GOBETTI, Piero
Nacque a Torino il 19 giugno 1901 da Giovanni Battista e Angela Canuto.
Entrambi i genitori, di estrazione contadina, provenivano da Andezeno, nel Chierese. Si erano trasferiti nel capoluogo per intraprendere una piccola attività commerciale, aprendo poi una drogheria in centro, vicino all'abitazione di via XX Settembre, 60. Il G., figlio unico, concentrò su di sé l'amore, le attenzioni e le speranze dei genitori; la madre, in particolare, gli fu sempre al fianco, prestandogli un prezioso aiuto pratico anche nelle attività giornalistiche ed editoriali.
U. Morra di Lavriano, amico e biografo del G. (Vita di P. G., Torino 1984, p. 47), lo presenta, sulla scorta della testimonianza del quasi coetaneo e compagno di scuola A. Viglongo, come un bambino vivace, curioso, di acuta intelligenza, tanto da primeggiare - sebbene non aiutato da un contesto familiare particolarmente preparato - nelle prove di alunno delle elementari Pacchiotti, e da far apparire, a otto anni, la sua firma sul giornaletto scolastico Adolescenza.
In un manoscritto incompiuto e non datato, il G. descrisse così la sua infanzia: "La mia educazione di bambino fu alquanto sommaria, affidata, come succede, a me stesso. Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio. Lavoravano 18 ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero dominante. Nel presente invece godevo della mia libertà: correvo lungo i campi e le rive dei fiumi. Da questa vita di campagna non nacque in me nessuna tendenza idilliaca […]. In genere prevaleva in me il senso dell'avventura umana […] In casa non potevo non sentire le preoccupazioni che a mio padre toglievano il sonno. L'impegno del loro lavoro era di arricchire, e arricchire non soltanto per trovare la vita più facile, ma per tenere alta la testa, permettersi e permettermi una vita dignitosa. In quanto a me, essi pensavano di dovermi dare un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere" (cit. da A. Cabella, Elogio della libertà, Torino 1998, pp. 7 s.).
Il G. mostrò non comune precocità intellettuale; non particolarmente sviluppato nel fisico fino a sedici anni, alla visita di leva risultò "1,73 e mezzo di altezza e 77 di torace" (P. e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, a cura di E. Alessandrone Perona, Torino 1991, p. 366). Studente al ginnasio Balbo e al liceo Gioberti, fu allievo di U. Cosmo, che lo iniziò all'amore per Dante, del poeta C. Corrado in lingua e letteratura italiana, del latinista L. Galante e del gentiliano B. Giuliano in filosofia. Poté sostenere l'esame di licenza liceale nel 1918, in anticipo di un anno, per aver riportato la "menzione onorevole" al termine della seconda classe e per la circostanza, che sembrava non improbabile, di un'eventuale chiamata alle armi.
Dalla "biblioteca" del G. (per la quale cfr. il Catalogo della biblioteca di P. G., a cura di N. Agosti, in Quaderno 8-9 del Centro studi Piero Gobetti, Torino 1964-65) si constata che le sue letture spaziarono in quegli anni da F. De Sanctis a B. Croce, dai giornali di M. Missiroli a La Voce di G. Prezzolini fino a L'Unità di G. Salvemini. Dalle due riviste, in particolare, mutuò il modello dell'intellettuale-editore impegnato a confrontarsi con i problemi del rinnovamento della cultura, della società e dello Stato. Fu, in pari tempo, antidannunziano e ammiratore di A. Oriani; estimatore delle filosofie intuizioniste e spiritualiste francesi, da H. Bergson ai modernisti, e del revisionismo di G. Sorel. Negli anni liceali i classici delle letterature della "Universale Sonzogno" e dell'editore Carabba furono fittamente annotati da un G. letteralmente "affamato di cultura" (Nella tua breve esistenza, p. XII). Secondo Morra, "Slataper e Jahier, Boine e Michelstaedter, e il Papini dell'Uomo finito, questi scrittori essenzialmente protestanti [furono] i termini fissi dell'orizzonte" del Gobetti. Della Riforma, in quanto ultimo grande evento rivoluzionario dopo il cristianesimo delle origini, il G. fu convinto assertore, così come della creazione da parte di questa di un nuovo tipo morale, di individui capaci nel contempo di autonomia e di sacrificio, di senso della responsabilità e di dignità personale, di anticonformismo e gusto per la proprietà (cfr. Il nostro protestantesimo, in Rivoluzione liberale, 17 maggio 1925). Si delineò così nel giovanissimo G., calvinista d'elezione al pari degli "eretici" piemontesi settecenteschi studiati nel postumo Risorgimento senza eroi (Torino 1926), da A. Radicati a V. Alfieri, il profilo di una tempra morale e intellettuale straordinaria, influenzata in profondità soprattutto dalla filosofia idealista, di un carattere plasmato da serietà e persino austerità - imposte anche dalla sfida esistenziale della guerra -, capace di informare una condotta di vita all'insegna del primato dello spirito, della volontà e della libertà individuali sentite con impeto alfieriano. Franco Venturi, cogliendo questo aspetto della personalità gobettiana, affermò che il G. prese "quasi naturalmente […] il suo posto nella serie degli uomini del Piemonte che egli scoprì e studiò" (cfr. la sua Nota introduttiva a P. Gobetti, Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano, Torino 1969, p. 14).
Ada Prospero - figlia di Giacomo e Olimpia Bianchi, agiati commercianti di primizie, di un anno più giovane, e abitante nel suo stesso caseggiato - divenuta, sul finire del 1918, intima amica e poi compagna e collaboratrice per la vita del G., fu colpita proprio dall'inconsueta intensità d'animo, dal suo energico porsi e porre con ardore i problemi dello spirito, dal suo incessante "paradossare" filosofico.
Nel settembre 1918 il G. era un ragazzo "alto, magro, con una gran testa di capelli scaruffati biondo-castani, un paio di occhiali di metallo sul naso aguzzo, e occhi vivacissimi e penetranti dietro le lenti": la descrizione di C. Levi e le parole di Barbara Allason, che ne ricordava gli "occhi ridenti e sulle labbra quasi perennemente il sorriso" (Nella tua breve esistenza, p. XI), coincidono con le fattezze stilizzate nel celebre ritratto eseguito da F. Casorati, l'artista le cui prime opere furono presentate dal G. nelle vesti di editore e critico d'arte nel volume F. Casorati pittore (Torino 1923). Il ritratto di un giovane serio ma non pedante, anzi esuberante, che si completa col profilo spirituale da lui stesso abbozzato in una pagina del 1922: "Credo di poter riconoscere le mie qualità più innate in una fondamentale aridezza e in una inesorabile volontà. […] Ho l'anima e l'inquietudine di un barbaro, con la sensibilità di un cinico; la storia non mi ha dato eredità di sorta; l'ambiente in cui son vissuto non mi ha offerto comunicazioni, non ha alimentato i miei problemi; non devo nulla a nessuno. […] Cinico perché arido, forte perché solo e spregiudicato" (Intenzioni, in P. Gobetti, L'editore ideale, a cura di F. Antonicelli, Milano 1966, pp. 41 ss.).
Il 1918 rappresentò nella biografia del G. l'anno dell'iscrizione alla facoltà di giurisprudenza dell'ateneo torinese, la facoltà politica per eccellenza nella quale era forte l'eco dell'insegnamento elitista di G. Mosca, dove ebbe per maestri L. Einaudi, F. Ruffini e G. Solari. Fu l'avvio di una "prodigiosa" (l'aggettivo fu ripetutamente usato da N. Bobbio negli studi dedicati alla figura e al pensiero del G., ora raccolti in Id., Italia fedele: il mondo di G., Firenze 1986), ancorché brevissima, carriera intellettuale e politica, interrotta dalla repentina scomparsa; carriera suddivisibile in tre fasi, nelle quali il G. apparve progressivamente nella triplice veste di giornalista e critico culturale, di editore e di pensatore politico: il primo periodo, della preparazione o "dell'apertura verso l'esterno", compreso tra il 1918 e il giugno 1920; il secondo, di pausa di riflessione e di raccoglimento interiore al fine di trovare un più solido orientamento, tra il 1920 e la fine del 1921; il terzo, della maturità e dell'azione autonoma, dal 1922 al 1926.
