GUICCIARDINI, Piero
Nacque a Firenze nel 1376 da Luigi di Piero e da Costanza di Leonardo Strozzi.
La famiglia, definita da Francesco Guicciardini "di buoni popolani", aveva fatto fortuna nella seconda metà del '300 con la manifattura della lana e con l'attività bancaria, tanto che il nonno del G., Piero di Ghino, era considerato uno degli uomini più ricchi di Firenze. Il padre del G. era stato un uomo politico di primo piano e aveva conseguito per tre volte la carica di gonfaloniere di Giustizia.
La fonte principale per la biografia del G. è costituita dalle Memorie di famiglia di Francesco Guicciardini, il quale, volendo ricercare le origini della sua famiglia, dedica diverse pagine al G., di cui fu pronipote in linea diretta. Grazie a quest'opera conosciamo del G. le caratteristiche fisiche: "Fu uomo bello, grande e gagliardo" e il profilo morale, non interamente lusinghiero: "uomo dabbene, magnifico e generoso", ma anche "manesco" e "lussurioso", soprattutto in vecchiaia. Fu però onestissimo nella gestione delle cose di Stato, dal momento che, nonostante avesse occupato molte posizioni di potere, morì quasi povero.
La fama della ricchezza paterna fu senza dubbio all'origine di una disavventura cui il G. andò incontro il 10 dic. 1400, di cui egli ha lasciato un particolareggiato racconto in un ricordo autobiografico tuttora conservato nell'Archivio della famiglia Guicciardini: mentre tornava da un viaggio in compagnia del suocero, Bartolomeo Valori, il G. fu vittima di un sequestro di persona nei pressi di Cortona da parte di Ottobono Terzi, allora condottiero al servizio del duca di Milano, con cui Firenze era in guerra. Fu rilasciato solo il 28 giugno 1404, grazie ai buoni uffici di Paolo Orsini, a cui però dovettero essere pagati 500 fiorini, dopo il versamento da parte della famiglia di un ingente riscatto. L'episodio è riassunto abbastanza fedelmente da P. Litta, mentre il racconto che ne fa F. Guicciardini nelle sue Memorie differisce in alcuni punti, per il fatto che, come afferma R. Ridolfi, lo storico non conobbe il frammento autobiografico.
Alla morte del padre del G., nel febbraio 1403, la sua cospicua fortuna fu divisa in parti uguali fra i tre figli maschi: Giovanni, Niccolò e il Guicciardini. Questi però a distanza di alcuni anni si trovò in difficoltà economiche e rischiò addirittura il fallimento, da cui si salvò vendendo molti dei suoi beni; in seguito, tuttavia, la sua situazione migliorò e in occasione del catasto del 1427 dichiarò beni mobili e immobili per un valore di 5000 fiorini, collocandosi al sessantatreesimo posto tra i cittadini più ricchi del quartiere S. Spirito; tuttavia grande era il divario che lo separava dal fratello Giovanni (Niccolò era già morto) che, pur partendo da un'identica situazione, era al tredicesimo posto, con beni per un valore di più di 10.000 fiorini.
Questa disparità derivava indubbiamente dal fatto che il G., pur essendo iscritto all'arte della lana e a quella del cambio, non aveva alcun interesse per gli affari, che lasciava interamente gestire ad altre persone, trascurando perfino di rivedere i conti delle sue aziende.
Il suo unico centro di interesse era infatti la vita politica, in cui fece ingresso effettivo nel 1415-16 (prima aveva esercitato solo incarichi nel dominio fiorentino) con la sua prima missione diplomatica (25 giugno 1415) e con l'elezione a priore per il quartiere di S. Spirito per il bimestre settembre-ottobre 1416; da allora la lista delle cariche da lui rivestite diviene fittissima. All'interno della città fu membro di quasi tutte le magistrature collegiali più importanti, come i Dieci di balia nel 1432, 1437 e 1439; i Dodici buonuomini (nel 1425 e 1436), i Regolatori delle Entrate e Spese (nel 1435), i Consoli del Mare (nel 1431); per quattro volte fu membro della Signoria: una volta come priore nel 1416, altre tre come gonfaloniere di Giustizia, rispettivamente nei bimestri novembre-dicembre 1421, novembre-dicembre 1435 e marzo-aprile 1439.
