CANONIERI, Pietro Andrea
Nacque a Rossiglione (Genova) nella seconda metà del secolo XVI. Figlio di un medico, venne avviato dal padre agli studi di medicina e si laureò a Genova per passare quindi a Parma ad apprendervi giurisprudenza. A Firenze nel 1605 pubblicò la sua prima opera, Oratio de laudibus litterarum habita Parmae in aede S. Maria Staechades III novembris 1604, seguita qualche anno dopo da altri componimenti di circostanza che già anticipano i suoi molteplici interessi di erudito versatile e fecondo, non molto dissimili da quelli di tanti altri piccoli accademici e letterati del tempo, alla ricerca di qualche appannaggio nelle sonnacchiose corti della penisola o di qualche ufficio tra le nobiltà di toga: da Epistolarum laconicarum libri quattuor (Firenze 1607) alla De curiosa doctrina (in cinque libri, Firenze 1607), a Le lodi e i biasimi del vino (Viterbo 1608). S'era nel frattempo trasferito a Roma per applicarsi a studi di retorica e di teologia e qui diede alle stampe nel 1609 Il perfetto Cortegiano et dell'Uffizio del Prencipe verso il Cortegiano, un lavoro che, pur risentendo largamente di un genere letterario ormai convenzionale, segna tuttavia il passaggio del C. da certo sommario eclettismo di facile vena alla trattazione di temi più impegnativi. È del resto di quello stesso anno la comparsa, sempre a Roma, dei suoi Quaestiones ac Discursus in duos primos libros C. Cornelii Taciti, che si affranca decisamente dalla rievocazione degli ideali e dei modi del "cortegiano perfetto", dalla dissertazione sulle spocchie e sulle regole pedantesche del piccolo mondo chiuso di corte e delle sue boriose oligarchie, per affrontare problemi di più vasto respiro: le forme migliori di governo, il rapporto fra prassi di potere e concezione religiosa, il grado di autonomia e di personalità giuridica dello Stato assoluto, l'utilità della storia, il conflitto fra interessi del principe e bene collettivo. Quasi sicuramente, a questo "salto di qualità" nella produzione letteraria del C., che pur s'inserisce nel vasto filone tradizionale del tacitismo seicentesco, non fu estranea la lettura di alcuni scritti del Campanella (del Campanella già "macerato" nel suo primitivo orgoglio di audace riformatore e di ribelle alla Chiesa di Roma) che - banditi dalla censura, tenuti sotto sequestro dalle autorità ecclesiastiche, o non ancora perfezionati nella loro stesura definitiva (quali appariranno nelle successive pubblicazioni a stampa) - già circolavano tuttavia, in forma manoscritta, in alcuni circoli politici e in certe categorie di lettori dotti.
A giudicare anzi dalle Quaestiones e da altre opere del C., si può ben dire che lo scrittore genovese non solo era a conoscenza dei lavori del frate di Stilo, ma se ne servì largamente, senza mai citare le fonti, attingendovi a piene mani o manipolandoli per le sue più disparate escursioni nei campi della morale, della politica, della cultura. Da un rigoroso riscontro compiuto dal De Mattei, da un lato, sulle Quaestiones, su Delle Cause dell'infelicità e disgrazie de gli huomini letterati e guerrieri (in otto libri, Anversa 1612) e su Dell'introduzione alla politica,alla ragion di stato et alla pratica del buon governo (in dieci libri, Anversa 1614), dall'altro, sui Discorsi ai principi d'Italia (che vennero pubblicati in epoca di molto successiva alla morte del Campanella, tranne che per i due primi capitoli comparsi in un'oscura edizione tedesca), sugli Aforismi politici (comparsi per la prima volta nel 1623 nell'Epilogismo), su La Monarchia di Spagna (comparsa nel 1620 in tedesco e vent'anni dopo in veste latina) e sugli Antiveneti (pubblicatisoltanto nel 1934 sulla scorta di un codice estense), risulta evidente non solo l'identità materiale, o la disinvolta fusione, di molti passi dei lavori del C. con pagine singole dei testi del Campanella, ma anche l'inconfondibile paternità campanelliana di alcuni concetti fondamentali da lui enunciati, per quanto integrati da alcune informazioni dottrinali o un certo repertorio documentario dell'epoca.