Nel novembre 1918 il G. intraprese l'attività giornalistica, iniziando a collaborare con giornali e riviste (furono almeno venti nel settennio successivo, tra cui L'Unità, L'Educazione nazionale, L'Ordine nuovo, Conscientia, Il Resto del carlino). Ma, soprattutto, fondò con alcuni compagni studenti, tra cui M.A. Levi, G. Manfredini, Ada Prospero, A. e M. Marchesini, E. Ravera, E. Rho - sui quali il G., con la sua "spaventosa cultura", emerse subito come guida intellettuale e morale -, il "periodico studentesco" quindicinale Energie nove, che uscì in due serie consecutive dal novembre 1918 fino al febbraio 1920. Scopo dichiarato fu il "rinnovamento": più concretamente, l'intenzione era quella di "destare movimenti d'idee in [quella] stanca Torino, promuovere la cultura, incoraggiare studi tra i giovani".
Alcuni dei principali temi ivi trattati furono: il risveglio culturale nel segno dell'antipositivismo idealistico e vociano, la questione adriatica, il passaggio dall'industria di guerra a quella di pace, l'antiprotezionismo, l'antigiolittismo, l'antistatalismo, la ricostruzione istituzionale appaiata alla riforma della burocrazia, il socialismo, la riforma scolastica, nella quale si rivelò preminente l'influsso del pedagogista G. Lombardo Radice. L'atmosfera del periodico fu determinata dai principali movimenti della cultura neoidealistica italiana del tempo: la filosofia dello spirito di Croce, l'attualismo di G. Gentile, il vocianesimo, il liberalismo e il pensiero democratico di Salvemini e di Einaudi (da sottolineare l'influsso esercitato inizialmente sul G. dal liberismo antiprotezionista rappresentato da La Riforma sociale). Con Einaudi, molti studiosi come Croce, Giuliano, A. Loria, R. Mondolfo, G. Prato, G. De Ruggiero, M. Valgimigli, collaborarono alla rivista.
Dopo l'idealismo di Croce - della cui "religione della libertà" il G. anticipò la sostanza alfieriana e l'icastica formula -, fu l'attualismo di Gentile, avvertito allora come completamento necessario della filosofia crociana, a condizionare la visione generale del G. di Energie nove. Il 7 ag. 1919 scrisse alla fidanzata che si avvicinava alla posizione di Gentile "dopo la lunga meditazione critica del Croce"; dopo qualche giorno, però, avvertiva che era "sciocco quel parlar con un certo disprezzo del Croce che van facendo i gentiliani", in quanto "Gentile non si può pensare senza Croce". E, secondo il G., fu ancora Gentile a dargli una "veduta chiara" del Marx filosofo (Nella tua breve esistenza, pp. 89, 97, 121).
Tuttavia, dal punto di vista della prassi, il rapporto con il più concreto "problemismo" salveminiano ed einaudiano costituì il suo riferimento nell'immediata azione politica. Nel 1919 aderì alla Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale fondata da Salvemini, e sostenne fattivamente la candidatura torinese dell'imprenditore liberista E. Giretti alle elezioni politiche. Nell'aprile di quell'anno, a seguito della partecipazione al primo convegno degli unitari a Firenze (dove conobbe personalmente anche Prezzolini, subendone il fascino di "editore più intelligente d'Italia") il G. ricevette da Salvemini la proposta di dirigere L'Unità. Rifiutò l'offerta, ma si impegnò in un'intensa attività di propaganda e di formazione a Torino, dove fondò e guidò il gruppo di amici dell'Unità di cui fecero parte, oltreché gli amici studenti, anche professori come Einaudi e Prato; a livello nazionale progettò una "scuola di propaganda politica", un "cenacolo di Energie nove"; infine, pur già in crisi di fiducia nei confronti del movimento dopo il convegno romano del giugno 1920, accettò la nomina a segretario dell'organizzazione dei salveminiani.
Il programma diseguale di Energie nove sembrò essere "più effervescente che chiaro" (N. Bobbio, Trent'anni di storia della cultura a Torino, 1920-1950, Torino 1977, p. 5). In effetti il pensiero del G. vi si delineò frammentario, in formazione e, per ciò stesso, talora apparentemente privo di profonda coerenza e unità, contraddittorio, a volte troppo saccente e impertinente, ma non da "parassita della cultura" come, con eccessiva acrimonia (non giustificata neppure dall'attitudine gobettiana a troppo rapidi e iconoclastici giudizi di ispirazione idealistica), ebbe a definirlo P. Togliatti in un articolo stroncatorio apparso sull'Ordine nuovo (15 maggio 1919). Ciò premesso, in sede di bilancio storico si può però affermare che in esso si mostrava già la tendenza ad affrontare le grandi questioni teorico-politiche attuali; il privilegio della dimensione nazionale (ma non nazionalista) dei problemi vi emerse come il dato politico portante della prima riflessione del G., come si può desumere, tra l'altro, dal lungo articolo del primo numero di Energie nove dedicato alla Questione jugoslava e dal contributo recato nel gennaio 1919 (n. 5) al dibattito sull'istituzione della Società delle nazioni. Da quest'ultimo trapelava, altresì, una diffidenza pessimista verso "l'astrattismo" dei sogni pacifisti, un'incomprensione - rilevata dal biografo A. Cabella - verso le aperture europeiste e federaliste, viceversa così originalmente espresse da uomini a lui vicini come Einaudi e A. Cabiati. Altrettanta diffidenza mostrò il G. di Energie nove, già impegnato nella ridefinizione di un'Italia meno centralista e più autonomista (che fece un deciso passo avanti con la successiva "scoperta" di C. Cattaneo), verso il regionalismo "astrattamente" inteso, in quanto riteneva che nell'Italia dell'Ottocento ciò fosse stato spesso pretesto per la difesa di interessi conservatori. Propose, ai fini di una riforma, l'istituzione di "unità politiche più piccole", la Provincia e il Comune, sostenendo doversi rafforzare l'autonomia di cui godevano nel campo amministrativo. Lasciando a questi la facoltà d'associazione secondo i rispettivi interessi, si sarebbe ottenuta una base per il loro ordinamento senza infrangere l'organicità dello Stato in quanto supremo controllore, cui spettavano la rappresentanza sovrana del Paese, la difesa dei confini, il potere legislativo, il bilancio e le imprese nazionali (La riforma dell'amministrazione, in Energie nove, 5 maggio 1919).
La disillusione nei confronti dell'efficacia delle parole d'ordine degli unitari e della loro incapacità di tradurle in termini politico-organizzativi, sia per il rapporto ambiguo instauratosi con il movimento combattentistico, sia per il concreto atteggiamento dei liberisti antiprotezionisti eletti in Parlamento e alleatisi con i nazionalconservatori ("Roma politica è un semenzaio di mascalzoni e un covo di ladrerie", sempre ad Ada il 25 sett. 1919), fece maturare un senso di solitudine politica nell'intransigente G. e, nella prima metà del 1920, indusse in lui l'esigenza di aprire una pausa di riflessione destinata a preludere a una svolta ideale e politica.
Il 12 febbraio dichiarò esser necessario un periodo di "silenzio onesto" e di sospensione del periodico "per chiarire le responsabilità […] per maturare in un dissidio fecondo le nostre possibilità realizzatrici" (Intermezzo, in Energie nove, 12 febbr. 1920). Il pericolo stava infatti non nella mancata realizzazione di primi risultati, ma nell'accontentarsi "di una concretazione frammentaria, effimera". Per Energie nove si poneva, dunque, il dilemma di superare l'entusiasmo dei primi tentativi, di maturare completamente.