Fu impegnato in incarichi di rettore in nome del Comune di Firenze in vari centri del dominio: capitano di Castrocaro nel 1409, vicario della Valdera nel 1412, capitano di Arezzo nel 1423, podestà di Prato nel 1424; capitano di Pisa nel 1429-30, podestà di Pontassieve nel 1434. Fu rettore forestiero in altri Stati italiani: nel 1417 vicario a Piombino e nel 1419 podestà di Perugia.
Fu anche designato come capitano della flotta mercantile del Comune di Firenze, in occasione di un viaggio in Egitto cominciato il 4 sett. 1422.
Il capitano della flotta era scelto dal governo fiorentino, proprietario delle imbarcazioni che talvolta venivano noleggiate a privati, e aveva il compito di rappresentare l'ente proprietario a bordo delle navi e nei porti in cui esse facevano scalo. Non era quindi richiesta al capitano alcuna competenza nautica, bensì l'abilitazione alle cariche pubbliche del Comune.
Le navi che il G. doveva dirigere nel viaggio in Egitto erano due galee grosse da trasporto, varate nel luglio 1422, quasi contemporaneamente a due galee sottili, con le quali costituivano l'intera flotta del Comune di Firenze che, dopo l'acquisto di Porto Pisano nel 1406 e di Livorno nel 1421, voleva accreditarsi come potenza marinara. Le due galee sottili erano partite per l'Egitto il 12 luglio 1422 con i due oratori fiorentini Felice Brancacci e Carlo Federighi, incaricati di negoziare un trattato commerciale tra i due potentati. I due ambasciatori non poterono tornare in patria con le stesse navi dell'andata, ma si imbarcarono sulle galee grosse comandate dal G. che il 15 nov. 1422 salparono da Alessandria d'Egitto per la Toscana. Per le avverse condizioni meteorologiche il viaggio si concluse solo dopo quasi tre mesi, l'11 febbr. 1423.
Gli furono frequentemente affidate anche importanti ambascerie e numerosi incarichi di commissario militare presso i vari capitani di ventura assoldati dal Comune di Firenze nelle guerre antiviscontee; la sua carriera diplomatica cominciò il 25 giugno 1415, poco prima della sua prima elezione al priorato, con un'ambasciata a Bologna, presso il legato apostolico che governava la città e che la recente deposizione di papa Giovanni XXIII aveva messo in una posizione incerta; il G. visitò poi il condottiero Andrea Fortebracci (Braccio da Montone), che aveva approfittato della situazione per occupare diversi castelli della zona e i Malatesta, signori di Rimini, per tentare una mediazione tra essi e il condottiero. Questa inimicizia contribuiva a destabilizzare ulteriormente la Romagna, divenuta teatro delle iniziative militari dei Visconti, contro il Comune di Firenze.
I contenuti di questa missione sono riassunti nel rapporto finale fatto dal G. alla Signoria di Firenze, dove tuttavia il suo nome è omesso (Arch. di Stato di Firenze, Signori, Carteggio, Rapporti di oratori, 2, c. 27v).
Nell'autunno 1416 dovette partecipare a un'ambasceria all'imperatore eletto Sigismondo di Lussemburgo per ricercarne l'appoggio contro i duchi di Milano.
