattente e medico nelle imprese garibaldine.
Ingaggiato come soldato semplice, seguì la turbolenta Legione nei suoi spostamenti per le province pontificie, nei mesi di elezioni per l’Assemblea costituente e di insediamento della Repubblica romana. Durante la prolungata stanza a Rieti fu anche segretario del locale circolo militare e venne per la prima volta nominato chirurgo aiutante. Già nel maggio 1849 era primo chirurgo e ciò gli aprì le porte dello stato maggiore della Legione come, più tardi, dopo la sua riorganizzazione, quello della prima divisione dell’esercito repubblicano. Fu presente sul campo dei principali scontri con le truppe francesi e borboniche: a Roma (30 aprile, 3 giugno), a Palestrina, a Velletri. Sempre più intimo del Generale, per settimane lo curò per una ferita tenuta nascosta ai più e su sua insistenza a inizio giugno fu nominato direttore generale dell’ambulanza della prima divisione, trovandosi a gestire l’emergenza sanitaria militare nelle fasi più drammatiche della difesa. Dopo l’ingresso dei Francesi a inizio luglio rimase in città e si dedicò alla cura dei feriti, procurandosi intanto un passaporto americano per uscire dallo Stato. Contava di raggiungere Mazzini a Londra, dove era riparato l’ex triumviro. Ma la notte tra l’8 e il 9 agosto, in una perquisizione nella sua stanza alla Locanda d’Inghilterra, fu trovato in possesso di scritti e carteggi sospetti. Arrestato, trascorse molti mesi alle Carceri Nuove, in mezzo ai detenuti comuni, e poi a San Michele, carcere cellulare dove su pressioni francesi nel 1850 furono trasferiti gli imputati in cause politiche. Meditò da subito di redigere delle memorie della prigionia: un libro-denuncia che, se nel contesto italiano guardava a uno specifico filone del martirologio patriottico in formazione, nondimeno per lui avrebbe dovuto raggiungere e sensibilizzare i circuiti internazionali dell’umanitarismo e della diplomazia informale. Cercò in vari modi di interessare opinioni pubbliche e istituzioni al proprio caso, a mezzo di amici, sodali politici, giuristi francesi e persino ricercando la mediazione dell’ambasciata austriaca o di Daniele Manin: all’ex presidente conosciuto a Venezia ed esule a Parigi Ripari scrisse una fitta lettera di fortuna su un fazzoletto di seta che ancora si conserva (Roma, Museo centrale del Risorgimento, 62/15, 62/17, 274/2). Invano. Tardiva e inattesa, date le inconsistenti prove a sostegno dell’accusa, il 2 maggio 1851 giunse la sentenza di condanna: vent’anni di carcere per corrispondenze illecite relative agli affari interni dello Stato.
Dopo nove mesi trascorsi ad Ancona – in abiti borghesi ed esonerato dai ferri, un criminale comune a condividere la cella, sospettato di macchinazioni politiche e tentativi di evasione – nel luglio 1852 fu trasferito nel forte di Paliano, dove restò fino all’ottobre 1856. Fu solo allora che ebbero successo presso il governo pontificio i tentativi promossi da tempo a Parigi dall’ormai influente amico Enrico Cernuschi: Ripari ebbe la pena commutata in esilio. Imbarcato a Civitavecchia per gli Stati Uniti, in realtà gli fu consentito di fermarsi a Marsiglia. Da qui, ottenuto regolare passaporto, raggiunse Parigi. Ma la Francia di Napoleone III, gli si confermò presto, non gli avrebbe garantito la libertà di espressione che invocava, nelle sue intenzioni da anni, per denunciare pubblicamente il sistema penale pontificio. Riprese così il vecchio piano di stabilirsi a Londra e ai primi di febbraio 1857 era già con Mazzini, che non fu avaro di attenzioni per un autentico simbolo vivente e per un confratello che gli parve da subito assai bisognoso e provato nello spirito oltre che nel fisico. Il contesto era finalmente favorevole. Da un lato le reti di solidarietà e propaganda dell’emigrazione italiana, dall’altro la popolarità presso il pubblico britannico della polemica antipapista e delle denunce dei sistemi penali italiani della reazione (che a partire da William Gladstone sul Regno delle Due Sicilie nel 1851 erano ormai divenute strumento diplomatico e materia di dibattito politico interno), garantirono all’ultimo arrivato tra gli esuli italiani di pubblicare in poche settimane, con larga eco sulla stampa britannica, una lettera in cui narrava il proprio caso giudiziario (che aveva invero già fatto capolino sulle cronache britanniche nel 1851 e nell’autunno precedente) e le condizioni di detenzione a Paliano, aprendo una sottoscrizione per i prigionieri politici ancora lì rinchiusi. Il 22 marzo seguente il testo comparve anche in italiano su L’Italia del popolo di Genova. E fu sempre sulle colonne del giornale mazziniano, a cui contribuiva in maniera determinante l’emigrazione da Londra, che poche settimane dopo uscì a puntate, in forma di veementi lettere al segretario di stato romano cardinale Giacomo Antonelli, la tanto desiderata requisitoria in cui Ripari, tra acceso anticlericalismo, uso politico dello scandalo e sensazionalismi da romanzo d’appendice, denunciava gli orrori delle segrete pontificie. Nel 1859 furono riunite a Genova in un volume la cui prima edizione andò a ruba (P.R. al cardinale Antonelli, II ed. Milano 1860).