A questo fine furono decisivi altri fattori, concatenantisi tra loro fino a formare una nuova piattaforma ideologica per l'azione. Da un lato, sembrò al G. - di fronte allo sfascio dello Stato liberale unitario - non più procrastinabile una riflessione critica sul Risorgimento, chiarificatrice delle cause della mancata rivoluzione borghese e quindi della mancata formazione in Italia di una classe politica dirigente ("ideologia dell'assenza" ha definito C. Pogliano il pensiero critico del Gobetti). D'altro lato, subentrò vivissimo il desiderio di studiare e approfondire gli eventi della rivoluzione sovietica, in conseguenza sia di un più generale interesse per la letteratura e la cultura russe (nel frattempo il G. e Ada imparavano dall'esule Rachele Gutman, moglie del traduttore A. Polledro, la lingua russa e divenivano a loro volta traduttori di L.N. Andreev, A.S. Puškin e A.I. Kuprin), sia di un avvicinamento ai problemi sociali rappresentati dal movimento torinese di occupazione delle fabbriche e dei consigli operai.
Tale atteggiamento era stato anticipato in articoli quali, per esempio, Frammenti di estetismo politico (in Energie nove, 30 nov. 1919), dove il G. affermava di sentire come storico "il gigantesco lavoro costruttivo dell'opera di Lenin". Di qui gli studi letterari e politici sulla Russia, l'immenso paese i cui problemi di assenza di "intelligencija e rivoluzione" il G. sentì "fusi" (come ha notato V. Strada) con la vivente realtà italiana; partendo dalla constatazione dell'assenza del "momento" liberale nella storia russa si fece strada nel G. un'interpretazione "liberale" dell'Unione sovietica nella quale Lenin e L.D. Trockij rappresentavano paradossalmente "la negazione del socialismo e un'affermazione e un'esaltazione di liberalismo" proprio perché avevano dato soluzione all'esigenza di modernizzazione della società russa liquidando contemporaneamente "come elementi attivi della storia, lo czarismo e l'utopia degli astratti ragionatori" (Energie nove, 25 luglio 1919).
A conclusione di questa fase di preparazione risultarono chiaramente enucleati alcuni tratti della personalità del G. che si posero in soluzione di continuità con le esperienze successive: il moralismo, l'intransigenza, e quello che la salveminiana Elsa Dallolio, nel marzo 1920, definì il "metodo Gobetti" di militanza intellettuale e politica, consistente nella predilezione per gli interventi gruppuscolari al fine di preparare i giovani alla lotta delle idee, per dar loro un'educazione politica, piuttosto che mirare a costituire un partito capace di conseguire risultati immediati sul terreno politico. Tra il 1920 e il '21, a margine di una massacrante attività di studio (dalle 14 alle 16 ore giornaliere), il G. continuò a pubblicare contributi di critica letteraria, artistica e di politica presso organi di stampa a lui vicini, precisando, così, le ragioni della sua svolta.
Fu il periodo degli approfondimenti dell'elitismo di Mosca e di V. Pareto, dell'intuizionismo bergsoniano, dello spiritualismo cattolico modernista di L. Laberthonnière (di cui tradusse per i tipi dell'editore Vallecchi, Firenze 1922, il primo volume dell'opera Le réalisme chrétien et l'idéalisme grec) e di M. Blondel, degli studi su Dante e Leopardi, dei saggi critici sulla filosofia di Gentile, su L. Ornato, G.M. Bertini e F.H. Jacobi.
Il G., nel contempo, frequentava con assiduità i corsi universitari, in particolare quello di scienza delle finanze con Einaudi e di filosofia del diritto con Solari. Completò così gli esami e riuscì a laurearsi a tempo debito, nel giugno 1922, a pieni voti, con lode e dignità di stampa, con una tesi su La filosofia politica di V. Alfieri, discussa con Solari e pubblicata nel 1923 (Torino) dall'amico editore pinerolese A. Pittavino; nella seconda metà del 1921, svolse altresì il servizio militare (interrotto a dicembre per una licenza semestrale) in una Torino profondamente turbata dalle lotte operaie e dalla montante reazione fascista.
Il momento culminante della riflessione del G., da lui stesso e dagli interpreti concordemente riconosciuto come la prima anticipazione dei temi del "Risorgimento senza eroi" e della "rivoluzione liberale", è da vedersi nell'articolo, apparso il 30 nov. 1920 su L'Educazione nazionale di Lombardo Radice, col titolo La rivoluzione italiana e con l'esplicito sottotitolo Discorso ai collaboratori diEnergie nove.
Il punto di partenza ora non era più costituito dalla presa di coscienza dell'invecchiamento e della stasi della cultura nell'Italietta giolittiana e, di conseguenza, dall'aspirazione, talora disordinata, a un "rinnovamento" o "risveglio", ma dalla constatazione storico-politica grave, nel pieno della crisi dello Stato monarchico-liberale, del fallimento ideale dell'Italia, consistente nell'assenza di una effettiva coscienza unitaria a fronte di una retorica ipocritamente risorgimentalpatriottarda, la cui revisione critica il G. fu tra i primi ad avviare: "Constatiamo. Oggi è morta l'idea di patria. Ce ne dobbiamo rallegrare. Abbiamo negato il mito sentimentale di un'Italia, madre di tutti, venerabile per le sue glorie, dolorante per le sue ferite. Fuori dalla puerilità della cara terra natia, sostituiamo alla patria lo Stato. Questa è una conquista notevole della rude affermazione realistica del materialismo storico. Ma che valore ha per noi lo Stato?". Lo Stato era, per il G., il popolo, uno Stato-popolo inteso ancora con echi gentiliani: ma l'anima dell'organismo statale era il popolo concepito mazzinianamente, dovere dello Stato era quello di realizzare l'unità che né la nazione né la patria avevano potuto conseguire. La classe politica liberale postcavouriana non si era dimostrata all'altezza del compito di unificare sostanzialmente l'Italia, ossia il Nord industriale col Sud contadino, le classi sociali produttrici tra di loro, la borghesia dei capitani d'industria e il proletariato delle grandi fabbriche. Il liberalismo, sopravvissuto con Giolitti come mera arte di governo, era morto sul piano ideale, nonostante la tormentata opera vivificatrice di Salvemini; il cattolicesimo, di cui il neonato partito popolare di L. Sturzo era, secondo il G. del 1921, l'erede conservatore, aveva partecipato all'uccisione del liberalismo, ma ne era stato intimamente indebolito; il socialismo, irretito nella logica statalista delle piccole riforme dall'alto, in quanto mito salvifico si sfasciava nel momento della rivoluzione condotta dal basso, direttamente dal movimento operaio. Occorreva pertanto riconoscere dialetticamente la fine del vecchio liberalismo conservatore e negare gli elementi antistorici del cattolicesimo e del socialismo per conclamare invece "l'idea nuova": "il valore nazionale del movimento operaio", una classe sociale dalla cui opera di autoliberazione sarebbe, forse, potuto rinascere il nuovo Stato italiano. In questo senso il movimento operaio era da considerarsi l'esponente principale di un'inedita "rivoluzione liberale": gli operai che creavano i consigli di fabbrica come embrioni di un "ordine nuovo" non avrebbero instaurato semplicemente un comunismo marxianamente inteso, bensì un ordine, socioeconomico e politico, caratterizzato dall'autogestione decisa dal basso. La prospettiva di una dittatura collettivista sarebbe stata d'impossibile attuazione in Italia; ma il movimento che partiva dagli operai avrebbe comunque favorito una ricostruzione nazionale alla quale, secondo il G., occorreva prestare collaborazione ponendo in chiaro i termini ideali della prima rivoluzione laica; insistendo sui contadini come fattore basilare dell'unità e sulla funzione unitaria del Comune socialista; demistificando i caratteri ideologici della rivoluzione sovietica, collegandone, piuttosto, lo svolgimento al tradizionale movimento slavo, mistico e antizarista.