Alla fine di questa missione, su cui non si hanno notizie precise, in data 30 nov. 1416 al G. fu conferita da Sigismondo (probabilmente grazie ai buoni uffici di Filippo Scolari, detto Pippo Spano, cancelliere e tesoriere imperiale, imparentato con i Buondelmonti, famiglia da cui proveniva la terza moglie del G.) la qualifica di conte palatino, ossia rappresentante dell'imperatore, con facoltà di legittimare i figli bastardi e creare notai (Guicciardini - Dori, p. 128).
Nel dicembre 1416 fu di nuovo inviato, con Agnolo Pandolfini, a fare da mediatore tra Braccio da Montone e i Malatesta.
Il 12 febbr. 1424 il G. fu mandato, ancora con Pandolfini, presso Braccio da Montone, che assediava L'Aquila, per esortarlo ad aumentare il contingente di soldati messo a disposizione di Firenze e a portarsi urgentemente in Romagna da dove provenivano per Firenze i maggiori pericoli. Il G., nonostante la buona accoglienza e le promesse del Fortebracci, non riuscì a convincere quest'ultimo a muoversi verso la Romagna prima di avere espugnato L'Aquila; la morte del Fortebracci, avvenuta di lì a poco, non gli consentì di onorare le promesse.
Il 18 genn. 1425 il G. fu inviato a Siena a negoziare l'assoldamento congiunto, da parte di quella Repubblica e del Comune di Firenze, di Francesco Sforza, ma l'accordo non fu concluso per le sue eccessive pretese finanziarie. Sempre nel 1425 fu inviato il 26 marzo come commissario dei Dieci di balia a Faenza, per riorganizzare e riunire in quel luogo le milizie fiorentine, sbandate dopo la recente sconfitta di Zagonara. Vi rimase fino alla fine di ottobre 1425, quando il teatro delle operazioni militari si spostò verso il Casentino.
Il 22 luglio 1427 fu nuovamente inviato ambasciatore a Sigismondo, con Luca Albizzi, che però si ammalò e dovette tornare indietro, lasciando il G. a condurre a termine da solo la missione. Il 21 giugno 1430 fu inviato a Venezia, con Bernardo Guadagni, per rispondere alle richieste di contributi militari e finanziari avanzate da quella Repubblica per rinnovare il trattato di alleanza con Firenze.
Gli oratori fiorentini avevano ricevuto istruzioni di acconsentire genericamente alle richieste veneziane, senza impegnarsi a cifre precise, che avrebbero suscitato le proteste dei Fiorentini, sottoposti ormai da tempo a forte pressione fiscale. Essi tuttavia si esposero ai rimproveri del loro governo per aver promesso addirittura più di quanto richiesto da Venezia. Comunque il trattato di alleanza fu rinnovato ed essi lo sottoscrissero a nome del Comune di Firenze.
Il 3 apr. 1431 fu inviato come commissario dei Dieci di balia a Volterra, una delle città soggette a Firenze ove i nemici di Firenze (e anche lo stesso Sigismondo) più si impegnavano a fomentare rivolte antifiorentine. Nel maggio-luglio 1423 fu commissario militare presso il condottiero Niccolò da Tolentino, recentemente assoldato dal Comune di Firenze e in quel momento impegnato nel Valdarno inferiore a contrastare l'avanzata di Sigismondo che, diretto a Roma per l'incoronazione imperiale, aveva fatto sosta a Lucca ma poi, ostacolato dalle milizie del Tolentino, appoggiate anche dal papa, fu costretto a riparare a Siena. Nell'agosto 1432 il G. fu pertanto inviato a Siena per cercare un onorevole accordo con quella Repubblica e con Sigismondo. La missione, affidata prima al solo G., cui poi fu affiancato Agnolo Pandolfini, non ebbe risultati.
Parallelamente agli incarichi ufficiali, egli veniva spesso chiamato o in virtù della carica che ricopriva o indipendentemente, in qualità di "arroto", a dare il proprio parere sulle principali questioni politiche nelle consulte e pratiche, i consigli segreti riuniti dalla Signoria per consultarsi con i cittadini più influenti.