Sicché la presenza di parecchi elementi di giudizio o di intere pagine perfettamente simili, pur nella diversa ispirazione, rintracciabili nell'opera del C., che a prima vista avevano fatto sorgere qualche dubbio sulla priorità e quindi sull'originalità di alcune affermazioni del domenicano calabrese, vanno attribuiti molto più semplicemente ai metodi spregiudicati e non edificanti (ma affatto singolari nel costume letterario corrente, tenuto conto oltretutto delle travagliate vicende di cui ebbe a soffrire la produzione campanelliana) di parziale o sintetica appropriazione compiuta dal poligrafo genovese.
È facilmente individuabile, infatti, la ripetizione di alcuni principi peculiari di timbro tipicamente campanelliano: come quelli relativi alle cause fondamentali del dominio politico - Dio, prudenza, occasione - dedotti senza alcuna mediazione critica e trasferiti di peso nell'Introduzione alla politica; o alla natura della democrazia; o ancora al concetto dei "re per natura e per fortuna". Altrettanto vistosa l'incorporazione (assunta in forma immediata o attraverso un diverso svolgimento discorsivo) di alcuni famosi passi tratti dai testi del frate calabrese, sia nell'Introduzione, sia nelle Cause dell'infelicità, a proposito della "guerra delle scritture" contro Venezia al tempo dell'interdetto di Paolo V o della severa condanna nei confronti della Germania protestante, "stuprata da Lutero, cavalcata da Calvino, da Zuinglio, da Melantone, da Illirico, da Giovanni Leidense [...] e da tanti altri figlioli della scuola della fornicazione del demonio". Manomissioni o appropriazioni queste (e l'elenco degli esempi potrebbe certamente continuare), che si spiegano alla luce del faticoso itinerario che accompagnò gli scritti del Campanella, dalla prima composizione alle mutilazioni o integrazioni successive sino alla pubblicazione o al loro sequestro anzitempo, passando di mano in mano attraverso una trafila di corrispondenti, revisori e stampatori.
Indipendentemente da alcuni motivi ispiratori di cui il C. risulta debitore del Campanella, resta il fatto tuttavia che sia le Quaestiones, sia l'Introduzione alla politica abbracciano un orizzonte ben lontano da quello dell'utopia rinascimentale. Il nucleo centrale del discorso del C. è piuttosto quello di tanti altri autori secenteschi: come conciliare morale e politica, i precetti del pulpito con le esigenze realistiche della prassi, le norme etiche e religiose con gli imperativi dell'agire politico e della volontà di potenza additate dal Machiavelli. Né il responso del C. si allontana dalle conclusioni esteriori e convenzionali del tacitismo adottate dai suoi contemporanei per superare l'antitesi, per trovare qualche ingegnosa soluzione di compromesso. Anch'egli si richiama infatti alla necessità di distinguere fra "buona" e "cattiva" ragion di Stato, la prima conforme al diritto divino e alla legge morale, la seconda subordinata all'interesse arbitrario del principe e perseguita con mezzi riprovevoli o illeciti, e quindi da respingere: salvo poi ad ammettere che, nell'uso comune, è quest'ultima ad avere di fatto il sopravvento.
Tuttavia scriveva il C., nell'Introduzione alla politica, che nella "ragion di Stato" operavano simultaneamente: "la necessità che non consente d'agire diversamente, la violazione di altri diritti, l'utilità pubblica, [il fatto] che non si possa avanzare altra ragione, per giustificare l'operato, se non la sola ragione di Stato". Sicché egli - definendo, sulle orme dell'Ammirato, la ragion di Stato quale "necessario eccesso del giure comune per fine di pubblica utilità" - finiva con il giustificarla a guisa di eccezione alla legge morale consentita in vista del bene collettivo. Senonché il tentativo precettistico di armonizzare la ragion di Stato alle leggi e alle buone forme di governo, di superare la lucida visione delle cose del Machiavelli con la mediazione fra prassi utilitaristica ed esigenze del "pubblico benefitio", non riesce sostanzialmente a dissipare l'equivoco di fondo sottinteso a questi e ad altri discorsi (come quelli del Bonaventura o del Palazzo) volti a superare la tradizionale concezione dello Stato patrimoniale e a delineare - non senza l'influsso del Suarez - una sorta di "personalità spirituale" dello Stato come organismo morale, espressione della saggezza divina. Aggiungeva infatti il C., a conferma dei suoi timori di secolarizzazione della vita politica e delle sue intime propensioni in favore di una monarchia assoluta e paternalistica, devota e conservatrice: "la ragion di Stato è sì superiore a tutti gli altri diritti, ma è subordinata alla potenza della Chiesa, così come il corpo all'anima, la carne allo spirito". Onde egli tornava a far valere l'assioma che una "buona" ragion di Stato esigeva, in primo luogo, l'unità della religione nello Stato, l'intolleranza verso le nuove confessioni, la lotta senza quartiere all'individualismo religioso e alla libertà di coscienza, pena la dissoluzione dello Stato stesso.