La nuova fase di elaborazione, seppur si pose di massima in prosecuzione ideale con la precedente, introdusse però anche cesure su punti importanti. Risultarono più evidenziati atteggiamenti antistatalisti e antinazionalisti, ma non antistatali o antinazionali, poiché anzi, pur nella fase più matura, la maggiore preoccupazione del G. continuò a essere quella di formare una classe dirigente statale, politica e amministrativa, che si facesse carico della mancata rivoluzione democratico-nazionale in Italia. La stessa critica al Risorgimento - che, nonostante le carenze notate da A. Omodeo, inaugurò una revisione profonda della storia nazionale (P. Bagnoli) - appariva orientata non a una distruttiva presa di distanza, bensì a ristabilire il nesso culturale e politico tra Italia ed Europa - così presente a partire dagli "eretici" piemontesi settecenteschi fino a Cavour, ma successivamente disatteso - ai fini di un riallineamento dello Stato nazionale ai più avanzati modelli europei. Appariva, inoltre, concettualizzato, già sul finire del 1921, quell'"operaismo liberale" che P. Spriano vide alla base della nuova proposta di "rivoluzione liberale". Da questo punto di vista, l'insegnamento di Marx fu valutato dal G. come fonte d'ispirazione in quanto filosofia rivoluzionaria fondata sul conflitto di classe, mentre caduche e superate sembrarono al suo liberismo einaudiano le opere segnate dal determinismo economico.
Dietro tale elaborazione - che lo spinse a differenziarsi politicamente dalla posizione salveminiana (al cui "astratto" democraticismo venne rimproverato di non aver saputo ben valutare il nuovo ruolo della classe operaia), ma non ad abbandonarla totalmente, bensì a indirizzarsi sulla strada di una "rinnovazione" nel segno dell'interesse verso la filosofia militante e autonomistica di C. Cattaneo, suggerita dalla pubblicazione delle "più belle pagine" di quest'ultimo da parte di Salvemini - c'era l'avvicinamento del G. al gruppo torinese dell'Ordine nuovo guidato da A. Gramsci. In effetti, nell'agosto-settembre 1920, il G., colpito dall'esperienza dell'occupazione e dei consigli di fabbrica, aveva incominciato a frequentare la redazione dell'Ordine nuovo.
Da Torino, il 7 settembre, scrisse ad Ada, per qualche giorno villeggiante a Ceres: "Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo. […] Non sento in me per ragioni speciali che tu sai la forza di seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia ideale del secolo. […] Si tratta di un vero e proprio grande tentativo di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del lavoro in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi gli industriali. E la più forte preoccupazione del movimento sta nel fondare uno stato e quindi un esercito, un governo contro l'Amma. Siamo dinanzi a un fatto eroico" (Nella tua breve esistenza, pp. 375 s.).
All'inizio del 1921 Gramsci - che, presentato al G. da Viglongo fin dal 1918, ne era diventato amico e aveva sporadicamente collaborato a Energie nove -, superando le schermaglie polemiche precedenti, gli propose di tenere sull'Ordine nuovo quotidiano una rubrica letteraria e teatrale, per la quale il G. pubblicò centinaia di cronache e recensioni fino all'ottobre 1922.
Tale attività, di per sé priva di diretto carattere politico - benché occorra ricordare che in qualità di critico il G. pubblicò recensioni importanti per comprendere e marcare la sua evoluzione - servì a consolidare il rapporto del G. con il mondo operaio. Einaudi, qualche tempo dopo, mostrò di aver compreso le motivazioni alla base di tale spinta scrivendo, sul Corriere della sera del 14 ott. 1922, che "l'intellettualismo militante sembra essersi rifugiato a Torino nell'Ordine nuovo, senza dubbio il più dotto quotidiano dei partiti rossi, ed in qualche semiclandestino organo giovanile, come il settimanale Rivoluzione liberale, sulle cui colonne i pochi giovani innamorati del liberalismo fanno le loro prime armi e, per disperazione dell'ambiente sordo in cui vivono, sono ridotti a fare all'amore con i comunisti dell'Ordine nuovo". Il rapporto con tali espressioni dell'autonomia operaia fu, in conclusione, motivo decisivo per il G. di progressiva differenziazione politica dal liberalismo einaudiano e dall'unitarismo salveminiano.
A sua volta, fu il Gramsci dei Quaderni a rammentare la funzione di "svecchiamento" culturale esercitata dai gruppi gobettiani, la centralità della critica al Risorgimento, concepita come premessa alla costruzione di un movimento politico nazionale, "l'innovazione fondamentale" infine operata dal G. a proposito del liberalismo, che secondo Gramsci fu interpretato "nel senso "più filosofico"", ossia superando i limiti individualistici e collocando il concetto di libertà "nei termini di personalità collettiva dei grandi gruppi sociali e della gara non più tra individui ma tra gruppi" (cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino 1975, p. 1353).
L'avvicinamento del G. alla causa dei consigli operai e all'Ordine nuovo influenzò, dunque, l'evoluzione della sua posizione politica in senso rivoluzionario e libertario, senza per ciò fargli assumere la veste di una qualche "ortodossia" socialista, marxista o, ancor meno, leninista. E se per l'apprezzamento della rivoluzione russa, come anche per la valutazione del moto consiliare, il G. fu vicino al direttore dell'Ordine nuovo, è tuttavia da rimarcare che restò tra i due una notevole distanza su altri temi: in particolare, per quanto concerneva la concezione e la critica filosofica dell'idealismo, circa la valutazione del ruolo delle élites democratiche e circa l'idea del partito come soggetto storico della rivoluzione.
Nell'articolo scritto per segnare il suo passaggio dall'idealismo assoluto a una sorta di storicismo realistico, I miei conti con l'idealismo attuale (La Rivoluzione liberale, 18 genn. 1923), si tocca con mano il ridimensionamento dell'attualismo gentiliano, prima centrale nella formazione gobettiana, ma anche la riconfermata funzionalità del crocianesimo a una "risoluzione della filosofia nella storia e la sua limitazione al momento metodologico". Tale passaggio critico a una concezione immanentista, sfrondata da elementi metafisici e metastorici, non comportò, pertanto, l'immedesimazione in una posizione storico-materialistica poiché il G. rimase, sul terreno economico, sempre ancorato alla visione liberista einaudiana.
Il pensiero del G. venne, dunque, esprimendosi in forma più matura soprattutto a partire dalla fondazione - concretatasi tra il gennaio e il febbraio 1922 - del settimanale La Rivoluzione liberale (il primo numero uscì il 12 febbraio di quell'anno, l'ultimo l'8 nov. 1925). Nei numeri successivi furono ripresi - dal G. e dall'ampio collettivo di collaboratori, che allineava, insieme con i nomi più noti e autorevoli dell'élite vociana e unitaria, quelli di giovani amici (G. Ansaldo, M. Brosio, S. Caramella, L. Emery, M. Fubini, C. Levi, U. Morra, A. Olivetti, A. Passerin d'Entrèves, N. Sapegno), di liberali, quali F. Burzio e N. Papafava, dei più dinamici innovatori delle correnti democratiche e socialiste (tra i tanti sono almeno da citare A. e L. Basso, R. Bauer, C. e N. Rosselli) - la critica della storia dell'Italia risorgimentale e postunitaria, l'esame delle forze politiche e dei loro esponenti principali, la genesi dei problemi centrali del momento: cioè i temi della formazione di una nuova classe dirigente e della trasformazione dello Stato in connessione con l'auspicato "ordine nuovo", comportante il mutamento dei meccanismi rappresentativi con l'instaurazione di larghe autonomie locali e, soprattutto, di una democrazia organizzata al fine della partecipazione delle masse operaie e contadine.
