LEONI (Lioni), Piero (Pier Leone, Pierleone da Spoleto)
Nacque a Spoleto, probabilmente verso il 1445, da Leonardo, appartenente a una famiglia del ceto professionale spoletino, che venne nobilitata poi nel corso del Cinquecento.
Nulla si sa della giovinezza, della sua prima formazione, degli studi di medicina. Certo dal primo documento conservato - una sua lettera agli Ufficiali dello Studio di Pisa dell'8 luglio 1475 - il L. risulta a Roma, dove era già artium et medicinae doctor e, probabilmente, medico professionalmente affermato di cardinali e prelati. Con la stessa lettera egli accettava la lettura di medicina practica presso lo Studio di Pisa dove insegnò, con lo stipendio di 400 fiorini, dalla metà del 1475 alla metà del 1478. Già in questo periodo il L. era in stretto contatto con Lorenzo de' Medici - anche egli ufficiale dello Studio - che spesso lo pregava di interrompere le lezioni per recarsi al capezzale di pazienti illustri. Così per esempio nel luglio 1477 il L. dovette improvvisamente andare a Fosdinovo per curare una cognata del Magnifico, Aurante Orsini, moglie di Leonardo Malaspina marchese di Gragnola. In questo primo insegnamento pisano ebbe tra i suoi scolari il fiorentino Mazzingo Mazzinghi, amico di Bernardo Machiavelli, che divenne poi medico curante di Marsilio Ficino.
Nel 1478 il L. interruppe l'insegnamento pisano e ritornò probabilmente a Roma, dove certo si trovava il 17 sett. 1481 quando prese in prestito dalla biblioteca papale il codice Amphorismi Zaelis, restituito il 18 ottobre seguente. A Roma riprese probabilmente a esercitare la professione di medico, ma nessun documento autorizza a ipotizzare che per qualche tempo fosse archiatra pontificio o professore alla Sapienza.
Nel maggio 1482 il L. tornò di nuovo alla cattedra pisana di medicina practica dove rimase fino all'aprile del 1487; il suo stipendio fu portato a 700 fiorini, che divennero 1000 a partire dal 1486, uno dei trattamenti più remunerativi dello Studio, di poco inferiore solo a quello di alcuni giuristi. In questo periodo era stabilmente uno dei medici curanti di Lorenzo de' Medici e di altri ragguardevoli cittadini fiorentini. Dal 1483, infatti, gli fu concesso un privilegio per cui le assenze dallo Studio dovute a impegni professionali fuori Pisa non gli avrebbero causato detrazioni dallo stipendio; anzi, il 19 febbr. 1485 furono proprio gli Ufficiali dello Studio che gli ingiunsero di partire subito per Firenze al capezzale del Magnifico ammalato.
Nelle vacanze dello Studio e nei frequenti viaggi a Firenze il L. ebbe, in questi anni, la possibilità di incontrare e di allacciare rapporti con l'ambiente culturale fiorentino, in particolare con Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. Particolarmente stretta, soprattutto dal 1485, si fece l'amicizia col primo che gli indirizzò varie lettere latine, chiamandolo, per via della comune passione per Platone e Plotino, "complatonicus" e "comphilosophus". In casa di Ficino il L. incontrò probabilmente nel settembre 1486 l'ebreo convertito Guglielmo Raimondo Moncada, detto Flavio Mitridate, che allora traduceva in latino per Pico varie opere cabalistiche, di alcune delle quali il L. trasse copia.