L'attività pubblica del G. ebbe una brusca, ma transitoria, interruzione con gli avvenimenti del settembre 1433, che a Firenze portarono allo scontro aperto le due fazioni in cui ormai si era spaccata la classe dirigente e al temporaneo prevalere della fazione albizzesca.
Il G., membro della classe dirigente selezionatasi attraverso la chiusura oligarchica dell'ultimo ventennio del sec. XIV, aveva rapporti di parentela e amicizia con molte delle famiglie più importanti di Firenze; appare particolarmente legato ai Medici, dai quali aveva in più occasioni ricevuto anche prestiti in denaro, ma fino alla spaccatura degli anni Venti non si ha l'impressione di una precisa scelta di campo. Le cose cambiarono quando, nel giugno 1433, egli dette in sposa la figlia Costanza a Francesco di Giuliano di Averardo de' Medici, parente e stretto collaboratore di Cosimo il Vecchio. Questo matrimonio certifica il definitivo passaggio del G. alla fazione medicea. A detta di F. Guicciardini (Le cose fiorentine, p. 225) e di Giovanni Cavalcanti (Istorie fiorentine, pp. 509 s.) il G., quando seppe che Cosimo de' Medici era stato convocato al palazzo per essere interrogato da una commissione nominata dalla Signoria in carica, in prevalenza filo-albizzesca, gli andò incontro per dissuaderlo ad andare e a metterlo in guardia da quello che a molti pareva un vero e proprio tranello. Cosimo, tuttavia, per lealtà verso le istituzioni volle obbedire all'ordine e fu fatto prigioniero. Altri storici e cronisti identificano però il consigliere di Cosimo in Piero Ginori (Lami).
Mentre il G. era fedele sostenitore della parte medicea, il fratello minore Giovanni, a riprova del fatto che le due fazioni, pur divise negli obiettivi politici, avevano una base sociale pressoché uguale, aveva scelto la fazione albizzesca e, benché fosse esistita in passato una certa rivalità fra i due fratelli, soprattutto dopo che Giovanni era stato insignito nel 1427 della dignità cavalleresca, nell'agitato biennio 1433-34 essi dimostrarono, nonostante le opposte scelte di campo, reciproca lealtà e solidarietà.
Nel settembre 1433 il prevalere della fazione albizzesca avrebbe potuto significare per il G. non solo la fine della carriera politica, ma anche la rovina economica, in quanto la condizione di ribelle comportava solitamente anche la confisca dei beni; la sua carriera politica conobbe effettivamente una pausa, ma da conseguenze più gravi lo salvò la mediazione del fratello Giovanni che prima di tutto lo convinse ad allontanarsi da Firenze. Il caso volle che proprio in quei giorni il G. fosse estratto a sorte podestà di Pontassieve, un incarico minore che probabilmente in altre circostanze avrebbe rifiutato; la sua assenza da Firenze per un semestre contribuì a stemperare l'animosità degli avversari. Per tutto il tempo dell'esilio dei Medici il G. rimase tuttavia uno dei loro principali informatori e dette un contributo importante nell'orientare parte della classe dirigente, che non si era ancora schierata apertamente, a favorire il ritorno dei Medici a Firenze. Quando nel settembre 1434 i Medici tornarono al potere il G., membro della Balia promotrice del loro richiamo, si avvalse della sua posizione per proteggere il fratello Giovanni da rappresaglie.
Dopo il trionfo definitivo dei Medici gli incarichi pubblici del G. ricominciarono a ritmo più serrato di prima: fu uno degli accoppiatori eletti dalla Balia del 1434 con il compito di rifare le liste elettorali, depurandole dei nomi degli avversari dei Medici, e fece parte delle Balie medicee istituite dopo il 1434. Tornò a far sentire la sua voce nell'ambito delle consulte e pratiche tanto che, a detta di F. Guicciardini, dopo lo stesso Cosimo de' Medici e Neri di Gino Capponi divenne l'uomo più influente della città (Memorie, p. 13). A riprova di ciò sta il fatto che quando nel novembre 1435 si scoprì in Livorno un complotto antimediceo organizzato dalla famiglia Barbadori, uno degli obiettivi confessati dai responsabili fu proprio l'uccisione del G., con quella di Neri Capponi e dello stesso Cosimo. Al G., più che ad altri capi della fazione medicea, venivano dirette le istanze degli esiliati nel 1434 per ottenere il perdono ed essere riammessi a Firenze.