Di tutte queste esigenze il G. si rese interprete nel Manifesto della Rivoluzione liberale, cercando di tessere un filo che collegasse tra loro le esperienze autonomiste, la riforma dello Stato in funzione antiburocratica e anticentralista, la risoluzione della questione meridionale. Sostenitore della tesi che ogni autentica rivoluzione è intrinsecamente liberale (nel senso di liberatrice), il G. chiarì ulteriormente il suo pensiero riguardo al movimento operaio - nel quale individuava la classe che, dopo l'involuzione della borghesia, avrebbe potuto promuovere la rivoluzione -, adoperandosi per rendere possibile la formazione di una classe politica più articolata, consapevole delle esigenze sociali derivanti dalla partecipazione popolare alla vita dello Stato. Nella Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale (aprile 1922) enunciò il concetto di "liberalismo rivoluzionario", in contrapposizione al liberalismo conservatore, osservando che gli scrittori dell'Ordine nuovo avevano inteso la rivoluzione come "la conclusione del liberalismo rivoluzionario dell'800". Nella Rivoluzione liberale del giugno 1923 diede una definizione più ampia: "Il nostro liberalismo, che chiamammo rivoluzionario per evitare ogni equivoco, s'ispira a una inesorabile passione libertaria, vede nella realtà un contrasto di forze, capace di produrre sempre nuove aristocrazie dirigenti a patto che nuove classi popolari ravvivino la lotta con la loro disperata volontà di elevazione". Tali posizioni furono ulteriormente sviluppate nel saggio La rivoluzione liberale (Bologna 1924), nonché in Risorgimento senza eroi e Paradosso dello spirito russo (entrambi editi a Torino, a cura di S. Caramella, nel 1926), dove sono raccolti i numerosi scritti via via pubblicati e le ricerche in via di elaborazione di pari argomento.
Riguardo al significato della "rivoluzione liberale", sentita dai contemporanei come formula intrinsecamente contraddittoria (un "paradosso", nella terminologia gobettiana), E. Alessandrone Perona ha mostrato come il G., preceduto da M. Weber e da Arturo Labriola, non fosse stato il primo a usarla (cfr. l'introduzione a P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino 1995, pp. XXXIV s.). Fu tuttavia lui a consegnarla a maggior fortuna agganciandola alla premessa dell'assenza in Italia di una rivoluzione borghese nel corso del Risorgimento e del primo Stato unitario e, perciò, della sua persistente necessità. I riferimenti necessari alla comprensione dell'esatto senso si desumono anche da quanto scrisse a G. Fortunato nel febbraio 1926, qualche giorno prima della partenza per l'esilio, confidandogli l'intenzione di continuare "un'opera di cultura nel senso del liberalismo europeo e della rivoluzione moderna". Dunque, non a una rivoluzione nell'accezione meramente politica del termine, insurrezionale o definita nel tempo, si riferiva il G., bensì alla preparazione di un processo epocale, culturale e sociale, prima che istituzionale, che altrove era stato favorito dall'etica protestante, dallo spirito innovatore del capitalismo e dall'emergere di una borghesia forte e consapevole del proprio ruolo, mentre nell'Italia risorgimentale era stato mortificato dalla "conquista regia" e, in quella coeva, dall'imporsi, con l'aiuto della monarchia e coll'acquiescenza delle gerarchie conservatrici cattoliche, di un regime autoritario e conformista. Perciò Cattaneo e Mazzini erano stati "eretici" e sconfitti. L'Italia continuava a mancare di una rivoluzione modernizzatrice, ma nel senso più ampio di una modernizzazione liberale, anticonformista, individuale e collettiva, ossia insieme liberista, libertaria e liberatrice delle forze sociali sempre sottomesse e di nuovo incatenate dall'ascendente potere tutelare del fascismo. Un concetto liberale, la cui sostanza il G. mutuò dagli autori più avanzati del liberalismo settecentesco e ottocentesco, in particolare da J.S. Mill (di cui come editore ripubblicò, nel 1925, il saggio Sulla libertà con la prefazione di Einaudi), ma che rivisitò alla luce delle esperienze del movimento operaio. Quindi un concetto positivo della libertà, strettamente correlato al valore dell'eguaglianza, nel quale posizione centrale aveva l'idea della libertà di lotta, del libero dispiegarsi del conflitto sociale.
L'avvento al potere del fascismo, dopo la marcia su Roma del 28 ott. 1922, introdusse un fattore di novità - forse inizialmente previsto come momentaneo cedimento dello Stato liberale - che convinse il G. a riqualificare e riorientare in senso più specificamente antifascista la sua militanza culturale, inaugurata con la pubblicazione della Rivoluzione liberale. La possibilità di una vittoria di Mussolini era stata preventivata e affrontata in vario modo dagli intellettuali gravitanti nell'area laico-democratica: è nota la posizione scettica di Prezzolini che propose, qualche giorno prima della marcia fascista, di formare la società degli Apoti, vale a dire di coloro che non bevevano le menzogne della demagogia fascista, ma preferivano ritirarsi in un appartato silenzio fino a quando non fosse passata la marea di violenza che tutto sembrava sommergere. Questa scelta fu all'origine di un netto distacco politico del G. da Prezzolini, che non si tradusse in rottura personale, ma che gli dette modo di rendere esplicita la sua radicale opposizione al fascismo.
Il 25 ottobre egli rispose a Prezzolini che, in luogo della congregazione degli Apoti, avrebbe formato la "compagnia della morte": l'antitesi gobettiana, tuttavia, non venne chiaramente intesa e praticata da molti liberali di primo piano, da Croce a Einaudi, irretiti dai propositi modernizzanti e liberisti del primo governo Mussolini. Anche per rettificare tali posizioni, il 23 nov. 1922, il G. pubblicò l'articolo dall'emblematico titolo Elogio della ghigliottina, in cui affermava che il fascismo aveva introdotto un fossato incolmabile tra libertà e tirannia reazionaria. A questa occorreva rispondere in modo intransigente con una lotta senza quartiere, nella speranza che all'esposizione dei simboli e delle azioni repressive ("la ghigliottina") i capi e il popolo prendessero coscienza e iniziative. Scrisse provocatoriamente: "Chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro". Il 4 dic. 1922, completando il discorso sul piano filosofico, tenne a Gorizia una conferenza su Croce e Gentile che segnò l'abbandono delle dottrine gentiliane.
L'11 genn. 1923 il G. e Ada si sposarono e il viaggio di nozze servì anche per incontrare amici vecchi e nuovi, sparsi per l'Italia, e per tessere le fila di un'iniziativa antifascista pubblica più ampia. Controllato dalle autorità, anche per la precedente collaborazione all'Ordine nuovo, il G. fu arrestato il 6 febbraio per "sospette" e non precisate attività antinazionali. Un nuovo fermo, seguito da perquisizioni nella casa di via XX Settembre, trasformata in cenacolo culturale e fucina editoriale, avvenne il 29 maggio. In risposta alle interrogazioni parlamentari sollecitate dall'opinione pubblica democratica, il sottosegretario all'Interno A. Finzi sostenne che tali provvedimenti erano motivati da posizioni contrarie alle istituzioni e al governo Mussolini pubblicamente espresse sulla Rivoluzione liberale.
Dal marzo 1923 il G. affiancò all'attività giornalistica quella editoriale, con lo scopo di approfondire e precisare la prima, dando vita, dopo un periodo di collaborazione con gli amici Pittavino e Casorati, alla Piero Gobetti editore (dal gennaio 1926, Edizioni del Baretti), che - dapprima in via XX Settembre, poi nella nuova abitazione di via Fabro 6 - avrebbe pubblicato via via testi di E. Montale, Giovanni Amendola, Salvemini, Einaudi, Pareto, L. Salvatorelli, Sturzo e molti altri autori prestigiosi. Ai volumi, che in poco più di due anni avrebbero superato le 100 unità, fu apposto l'ex libris scelto dal G. come divisa contro l'autoritarismo fascista: "Che ho a che fare io con gli schiavi?".