Nel 1487 il L. non accettò la riconferma della cattedra offertagli dagli Ufficiali dello Studio: sono sconosciute le ragioni di questa rinuncia, ma certo avranno pesato sulla sua decisione gli screzi con gli Ufficiali cui lo stesso L. accennò a Roma il 14 luglio 1490 nel corso di una conversazione con l'ambasciatore fiorentino Pier Filippo Pandolfini, subito riferita da questo per lettera al Magnifico: "gli parve […] essere male trattato dagli Officiali […] e che di lui non si teneva quel conto, che gli pareva meritare" (Fabroni, pp. 90 s., in cui, per errore, è indicata la data 14 luglio 1491). Lasciata Pisa nella prima metà del 1487, il L. si recò a Firenze. Una lettera datata 10 ag. 1487 di Ficino a Pico, che era allora a Roma, lo descrive mentre difende il mirandolano presso il Magnifico dalle accuse che per lettera arrivavano da Roma in occasione della condanna delle pichiane Conclusiones nongentae. Nella stessa lettera Ficino informava Pico che il L. era partito da Firenze "peragraturus orbem raptus veritatis amore" (Ficino, 1576, p. 895); ma pare che nel novembre 1487 egli fosse di nuovo a Firenze, dato che in questa città - come si ricava da una lettera del Magnifico a Giovanni Lanfredini, ambasciatore fiorentino a Roma, del 14 nov. 1487 (Guerra-Coppioli, p. 419) - lo si cercò perché accorresse a Milano al capezzale di Ludovico il Moro ammalato.
Il 10 luglio 1488 lo Studio di Pisa gli offrì di nuovo una cattedra di medicina "cum eo salario quod deliberabitur et declarabitur per magnificum virum Laurentium de Medicis" (Verde, II, p. 557), ma il L. non volle accettare. Si trattenne a Firenze fino al 1° ag. 1488, recandosi poi probabilmente a Roma dove certo era nel 1489, probabilmente al servizio del cardinale Marco Barbo. In questo anno, proprio nella dimora romana del cardinale, lo incontrò Luca Pacioli, che nella sua Summa de arithmetica ricorda come il L. gli avesse mostrato il rarissimo De circuli quadratura di Niccolò Cusano, di cui il L. possedeva e aveva studiato diverse opere.
Nel giugno del 1490 si dovette recare a curare il Magnifico che passava le acque al Bagno a Morbo presso Volterra, come pare di capire da una lettera di Angelo Ambrogini detto il Poliziano, in cui, tra le altre cose, si pregava Lorenzo di chiedere al L. se "volessi durar fatica in riveder quella mia traduzione di Ippocrate e Galieno, che è quasi al fine, e così el commento che fo sopra" (ossia la perduta traduzione degli Aphorismi di Ippocrate col commento di Galeno; Poliziano, p. 77).
Nel luglio 1490 il L. era di nuovo a Roma dove lo raggiunse la chiamata di Venezia per un insegnamento di medicina practica allo Studio di Padova con l'eccezionale stipendio di 1000 ducati. Il L. accettò e partì nel settembre dello stesso anno da Roma, arrivando a Padova ai primi di novembre. Qui lo raggiunsero nel giugno 1491 Pico e Poliziano, che erano in viaggio nell'Italia settentrionale e avevano Venezia come meta principale, allo scopo di cercare codici per la biblioteca medicea. A Padova Poliziano poté esaminare la biblioteca del L. e raccogliere anche le sue lamentele su varie circostanze riguardanti l'insegnamento padovano; in una lettera da Venezia del 20 giugno 1491, infatti, Poliziano informava il Magnifico: "Maestro Piero Lioni è stato in Padova molto perseguitato, e non è chiamato né quivi né in Vinegia a cura nessuna: pure ha buona scuola et ha la sua parte et ha la sua parte favorevole. Hollo fatto tentare dal Conte del ridursi in Toscana: credo sarà in ogni modo difficil cosa. In Padova sta mal volentieri e la conversazione non li può più dispiacere, ut ipse ait; negat tamen se velle in Thuscia agere" (p. 80). Per queste ragioni il L. rinunciò nel dicembre 1491 alla condotta padovana e, dopo una diversione a Spoleto, si diresse - nonostante quello che aveva dichiarato pochi mesi prima a Poliziano - proprio verso Firenze, dove era già il 7 febbr. 1492, dedicandosi alla cura del Magnifico, le cui condizioni di salute peggioravano di giorno in giorno. Al capezzale di questo egli era infatti l'8 apr. 1492, quando Lorenzo morì nella sua villa di Careggi.