Dopo il settembre 1434 ricominciarono a ritmo ulteriormente aumentato gli incarichi esterni del G.: il 3 marzo 1435 fu inviato, con Luca Albizzi, come commissario militare a Francesco Sforza, passato al servizio dei Fiorentini; il 7 apr. 1435 fu inviato sempre come commissario militare presso Niccolò Piccinino, che, dopo aver a lungo militato per i Visconti, era passato al servizio di Firenze e si trovava in Casentino; da lì andò in Romagna ove riprese possesso di alcune località della Romagna toscana, come Dovadola, Portico e Rocca San Casciano, passate di mano poco prima; oltre a varie missioni diplomatiche minori, come quella del gennaio 1436, quando fu inviato a Porto Pisano a rendere omaggio ad Alfonso di Aragona, re di Napoli, che vi faceva tappa, vi fu quella che nel giugno 1437 lo portò a Bologna presso papa Eugenio IV.
Il papa, che al momento della sua elezione aveva promesso di indire un concilio diretto, tra l'altro, a riunire le Chiese latina e greca, aveva in un primo momento designato come sede Basilea ma poi, sentendosi più sicuro in Italia, l'aveva trasferita prima a Ferrara e poi a Bologna; tuttavia un gruppo di cardinali disobbedienti era rimasto a Basilea e si cercava, con l'appoggio di qualche potentato italiano, di indurli a venire in Italia. La Signoria di Firenze aveva già presentato la candidatura della città come sede dei lavori e al G. spettò il compito di esporla ufficialmente alla presenza del papa e dei cardinali che lo avevano seguito a Bologna (l'orazione del G. è in E. Cecconi, Studi storici nel concilio di Firenze, Firenze 1869, pp. CCCLIX-CCCLXI); contemporaneamente egli, in accordo con il papa e con il suo governo, inviò corrieri a portare messaggi convincenti ai cardinali rimasti a Basilea, tanto che di lì a poco i lavori del concilio furono effettivamente trasferiti a Firenze.
Sempre nel 1437 fu inviato a Reggio Emilia come commissario militare presso Francesco Sforza, assoldato in comune da Firenze e Venezia; di lì passò a Venezia per discutere dell'assoldamento di Luigi Sanseverino. Nel 1439 fu di nuovo eletto capitano delle galee fiorentine per un viaggio per mare, ma non accettò, presumibilmente perché impegnato in altre cariche. Nel 1440 fu inviato a Foiano a dirimere una controversia di confini con la Comunità di Lucignano.
Il 17 giugno 1441 fu inviato di nuovo come commissario militare presso lo Sforza, che allora si trovava a guerreggiare presso Martinengo, nel Bresciano. Vi arrivò il 20 luglio, ma non poté nemmeno iniziare la sua missione perché immediatamente si ammalò. Fu trasferito a Brescia, ove morì i primi di agosto del 1441.
Quando a Firenze giunse la notizia della sua morte, fu presentata una proposta di legge per decretare per lui funerali di Stato, ma non fu approvata.
Il G. si sposò tre volte: la prima con Laudomia di Donato Acciaiuoli nel 1395, la seconda con Giovanna di Bartolomeo Valori nel 1399; la terza con Angela di Andrea Buondelmonti; solo da quest'ultima ebbe figli: Luigi, Niccolò, Iacopo, Maddalena, Laudomia e Costanza.
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