La figura dell'editore "ideale", come fu ricordato da F. Antonicelli, non fu inferiore a quella del pubblicista; accuratezza, tenacia, preminente motivazione politica le sue qualità: "L'editore - aveva scritto a 18 anni - deve rappresentare un intero movimento di idee. Deve esserne convinto, conoscerlo profondamente. Tanto meglio se è lui addirittura l'iniziatore". Ciò non significò l'esclusione del diverso che anzi, in omaggio alla libertà di pensiero, fece conoscere nelle sue espressioni migliori: pubblicò, per esempio, anche Italia barbara di C. Malaparte (1925), il "libro di un nemico". Coerente con l'esigenza della "sprovincializzazione" della cultura italiana, il G. fu editore attento a cogliere le novità di respiro europeo, importanti tanto nell'ambito letterario e scientifico, quanto in quello politico. Talché nelle sue edizioni videro la luce libri innovatori di autori affermati come le Considerazioni elementari sul principio di relatività (1923) del fisico olandese H.A. Lorentz e le Lotte del lavoro (1924) di Einaudi, insieme con le novità di esordienti destinati al successo, quali la raccolta Ossi di seppia di Montale (1925), il saggio Il fondamento della filosofia giuridica di G.G.F. Hegel, di A. Passerin d'Entrèves, il Nazionalfascismo (1923) di Salvatorelli, La rivoluzione meridionale (1925) di G. Dorso, la Rivolta cattolica (1925) di I. Giordani.
Nel 1923, dedicandola ad Ada, pubblicò per i tipi del Corbaccio (Milano), La frusta teatrale, raccolta delle cronache redatte per L'Ordine nuovo, in cui si stagliano i ritratti dei più noti attori, da E. Zacconi a Eleonora Duse, accanto ai saggi critici su autori drammatici di viva attualità come H. Ibsen, L. Pirandello, F. Wedekind. Procedette altresì al riordinamento dei temi affrontati più frammentariamente nella rivista, dando alle stampe nel 1924 il già citato saggio su La rivoluzione liberale per i tipi di Cappelli, affermandovi lo scopo di offrire un contributo di "teoria liberale, pensato e scritto secondo un piano organico […] un programma positivo e un'indicazione di metodi di studio e d'azione" sulla scorta dell'analisi della storia politica italiana dall'Unità agli anni in corso.
Il problema centrale italiano era stato, secondo il G., "non di autorità, ma di autonomia", visibile nell'assenza di una vita libera che, lungo i secoli, aveva impedito "la creazione di una classe dirigente […] il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe tecnica progredita (lavoro qualificato, intraprenditori, risparmiatori)", costituente le condizioni per il dispiegarsi di una lotta politica funzionale alla scelta e al rinnovamento della "classe governante". Le élites via via succedutesi al potere, la Destra e la Sinistra, Giolitti, ma anche le opposizioni clericocattoliche e socialiste, avevano fallito nella soluzione di tale questione. Nel punto, il G. ribadiva giudizi di un'estrema severità che, forse, una più pacata rimeditazione storica avrebbe potuto far ripensare, specie quelli sul primo Giolitti, su F. Turati e il socialismo riformista, o su R. Murri. La parte più efficace del saggio era data dalle analisi dei partiti nuovi (popolare, socialista, comunista) da cui emergevano - anche a causa dei cambiamenti imposti dalla necessità di prender posizione di fronte al fascismo - alcune sostanziali novità rispetto agli apprezzamenti rilasciati due anni avanti. In modo particolare il G. rivalutò Sturzo, per la moralità politica e l'intransigente opposizione a Mussolini, definendolo "messianico del riformismo […] e riformista del messianismo", riaffermando tuttavia la persistente sua incapacità di dar soluzione positiva alla necessaria aggregazione di forze per creare una nuova classe dirigente per lo Stato italiano. Anche la schiera di democratici, da Amendola a F.S. Nitti fino all'amato Salvemini, non gli parve in grado di elaborare una posizione rivoluzionaria in senso liberale. Passando ai comunisti, il G. ne sottolineò il ruolo all'interno della mutata struttura delle classi popolari, dove s'erano formate vigorose e autocoscienti minoranze operaie. Li vide come dirigenti "di una classe operaia aristocratica, conscia della sua forza, capace di rinnovare se stessa e la vita politica, quale era balenata alla visione storica di Marx". Le loro elaborazioni ideali erano funzionali agli scopi pratici della massa, sostenne, peraltro inconsapevole, ma all'unisono con tesi esposte da vari anni dalle frange di sinistra del marxismo europeo occidentale. La classe operaia si migliorava così tecnicamente attraverso la sua esistenza nella fabbrica moderna, avanzava istanze non di mera eguaglianza sociale ed economica, ma di libertà creativa nel plasmare lo Stato, esibendo una capacità rivoluzionaria che le era data dalla sua forza morale, dallo spirito di sacrificio. Postillò infine: "Di fronte al grandioso movimento dei consigli […] un liberale non può assumere la posizione meramente negatrice di L. Einaudi e di E. Giretti".
La lettura dell'ascesa di Mussolini, l'interpretazione del fascismo, fu collegata alla critica del Risorgimento, dei precedenti autoritari e trasformisti da A. Depretis a Giolitti, e definita come rivelazione e "autobiografia della nazione". Il fascismo, nel quale il G. non vide chiaramente l'annuncio di una più vasta tendenza europea al totalitarismo, fu concepito come "rivoluzione piccolo-borghese", "rivelazione" di corruzioni antiche e non sanate della nazione, di fronte al quale l'unica alternativa era rappresentata da un'intransigente battaglia a viso aperto.
Il rapimento e l'assassinio del segretario del Partito socialista unitario G. Matteotti, nel giugno 1924, rappresentarono un segnale di imbarbarimento ulteriore, che colpì anche quei liberali e quei cattolici che si erano illusi sulle reali intenzioni di Mussolini. Per il G., il quale moltiplicò sulla Rivoluzione liberale e, nello stesso anno, con un volume dedicato al capo socialista (Matteotti), gli sforzi di denuncia di un regime che assumeva tratti sempre più dittatoriali, iniziò il periodo di repressione personale più dura. Di ritorno dalla Francia, in ottemperanza a un telegramma dettato il 1° giugno da Mussolini al prefetto di Torino, nel quale si ordinava di "rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore governo e fascismo", s'infittirono le perquisizioni e i sequestri di numeri del giornale. All'inizio di settembre, a seguito di un attacco mosso nell'articolo Come combattere il fascismo al deputato C. Delcroix, il G. fu fatto segno di una violentissima reazione sulla stampa e il 5 fu aggredito e malmenato da una squadra fascista. Le percosse ne indebolirono il fisico, incrinandone le capacità di reazione alla malattia cardiaca che avrebbe segnato gli ultimi mesi di vita. La seconda metà del 1924 e il 1925 furono caratterizzati dall'inesorabile volontà di organizzare a più vasto raggio l'opposizione politica al fascismo.
La lotta contro il sistema elettorale maggioritario, introdotto dalla legge Acerbo, con la presa di posizione a favore della rappresentanza proporzionale (1923), fu uno dei momenti qualificanti. Nel luglio 1924 il G. promosse la discussione sul "liberalismo socialista", incoraggiando l'iniziativa di Carlo Rosselli nell'elaborazione di tale indirizzo ("basta che si accetti il principio che tutte le libertà sono solidali") sulla scorta del bilancio critico sul marxismo e sul socialismo, al quale egli aveva proceduto nel saggio tosto pubblicato. Nell'autunno, in coerenza con i presupposti autonomistici e meridionalistici della Rivoluzione liberale, furono poste le basi per il coordinamento con gli intellettuali meridionali E. Azimonti, G. Dorso, T. Fiore, M. Grieco, E. Persico, C. Puglionisi, G. Stolfi, con i quali, il 2 dicembre, pubblicò un "appello ai meridionali".
Nel tentativo di allargare il fronte dell'opposizione, ampliando così il numero dei collaboratori e autori antifascisti che non volevano, però, esporsi con un coinvolgimento politico diretto, il 23 dic. 1924 il G. fondò Il Baretti, periodico di cultura e di lettere che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto affiancare fin dal principio la Rivoluzione liberale. Nello stesso mese, sull'esempio salveminiano, costituì nelle principali città italiane i gruppi di "amici" della Rivoluzione liberale.