La mattina del 9 aprile il L. fu trovato morto in un pozzo della villa di Malcantone a San Gervasio presso Careggi, di proprietà dei Martelli, nella quale il medico alloggiava. Data la sua fama, la notizia si diffuse subito per tutta Italia e suscitò, unita com'era alla nuova della morte di Lorenzo, un enorme scalpore. Si parlò di suicidio: si disse, come affermò Poliziano, che il L. si fosse dato la morte per il rimorso di non essere riuscito a salvare il Magnifico o che, come scrisse un mediceo fanatico quale Bartolomeo Dei, "maestro Pietro Lioni […] poi che si vide ingannato dalla sua falsa scienza, la quale alcuni dicono era mescolata con nigromanzia" diventasse "mezzo fuori di sé" e si precipitasse nel pozzo (Frati, p. 259). Altri, come Demetrio Calcondila, il cerimoniere pontificio Johannes Burckard e Iacopo Sannazzaro, pensarono, invece, a un assassinio ordinato da Piero di Lorenzo de' Medici. Questi, come scrive il cronista Francesco di Pierangelo Mugnoni, un congiunto dei Leoni, "Perino figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato homo bestiale et senza prudentia" avrebbe fatto prima strangolare e poi gettare il L. nel pozzo onde simulare il suicidio (Guerra-Coppioli, pp. 429-431). Al suicidio, a ogni modo, non credette il vescovo di Spoleto che permise il 29 apr. 1492 - come riferisce ancora Mugnoni - che il L. fosse sepolto con tutti gli onori religiosi nella chiesa di S. Niccolò a Spoleto.
Il L. fu il primo a essersi opposto all'uso, allora prevalente nell'insegnamento della medicina, dei testi di Avicenna e di altri medici arabi; nonostante il suo persistente attaccamento alle prognosi astrologiche e ad alcune terapie talismaniche, egli fu il precursore di quel recupero della medicina greca - ippocratica, ma soprattutto galenica - che poi con Niccolò Leoniceno prevalse nel Cinquecento. Appunto per questo, Poliziano a lui si rivolgeva per rivedere il proprio commento alle sopra citate traduzioni di Ippocrate e Galeno; ed egli stesso, che a Pisa veniva considerato un "excellentissimus galienista", ma che, a quanto pare, conosceva molto male il greco, spronava Ficino a volgergli in latino vari trattati di Ippocrate. Tuttavia, più che per la storia della medicina, l'importanza culturale del L. sta nel suo ruolo, ancora in gran parte misconosciuto, nelle discussioni all'interno del gruppo che tra il 1480 e il 1490 si riuniva attorno a Ficino e a Pico. Il L., da un lato, era ancora attratto da alcuni testi filosofici e letterari medievali o del primo Quattrocento, che gli umanisti fiorentini, volti ormai a un nuovo tipo di letteratura e immersi nel movimento di recupero promosso da Ficino dei testi genuini di Platone e di Plotino, avevano trascurato o dimenticato; ma, dall'altro, seguì con entusiasmo tutte le tappe dell'intrapresa ficiniana e partecipò febbrilmente all'interesse pichiano per la letteratura cabalistica. Immagine di questi interessi è la sua biblioteca, ricostruita soprattutto da Dorez e da Ruysschaert (1960), piccola anche per la media di quei tempi, ma eccezionalmente ricca di testi rari e unici, sconosciuti anzi a grandi raccolte come quella di Pico o dei Medici. Soltanto il L. nel tardo Quattrocento aveva conservato il gusto per la lettura di certi testi taglienti, dolorosi e cupamente pessimistici di Leon Battista Alberti: suo fu, per esempio, il codice Canon., 172 della Bodleian Library di Oxford contenente le Intercenales, l'unico che conservi una vasta sezione di quell'opera che ebbe una circolazione, si può dire, quasi sotterranea. Il L. fu poi il solo, come si è detto, degli studiosi italiani del Quattrocento - con l'unica eccezione di Ermolao Barbaro - a possedere, studiare e fittamente postillare un certo numero di opere di Cusano, un filosofo riscoperto solo nel dibattito cinquecentesco. Il suo interesse si volse appunto a