A quel punto, Ripari era già rientrato da oltre un anno. Nonostante la solidarietà degli esuli e dei loro sostenitori britannici, infatti, a Londra aveva vissuto per quasi due anni tra precarietà e difficoltà di adattamento, al punto che finì per trasferirsi a Genova, beneficiando del valido sostegno del collega medico Agostino Bertani, che si era interessato alla storia del vecchio compagno già nell’esilio. E proprio nel corpo sanitario dei Cacciatori delle Alpi coordinato da Bertani troviamo di nuovo attivo Ripari nel 1859: a distanza di dieci anni tornava soldato e medico garibaldino. Non solo: stanziato a Como col suo battaglione dopo la fine della seconda guerra d’indipendenza, Ripari non fu estraneo allo sbocciare della relazione tra Garibaldi e la giovane marchesa Giuseppina Raimondi, culminata nel matrimonio del gennaio 1860.
Al riguardo è da segnalare un aneddoto. Durante una visita a Villa Raimondi a Fino, nei mesi della relazione tra i due, Garibaldi riportò una lieve ferita per un incidente a cavallo e Ripari si trovò di nuovo a curarlo: stavolta però, a riprova della diversa collocazione che la guerra del 1859 aveva ormai assegnato al celebre Generale nei circuiti politico-mediatici, rispetto alla ferita di dieci anni prima l’episodio, insignificante in sé, fu deliberatamente offerto in consumo al pubblico e tre giorni dopo Ripari stesso firmava per Il Pungolo di Milano (7 dicembre 1859) una cronaca e un rassicurante bollettino medico. Non sarebbe stata l’ultima volta.
Pochi mesi dopo, nella notte tra il 5 e il 6 maggio, il quasi sessantenne Ripari era tra i Mille che si imbarcarono a Quarto per seguire Garibaldi in Sicilia, stavolta con l’incarico di coordinare il servizio sanitario della spedizione. La sua ambulanza fu presente in tutti i principali scontri sull’isola, fino alla sanguinosa battaglia di Milazzo, e a lui spettò, man mano che il fronte avanzava, la prima organizzazione degli ospedali, da Palermo a Vita, destinati alla cura dei feriti nelle retrovie. Garibaldi lo destinò a gestire la situazione dopo lo sbarco sul continente, ma Ripari preferì unirsi alla colonna di volontari cremonesi al seguito di Giacomo Medici e fu così presente alle decisive giornate del Volturno, dove, bendato e scortato oltre le linee nemiche, visitò i prigionieri garibaldini feriti a Caiazzo e trasportati nell’ospedale militare borbonico di Capua e organizzò i treni speciali per i feriti a Santa Maria Capua Vetere mentre ancora infuriava la battaglia.