Altrettanto ambiguo è l'apprezzamento del C. nei confronti della tesi elettiva, del "matrimonio" fra principe e Stato, troppo paludata entro i canoni di certo dottrinarismo ecclesiastico, per rappresentare il presagio di una reale opposizione all'assolutismo regio, la rivendicazione autentica di una potestà diretta del popolo.
Scriveva il C. nell'Introduzione alla politica: "Sappia il Principe ch'egli è sposo della Repubblica, e che egli è capo di quella, capo come marito della moglie, e perciò se gli danno i tributi, come per dote, per i carichi dell'Imperio, come dà la dote la moglie al marito, per i carichi matrimoniali da sostentare, e che i popoli sono figliuoli suoi e della Repubblica, e che il Principe è padre, pubblico di tutti...". È ben difficile cogliere in queste e altre affermazioni la percezione o la disponibilità verso gli assunti delle più ardite teorie contrattualistiche; vi si ritrova piuttosto l'eco della polemica di parte "guelfa", tipica dell'età della Controriforma, sulla subordinazione della politica all'etica, sull'ubbidienza del principe alla legge divina sia pur attraverso la mediazione dei sudditi, nell'ambito di uno Stato di origine "consensuale", nato da un accordo di sottomissione all'autorità suprema del potere pubblico in un ordine civile voluto da Dio e conforme alla dignità cristiana e alla norma religiosa.
In questo senso l'etica legalitaria del C. e l'idea di un pactum societatis, di un patto tacito fra sovrano e collettività, non si discostano dalle posizioni del Bellarmino e della scuola gesuitica italiana, assai più sfumate e prudenti di quelle sostenute con ben altro mordente polemico dai gesuiti spagnoli, circa l'ammissione del diritto di resistenza contro l'arbitrio del sovrano o la legittimazione della libertà del popolo quale depositario della sovranità.
Il C., che s'era trasferito dopo il 1609 in Spagna per tentare la fortuna alla corte di Filippo III (cui aveva dedicato le Quaestiones) e s'era poi arruolato nell'esercito spagnolo, finì i suoi giorni nel 1639 ad Anversa dove visse esercitando la sua originaria professione di medico e scrivendo di morale, di epigrafia, di medicina, di storia e di letteratura.
Tra le altre opere del C. ricordiamo: Flores illustrium epitaphiorium ex praeclarissimarum totius Europae civitatum et praestantissimorum poetarum monumentis excerpti, Antuerpiae 1613; In septem Aphorismorum Hippocratis libros,Medicae,Politicae,Morales ac Theologicae,interpretationes, Antuerpiae 1617. Le Quaestiones vennero ristampate nel 1610 e nel 1612 a Francoforte, col titolo: Dissertationes politicae ac Discursus varii in C. Taciti Annalium libros. Anche Dell'Introduzione alla politica fu ristampato ad Anversa nel 1627.
Bibl.: S. Lancellotti, L'Hoggidì,overo il Mondo non peggiore né più calamitoso del passato, Venezia 1658, p. 83; A. Oldoini, Athenaeum ligusticum, Perusiae 1680, p. 463; V. Spotorno, Storia letteraria della Liguria, Genova 1825, III, pp. 210 s., 253-255; F. Cavalli, La scienza politica in Italia, Venezia 1863, II, pp. 406-408; G. Toffanin: Machiavelli e il "tacitismo" ("la politica storica" al tempo della Controriforma), Padova 1921, pp. 178-180 e passim;R. De Mattei, Materiali di Campanella nell'opera del C., in Giorn. crit. dellafilosofia ital., XXV(1944-46), 1-6, pp. 142-165; Id., L'idea democratica nel Seicento, in Riv. stor.ital., LXIX (1948), 1-2, pp. 24 ss., 38 ss.; T. Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma 1949, pp. 108 s.; F. Meinecke, L'idea dellaragion di Stato nella storia moderna, Firenze 1970, pp. 169, 176 s.