quel gruppo, allora dimenticato, di opere "irenistiche", quali il De visione Dei o il De pace fidei (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 9425 e 11520), che promuovevano un tollerante e incruento dibattito con l'ebraismo e l'islam o meglio delineavano un modello di cristianesimo che fosse un superamento e non soltanto una sopraffazione e cancellazione delle religioni considerate avverse. Ugualmente eccezionale la concentrazione nella biblioteca del L. delle opere di Raimondo Lullo che disciplinavano il dibattito con i musulmani o dei testi di Gioacchino da Fiore. L'interesse per le vecchie opere del "profeta" calabrese testimonia che anche nel L. operavano alcune aspettative, condivise pure da Pico e da altri ambienti romani e fiorentini della fine del Quattrocento, per l'avvento imminente di un saeculum novum di rinnovamento politico e di unificazione religiosa. Aspettative escatologiche che stanno probabilmente alla base del suo interesse per le opere cabalistiche ebraiche o per certi politici e filosofi arabi fino ad allora mai tradotti. A questo riguardo anzi è probabile che il L. prendesse l'iniziativa di promuovere traduzioni dall'ebraico ben prima di Pico. È verosimile, infatti, che sin dagli anni del suo primo insegnamento pisano il L. avesse commissionato a un dotto ebreo quella versione latina del Sefer yetsirah, che è conservata nello zibaldone medicinale del suo scolaro Mazzinghi (Firenze, Biblioteca Riccardiana, Mss., 868). Il L. che, come si è detto, dal 1486 era in contatto anche con uno dei traduttori al servizio di Pico, il sopra citato Mitridate, stipendiò poi negli ultimi anni della sua vita almeno due dotti ebrei siciliani, ignoranti di latino, che in un volgare italiano mescidato di forme siciliane e castigliane tradussero per lui un gruppo di opere cabalistiche e, sulla base di una vecchia traduzione ebraica, almeno due testi filosofici arabi. Il lavoro di questo gruppo è testimoniato dal codice della Bibliothèque national di Parigi, Fonds ital., 443, che conserva il Libro della vita eterna (Sefer Hajje ha-'Olam ha-Ba) di Abraham Abulafia, l'anonima Misura della divinità (Ma'hareket ha-'Elohut), alcune ricette per la creazione del golem, il Commento all'Epistola di Ḥayy ibn Yaqẓān di Mosè di Narbona e, per quanto riguarda la letteratura araba, l'utopia politica Il Regime del Solitario di Ibn Baǧǧa (Avempace) e un frammento dell'Epistola di Ḥayy ibn Yaqẓān, il romanzo filosofico di Ibn Ṭufayl, maestro di Averroè. Nei margini di questo codice il L. cominciò poi, qua e là, a elaborare una sua scabra e difficoltosa traduzione latina dei trattati sopra citati che poi non condusse a termine. Portò invece a compimento, probabilmente nel 1491, servendosi di una versione volgare completa, ora scomparsa, che gli era stata fornita forse dai due dotti ebrei, una traduzione latina della Epistola di Ḥayy ibn Yaqẓān di Ibn Ṭufayl, autografa nel codice A.IX.29 della Biblioteca universitaria di Genova. Negli stessi mesi, o poco dopo, Pico conduceva a termine una sua versione dello stesso romanzo arabo, ora purtroppo perduta, a cui dice di aver dato il seducente ed eloquente titolo di Quo quisque pacto per se philosophus evadat (G. Pico della Mirandola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, a cura di E. Garin, Firenze 1946, I, p. 80). Il fatto che sia il L. sia Pico, quasi a gara, abbiano rivolto la loro attenzione a questa opera araba è significativo delle loro comuni aspettative religiose e politiche: il romanzo tocca, infatti, tutti i nodi del complesso rapporto tra religione rivelata ed esperienza illuminativa e pone esplicitamente il problema degli effetti sociali di una diffusione indiscriminata dell'interpretazione spirituale ed esoterica del dogma. Il libro - che sedusse poi anche B. Gracián y Morales, P.