Allo scioglimento dell’esercito meridionale fece ritorno a Genova e decise di non sottoporsi alle procedure di concorso che penalizzarono l’assorbimento nell’esercito italiano degli ufficiali medici garibaldini rispetto a quelli dei disciolti eserciti preunitari. Fu invece da subito tra quanti sostennero la necessità di tentare un colpo su Roma. E infatti fin dal gennaio 1862 lo troviamo a lungo a Caprera, tra i fedelissimi del Generale, dove fu preparato e da dove poi ebbe inizio quel tour via via più esplicito nei luoghi della memoria degli avvenimenti di due anni prima in Sicilia che a fine agosto si rivelò essere una nuova spedizione oltre lo Stretto. Ripari fu ancora una volta capo-medico e, come tutto lo stato maggiore garibaldino, a Palermo fu affiliato dal Generale alla massoneria, giudicata un utile strumento organizzativo oltre che un canale di raccordo delle varie correnti democratiche. Ma il progetto di risalire la penisola fu bloccato sull’Aspromonte, il 29 agosto, nello scontro con le truppe dell’esercito italiano guidate del generale Enrico Cialdini. Garibaldi fu ferito. Ripari, in qualità di capo dell’ambulanza, insieme ai due giovani colleghi Giuseppe Basile ed Enrico Albanese, lo soccorse e lo seguì, prima nella detenzione al Varignano e poi, dopo l’amnistia del 5 ottobre, a La Spezia e a Pisa, dove, dopo i lunghi consulti che avevano visto accorrere al capezzale del Generale illustri clinici e accademici anche dall’estero, finalmente il fiorentino Ferdinando Zannetti estrasse la pallottola che Ripari aveva a lungo dubitato fosse rimasta nel piede di Garibaldi. Teso caso politico-mediatico, la storia della ferita di Garibaldi – alla cui spettacolarizzazione, di nuovo, Ripari contribuì in tempo reale, con bollettini medici e corrispondenze regolari ai giornali Il Diritto e Il Movimento – logorò presto i rapporti tra i tre medici più prossimi al Generale, circondando di veleni la sua degenza e prolungandosi per anni in aspre polemiche sui giornali, infuocati carteggi e opposti instant books (il primo dei quali fu proprio quello di Ripari, Storia medica della grave ferita toccata in Aspromonte dal Generale Garibaldi, Milano 1863; solo Albanese rinunciò a pubblicare i materiali che pure stava raccogliendo, accondiscendendo così ai desideri del Generale). Furono Albanese e Basile ad accompagnare Garibaldi nella convalescenza di Caprera, finché ulteriori contrasti fecero allontanare anche Basile dall’isola. Ciò non significa che si interrompessero i rapporti tra il Generale e lo «spinoso come un istrice» Ripari – come lo definì Alberto Mario che insieme alla moglie Jessie lo ebbe assai caro (La camicia rossa, Milano 1875, p. 32), e come confermano molti testimoni (concordi però anche nel ricordarne il temperamento sentimentale e la generosità). Nel 1864 Ripari accompagnò Garibaldi nel trionfale viaggio in Inghilterra, nel 1866 collaborò, ancora sotto la direzione di Bertani, al servizio sanitario della campagna in Trentino (sedette poi tra i membri della Cassa di soccorso stabilita a favore dei feriti e dei familiari dei volontari caduti o invalidi) e nel 1867 fu di nuovo in prima fila nella tentata spedizione su Roma fermata a Mentana.
Tra gli animatori della Società dei reduci delle patrie battaglie di Genova, non nascose mai posizioni fortemente anticlericali, antigovernative e federaliste, che gli valsero l’elezione come candidato della Sinistra nel collegio di Pescarolo, nel Cremonese, alle suppletive del giugno 1869 (Ai miei elettori, Genova 1869). Ma la sua esperienza di deputato nella capitale Firenze fu breve: la legislatura si chiuse nel novembre 1870, poche settimane dopo la presa di Roma, senza sue iniziative di rilievo (tenne però a pubblicare un’orazione e una proposta di abolizione del potere temporale che aveva preparato e che fu superata dagli eventi: Una pagina di storia, in Il libero pensiero. Giornale dei razionalisti, 27 ottobre 1870).
In seguito non si ripresentò a elezioni. Visse a Roma della pensione concessa ai Mille e del generoso soccorso di Adriano Lemmi, figura di spicco della massoneria italiana e antico compagno garibaldino. Fu ancora attivo in vari tentativi di federazione della galassia repubblicana, radicale e socialista attorno a programmi comuni, dall’Associazione dei diritti dell’uomo, di cui fu uno dei fondatori, alla Lega della Democrazia di Alberto Mario, alla preparazione del cosiddetto Comizio dei comizi nel 1881.
Dopo una breve malattia, morì a Roma il 15 marzo 1885.