Al Baretti avrebbero via via collaborato i migliori esponenti della letteratura e del pensiero critico italiano, tra cui Croce, Burzio, A. Cajumi, E. Cecchi, G. Debenedetti, A. Garosci, L. Ginzburg, M. Mila, Montale, A. Monti, U. Saba, N. Sapegno, S. Solmi. Nel titolo del primo articolo-manifesto, Illuminismo, il G. rievocò "il sapore arcaico e polemico di questo nome di esule e di pellegrino preromantico", un nome che egli aveva usato più volte, per esempio firmando l'articolo su Cattaneo, come pseudonimo inteso a valorizzare lo stretto collegamento tra la rivoluzione dei Lumi e la modernizzazione che non aveva avuto luogo in Italia. "Abbiamo deciso - scrisse - di mettere tutte le nostre forze per salvare la dignità prima che la genialità, per ristabilire un tono decoroso e consolidare una sicurezza di valori e di convinzioni: fissare degli ostacoli agl'improvvisatori, costruire delle difese per la nostra letteratura rimasta troppo tempo preda apparecchiata ai più immodesti e agili conquistatori".
Il 1925 fu pesantemente segnato dalle persecuzioni delle autorità fasciste che nel G. - così come nell'Amendola capo dell'Aventino e nel Salvemini del Non mollare - vedevano ormai la punta di lancia dell'opposizione al regime che, dopo aver superato la crisi Matteotti, con le leggi eccezionali del dicembre 1925 e del 1926 si sarebbe definitivamente consolidato. Quasi tutti i numeri della Rivoluzione liberale subirono sequestri e censure. Pur dichiarando la volontà di continuare a oltranza l'opposizione da "esule in patria", il G. dovette prender atto dell'impossibilità di mantenere anche la sola attività editoriale. Dopo un viaggio in Inghilterra e Francia, compiuto insieme con Ada (in attesa del figlio), nel luglio 1925, egli maturò gradualmente il progetto di prender la via dell'esilio per continuare a Parigi l'opera di editore di cultura di livello europeo che in patria non gli veniva più permessa. La diffida ufficiale del 27 ottobre, seguita l'11 novembre dall'ingiunzione prefettizia di cessare ogni attività giornalistica ed editoriale (che raggiunse il G. a letto, ammalato per grave scompenso cardiaco), fu il segnale per una decisione ormai matura. La nascita del figlio Paolo il 28 dic. 1925 rappresentò l'ultimo evento lieto della sua esistenza. Dopo una fase di preparazione per la fondazione a Parigi dell'impresa editoriale, di cui discusse con amici esuli - tra cui Emery, Nitti, Prezzolini -, l'8 febbr. 1926 partì per la Francia. Lasciando Torino annotò sul taccuino: "Io sento che i miei avi hanno avuto questo destino di sofferenza, di umiltà: sono stati incatenati a questa terra che maledirono e che pure fu la loro ultima tenerezza e debolezza. Non si può essere spaesati […]. Il segno: essere se stessi dappertutto" (L'editore ideale, pp. 87 s.).
Ammalatosi di bronchite due giorni dopo l'arrivo, morì a Parigi, per le complicazioni intervenute, il 15 febbr. 1926. Fu sepolto nel cimitero del Père-Lachaise.
Al termine di tale percorso, il G. si conferma, nel complesso, soprattutto un suscitatore e "straordinario organizzatore di cultura", ricco di suggestioni, per un'Italia rinnovata: una chiave di lettura sottolineata da Gramsci per primo e via via dai maggiori interpreti. Dall'esperienza intellettuale del G. emerge, tuttavia, un dato di fatto di cui occorre tener conto: per quanto sbalorditiva per lucidità, approfondimento filosofico e intuizione politica, essa fu in effetti pur sempre quella di un giovane, e dell'età giovanile, specie all'esordio, conservò nelle analisi e nei giudizi alcuni insopprimibili e contraddittori tratti di spontaneità e di estremismo (L. Salvatorelli ricordò in Racconto interrotto. P. G. nel ricordo degli amici [a cura di Paolo Gobetti, Torino 1992, p. 29] che il G. "era considerato un estremista e in un certo senso lo era anche"), che solo in parte furono corretti negli anni più maturi. Al G. non fu infatti data, prima per l'urgenza dei compiti affrontati nel dopoguerra, poi per la morte subitanea, la possibilità di riflettere autocriticamente sull'esperienza e sugli esiti degli anni che videro il compiersi della crisi delle istituzioni liberali e dell'ascesa del fascismo a regime. Montale, nel 1991, rievocò il G. come "un fiore che non si era aperto del tutto" (Perché G., p. 11).
Alla sua figura e al suo pensiero, civile e politico, si richiamarono per primi i componenti dei gruppi della Rivoluzione liberale - formanti quella che A. d'Orsi (La cultura a Torino tra le due guerre, Torino 2000) ha chiamato "l'aura gobettiana" - i quali gli dedicarono il numero speciale del Baretti dell'aprile 1926. Furono poi i fondatori di Giustizia e libertà - C. Rosselli, Garosci, Ginzburg, C. Levi - a riprendere la sua eredità, soprattutto sulla base delle parole d'ordine antistataliste, autonomiste, consiliariste, e a istituire il collegamento tra quell'esperienza e il Partito d'azione, stabilendo in tal modo la prima cerchia di cultura "azionista" nella ricezione del gobettismo, confermata negli scritti di Ada Gobetti e di A. Monti. Un nuovo approfondimento si ebbe dopo la seconda guerra mondiale, dall'interno del comunismo italiano, da P. Togliatti in persona, il quale intese collocare l'opera del G. nell'ambito dell'iniziativa di ricostruzione culturale della nuova Italia per i suoi rapporti con l'operaismo di Gramsci e dell'Ordine nuovo, per lo storicismo progressivo e la critica del Risorgimento, inaugurando così la ricezione comunista, alla quale portarono i massimi contributi negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento Spriano e Sapegno. La relazione (e, quasi, la "biografia parallela") Gobetti-Gramsci divenne un passaggio obbligato della storiografia sul G.: dagli studi di Spriano (Gramsci e G., Torino 1977) a quelli di Bobbio, fu messa in rilievo la stima reciproca, una sorta di prossimità esistenziale e politica - desumibile dallo stesso profilo che l'uno lasciò scritto dell'altro -, e il rapido e definitivo avvicinamento politico.
Dal 1961 il ricordo del G. è stato affidato alle iniziative scientifiche, editoriali e di divulgazione intraprese dall'omonimo Centro studi fondato dalla vedova Ada insieme con il figlio Paolo e con i fedeli amici antifascisti, tra i quali è da ricordare almeno il contributo di F. Antonicelli. Dagli anni Settanta la rivisitazione dell'opera del G. ha seguito sostanzialmente tre nuovi indirizzi, convergenti in linea di massima con le precedenti ricezioni: da un lato la cultura istituzionale dell'Italia repubblicana, soprattutto quella delle regioni maggiormente toccate "dall'aura" gobettiana, si è incaricata di riproporre la memoria di un G. ritenuto degno di un posto nel "Pantheon delle glorie nazionali, tra i maestri e i profeti" (Passerin d'Entrèves); dall'altro, il partito liberale, sotto l'influenza di antichi gobettiani, come M. Brosio, ha intrapreso iniziative di commemorazione e di studio; infine, dagli anni Ottanta, sulla scorta di un riaccendersi del dibattito politico nel quale il discorso del G. sembrava riguadagnare attualità, è stata avviata l'edizione scientifica di singole opere e carteggi. Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da due ulteriori indirizzi di ricerca e di dibattito: per un verso, si è sviluppata un'aspra polemica tra gli esponenti liberalconservatori e lo schieramento liberalsocialista ed ex comunista, sui termini dell'identità e dell'attualità del suo discorso politico: i primi hanno accusato il G. di essere un "fraintenditore e adulteratore" del liberalismo (E. Galli Della Loggia, La democrazia immaginaria. L'azionismo e "l'ideologia italiana", in Il Mulino, XLII [1993], 3, p. 257) e un liberale "finto" e "inesistente" (G. Bedeschi, G.: il finto liberale, in Liberal, 1995, n. 7, pp. 66 s.; Id., P. G.: un liberale inesistente, in Nuova Storia contemporanea, II [1998], 11, pp. 137-144); i secondi hanno riproposto i termini delle precedenti letture gobettiane, sottolineandone la "impressionante attualità" (P. Flores d'Arcais, G., liberale del futuro, in P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Torino 1995, p. VIII). F. Sbarberi (L'utopia della libertà eguale, Torino 1999, pp. 38 ss.), richiamando i termini di tale dibattito, ha invitato a "un approccio più rispettoso della riflessione originaria" del G., rilevando nella definizione di libertà come autonomia, nella centralità del conflitto all'interno di una concezione elitista-democratica e nella concettualizzazione dell'incontro tra la soggettività operaia, esprimentesi nei consigli, e la borghesia industriale avanzata, gli elementi essenziali del liberalismo-libertarismo gobettiano. Sulla base di simili motivazioni, superando le interpretazioni di tipo martirologico o demonizzante, si è cercato di collocare il G. su di un piano culturale meno politicizzato o strumentale, all'interno di un più descrittivo e generale national culture building. In tale prospettiva, l'opera del G. viene considerata intrinsecamente legata alla fase critica dello Stato liberale nei primi decenni del Novecento, e appunto da questa determinata, sia nelle analisi, sia nelle soluzioni adombrate. Di qui l'elaborazione di una forma peculiare ed eclettica di liberalismo rivoluzionario, che s'inserisce nell'ampio alveo del liberalismo (o, meglio, "dei liberalismi" novecenteschi) come costruzione ideale, progressiva e non definitiva.