-D. Huet e G.W. Leibniz - è la storia di un bambino, Hayy ibn Yaqẓān (il Vivente figlio del Vigilante) nato per generazione spontanea dall'argilla in una sperduta isola disabitata. Questi, vivificato e reso poi spiritualmente attivo dall'intelletto agente, viene portato da una silenziosa pedagogia divina durata cinquanta anni attraverso tutte le nozioni della scienza naturale e astronomica fino alla più sublime conoscenza mistica. Conosce poi due uomini, Salaman e Absal, provenienti dal mondo abitato e professanti una religione rivelata a base dogmatica. Hayy sente allora il nobile impulso di insegnare la sue verità mistiche e religiose alla comunità da cui provengono i due uomini; parte con loro per il continente e fa finalmente esperienza della vita in società. Ma qui, man mano che procede il suo insegnamento, si accorge di essere circondato da freddezza e ostilità crescenti e riparte quindi per l'isola natale ove, in compagnia di Absal, si immerge ormai completamente nell'esperienza mistica. La traduzione del L. o quella perduta di Pico ebbero anche una qualche circolazione italiana: da una delle due Antonio Fileremo Fregoso trasse infatti la sua riduzione volgare in terzine della storia che fu pubblicata la prima volta con il titolo di De lo instinto naturale nella Opera nova del Fregoso Antonio Phileremo (Milano 1525; ristampata in A. Fregoso, Opere, a cura di G. Dilemmi, Bologna 1976, pp. 308-323).
Opere: Un brevissimo Secretum pro fistula, scritto nel 1475 (Los Angeles, University of California, Biomedical Library, Benjamin, 13); il Consilium de ardore urine, cuius sunt duo tractatus, composto prima del 1478, probabilmente durante il primo insegnamento pisano (Firenze, Biblioteca Riccardiana, Mss., 868, cc. 84r-107v; Biblioteca apost. Vaticana, Ross., 672 [X 52] pubblicato in calce al De urinis et pulsibus di Egidio di Corbeil, Venezia 1514); una breve Descrittione della proprietà et qualità del Bagno al Morbo scritta in volgare, probabilmente dopo il 1482, per Lorenzo de' Medici e sua moglie Clarice Orsini, ove si parla del luogo e delle proprietà curative di alcune acque termali site alle porte di Volterra (in Arch. stor. comunale di Volterra, 5706, filza 40; Documenti riguardanti Volterra, filza 5, n. 25; pubblicato in L. Guerra-Coppioli, Il Bagno a Morba nel Volterrano e m. Pierleone da Spoleto, medico di Lorenzo il Magnifico, Siena 1915); un Consilium medicinale indirizzato verso gli anni 1489-90 al cardinale Marco Barbo (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 5641, c. 225v); le Recollectiones de febribus o De differentiis, causis et signis febrium. Si tratta di reportationes dell'insegnamento padovano del 1491 (Cambridge, Trinity College Library, Mss., 1398 I, cc. 1r-13v; Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1353, cc. 78r-87r); l'Opus medicarum curationum, scritto o divulgato probabilmente durante il corso padovano del 1491 (Cambridge, Trinity College Library, Mss., 1398 I, cc. 14r-25r; Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1353, cc. 58r-78r); la sopra citata traduzione latina dell'Epistola di Ḥayy ibn Yaqẓān ancora inedita.
È perduta la Tabula materiarum medicarum registrata al n. 86 del catalogo della biblioteca del L., pubblicato da Dorez. Di incerta attribuzione sono altre opere, comunque perdute, ricordate, non si sa sulla scorta di quale fonte, da Angelo Fabroni: Commentarii in Galenum, Commentarii de rebus mathematicis, Opusculum de annulis aliisque signis magicis (un'opera sui talismani), Synopsis de hominis natura. Rimangono poi del L. quattro lettere: quella citata, latina, dell'8 luglio 1475 agli Ufficiali dello Studio di Pisa (pubblicata da Guerra-Coppioli, p. 405) e tre volgari a Lorenzo de' Medici del 4 luglio 1477, 4 giugno 1489 e 19 ag. 1491 (ibid., pp. 406 s., 423-426, 426 s.).
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