Ebbe esequie in forma civile e fu cremato con indosso la vecchia camicia rossa e un piccolo ritratto dell’amata moglie, Elena Mattoni Belani – vedova di origine veneziana e madre di una figlia, Nina, a sua volta andata in sposa al capo-farmacista dell’ambulanza del 1860, Paolo Papa, nel 1863 – che Ripari aveva sposato in età matura, nei primi anni Sessanta, e di cui era vedovo da tempo.
Fonti e Bibl.: Nuclei di scritti e lettere di Ripari (o lettere che lo riguardano) sono conservati nei seguenti archivi e fondi: Roma, Museo centrale del Risorgimento, vol. 11; Ms. 7; Ms. 164; Ms. 177; Ms. 257, 46/18, 55/5, 60/26-27, 62/16, 83/61, 96/1 e 9, 97/5, 101/5-6, 102/32, 103/12 e 31, 233/58, 235/65, 254/84, 266/38, 271/51, 320/107, 323/12, 399/42, 48 e 69, 407/7, 426/5, 456/21, 490/91, 507/11 e 18, 556/16, 657/24, 929/23; Milano, Raccolte storiche del Comune, Archivio, Fondo Garibaldi-Curatolo; Fondo Cernuschi; Fondo Agostino Bertani; Arch. di Stato di Cremona, Comune di Cremona, Manoscritti, 194; Livorno, Biblioteca comunale Labronica, Fondo Guerrazzi, Fondo Ferrigni; Legnano, Biblioteca della Società Arte e Storia, Epistolario Ester Cuttica; Pistoia, Biblioteca comunale Forteguerriana, Fondo Giuseppe Civinini; Mantova, Istituto mantovano di storia contemporanea, Archivio della famiglia Sacchi-Carte di Giacomo Cattaneo; Arch. di Stato di Mantova, Carte Giovanni Acerbi; Firenze, Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Carte Zannetti; Ibid., Biblioteca nazionale centrale, Carteggi vari; Carteggi Tordi; Pisa, Domus Mazziniana, Fondo Arcangelo Ghisleri; Fondo Giuseppe Dolfi. Sull’arresto, processo e detenzione: Arch. di Stato di Roma, Tribunale della Sacra Consulta, b. 219, f. 136. Principali fonti edite: G. Mazzini, SEI, XXXV, XXXVII, XXXIX, XL, LVII-LVIII, LX, LXI, LXIII, LXXII, LXXXVII, Imola 1922-1940, ad indices; Epistolario di Giuseppe Garibaldi, II-V, VII, IX-XIII, Roma 1978-2008, ad indices; L. Toschi, L’epistolario di F.D. Guerrazzi, Firenze 1978, ad ind. Edizioni di fonti e ricostruzioni storiografiche: E. Loevinson, Giuseppe Garibaldi e la sua Legione nello Stato romano, 1848-1849, I-III, Roma-Milano 1902-1907, ad indices; A. Levi - C. Panigadda, L’elezione di Giuseppe Mazzini a deputato di Ferrara alla Costituente romana del 1849, in Atti e memorie della deputazione ferrarese di storia patria, XXIV (1919), 1, pp. 65-71; E. Michel, Lettere e manoscritti inediti di P.R. sull’assedio di Roma, in Studi e documenti su Goffredo Mameli e la Repubblica romana (1849), Imola 1927, pp. 245-256; E. Morelli, Episodi della difesa di Roma nei ricordi inediti di P.R., in Camicia rossa, XVII (1941), 9-12, pp. 178-186; F. Soldi, Risorgimento cremonese, 1796-1870, Cremona 1963, ad ind.; E. Sbertoli, Un messaggio inedito del colonnello P.R. dal forte di Paliano, in Bollettino della Domus Mazziniana, XXVIII (1982), 1, pp. 25-34; F. Conti, Il Garibaldi dei massoni. La libera muratoria e il mito dell’eroe (1860-1926), in Contemporanea, XI (2008), 3, p. 366; La ferita di Garibaldi ad Aspromonte, a cura di G. Paolini, Firenze 2010, passim. Ulteriori riferimenti in Dizionario biografico del Risorgimento cremonese, in Bollettino storico cremonese, n.s., XVIII (2011-2012), ad nomen; Camera dei Deputati, Portale storico, https://storia.camera.it/deputato/pietro-ripari-1802#nav (4 maggio 2020); e – soprattutto – nella ricostruzione biografica più compiuta e recente: F. Fabozzi - R. Dugoni, Il medico di Garibaldi. Vita avventurosa del Dottor P.R., Solarolo Rainerio 2011.