Le fondamentali edizioni delle opere del G., oltre a quelle già citate nel testo, sono: Opere edite e inedite di P. Gobetti, a cura di S. Caramella, I-III, Torino 1926-27; Opere complete di P. Gobetti, I-II, a cura di P. Spriano, con note intr. di F. Venturi - V. Strada, ibid. 1969; III, a cura di G. Guazzotti - C. Gobetti, ibid. 1974; tra le più recenti riedizioni di opere singole: Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, intr. di F. Venturi (1976), ibid. 1985; Paradosso dello spirito russo e altri scritti sulla letteratura russa, intr. di V. Strada, ibid. 1986; Per Matteotti. Un ritratto, Genova 1994; La filosofia politica di V. Alfieri, Ripatransone 1995; La révolution liberale, con un saggio di M. Gervasoni, Paris 1999; On liberal revolution, a cura di N. Urbinati, London-New Haven 2000. Per le antologie: Scritti attuali, a cura di U. Calosso, Roma 1945; Coscienza liberale e classe operaia, a cura di P. Spriano, Torino 1951; Al nostro posto. Scritti politici da La Rivoluzione liberale, a cura di P. Costa - A. Riscassi, Arezzo 1996; Scritti sull'arte, a cura di M. De Benedictis, Torino 2000.
Fonti e Bibl.: Torino, Arch. del Centro studi Piero Gobetti: carteggi e mss. vari del G., 1916-26; corrispondenza del G. 1918-26; materiali vari e fotografie 1901-26. Il G. intrattenne rapporti epistolari con tutti gli autori e politici che pubblicarono nelle sue riviste e di cui fu editore: sue lettere originali sono perciò presenti in vari lasciti e archivi, anche se molte sono state recuperate e disponibili in copia nella sede del Centro. Alcuni carteggi sono pubblicati, come l'epistolario con la moglie, Nella tua breve esistenza, più volte citato, contenente anche i diari di Ada Prospero; tra i principali altri, oltre a quanto ricordato nel testo, si veda: G. e "La Voce", a cura di G. Prezzolini, Firenze 1971; F. Armetta, Caramella e G., Caltanissetta-Roma 1993; Con animo di liberale. P. G. e i popolari. Carteggi, 1918-1926, a cura di B. Gariglio, Milano 1997.
Per le riviste gobettiane cfr.: Antologia della Rivoluzione liberale, a cura di N. Valeri, Torino 1948; Le riviste di P. G., a cura di L. Basso - L. Anderlini, Milano 1961; Energie nove, rist. anast., pref. di N. Bobbio, Torino 1976; Il Baretti, rist. anast., pref. di M. Fubini, Torino 1977.
Come introduzione alla conoscenza del G., oltre alla biografia di Morra di Lavriano, vedi anche: P. Polito, P. G. e la rivoluzione liberale, Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, VI, Milano 1993, pp. 1741-1760; P. G.: dizionario delle idee, a cura di S. Bucchi, Roma 1997; A. Cabella, Elogio della libertà. Biografia di P. G., Torino 1998.
La più completa bibliografia esistente sul G., limitatamente al 1975, alla quale si rinvia, è quella curata da G. Bergami, Guida bibliografica degli scritti su P. G., 1918-1975, Torino 1981. Per gli studi successivi a questa data cfr. almeno: C. Pogliano, P. G. e l'ideologia dell'assenza, Bari 1976; P. Bagnoli, Il Risorgimento eretico di P. G., pref. di C. Francovich, Firenze 1976; P. G. e il suo tempo (catalogo della mostra e atti delle iniziative tenute presso la Galleria d'arte moderna di Torino, aprile-settembre 1976), a cura di E. Alessandrone Perona, Torino 1976; A. Passerin d'Entrèves, La consegna di G., in La Stampa, 19 febbr. 1976 (ora in Id., Il palchetto assegnato agli statisti, Milano 1979, pp. 142 ss.); P. Bagnoli, L'eretico G., Milano 1978; S. Festa, P. G., Assisi 1980; C. Pogliano, P. G. e il movimento operaio, in Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, III, Bari 1980, pp. 365-400; A. Carlino, Politica e dialettica in P. G., Lecce 1981; G. Bergami, L'esperienza di P. G. tra coscienza illuministica ed esigenze liberali realistiche, in Studi piemontesi, XI (1982), pp. 311-326; Istituto per la storia del movimento liberale, P. G.: studi e ricerche, s.l. [ma Bologna] 1983; P. Bagnoli, P. G.: cultura e politica in un liberale del Novecento, pref. di N. Bobbio, Firenze 1984; P. Meaglia, G. e il liberalismo. Sulle nozioni di libertà e di lotta, in Mezzosecolo, n. 4, 1984, pp. 193-222; P. G. e la Francia, Milano 1985; G. Spadolini, G.: un'eredità, Firenze 1986; F. Manni, Laicità e religione in P. G., pref. di N. Bobbio, Milano 1986; P. Bagnoli, La rivoluzione del liberalismo, Roma 1986; P. Polito, G. e Sorel, in Mezzosecolo, 1987, n. 6, pp. 29-62; M.A. Frabotta, G. L'editore giovane, Bologna 1988; B. Gariglio, G. e Sturzo, in Mezzosecolo, 1989, n. 8, pp. 4-31; C. Malandrino, G. e Treves: due approcci critici al progetto di Società delle nazioni e alla prospettiva dell'unità europea, in Annalidella Fondazione L. Einaudi, XXV (1991), pp. 421-441; M. Revelli, P. G. e il fascismo, in Perché G., a cura di C. Pianciola - P. Polito, presentazione di G. Spadolini, Manduria-Bari-Roma 1993, pp. 103-120; G. Spadolini, G.: un'idea dell'Italia, Milano 1993; P. G. e gli intellettuali del Sud, a cura di P. Polito, Roma 1995; G. De Marzi, P. G. e B. Croce, Urbino 1996; P. Bagnoli, Rosselli, G. e la rivoluzione democratica, Firenze 1996; P.L. Orsi, Il primo G., Pisa 1997; G. Vagnarelli, La rivoluzione russa tra Gramsci e G., Ascoli Piceno 1997; G. tra riforma e rivoluzione, a cura di A. Cabella - O. Mazzoleni, Milano 1999; P. G. et la culture des années '20, a cura di M. Cassac, introd. di A. Ottavi, Nice 2000; M. Gervasoni, L'intellettuale come eroe. P. G. e le culture del Novecento, Milano 2000. Nei principali dizionari biografici ed enciclopedici sono presenti voci dedicate al G.; in particolare si segnala quella di G. Bergami in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, II, Roma 1976, pp. 515-520.