Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La figura di Piero della Francesca, apice della speculazione prospettica quattrocentesca, ha esercitato sull’arte del suo secolo un’influenza tanto importante quanto diffusa. In termini di luce e di spazio, il suo linguaggio si è infatti riflesso non solo in Italia, dal meridione di Antonello da Messina al Veneto di Giovanni Bellini, ma anche fuori, dalla Provenza di Enguerrand Charanton alla Francia di Jean Fouquet, fino alle Fiandre di Petrus Christus.
Piero della Francesca nasce a Borgo Sansepolcro, cittadina posta fra Umbria, Toscana e Marche, la cui posizione liminare determina il passaggio dalla signoria dei Malatesta allo Stato della Chiesa nel 1431 e quindi la cessione a Firenze nel 1441. Sono scarse le notizie sulla formazione nella città natale presso la bottega di Antonio d’Anghiari, artista tardo-gotico di modesta levatura.
Per l’incidenza nella sua pittura e per la sua futura attività di trattatista va ricordato lo studio delle scienze matematiche, a cui Piero giunge forse tramite la matematica commerciale, richiesta dall’attività mercantile della famiglia.
La svolta avviene col soggiorno fiorentino del 1439. L’artista è ricordato, in qualità di collaboratore o forse di socio, accanto al pittore Domenico Veneziano negli affreschi, distrutti nel Settecento, con Storie della Vergine nell’abside della chiesa di Sant’Egidio.
Nell’occasione Piero ha modo di conoscere la tradizione giottesca e la nuova scienza prospettica da poco elaborata da Filippo Brunelleschi e introdotta in pittura da Masaccio. A Domenico Veneziano egli deve invece l’approccio a quella “pittura di luce” (Roberto Longhi, Piero della Francesca, 1927) che stempera la concezione plastica di Masaccio in una visione più distesa, volta alla sintesi fra prospettiva e stesura luminosa dei colori.
Dopo il 1439 le tracce di Piero si perdono fino al 1445, quando gli viene commissionato il polittico per la confraternita di Santa Maria della Misericordia a Sansepolcro (oggi nel museo locale), finito solo molto più tardi, nel 1461. Le vicende del polittico, rimosso dalla cornice originale e mutilato nel Seicento, hanno causato la perdita dell’esatto rapporto spaziale fra le figure. Tuttavia l’impianto prospettico dà unità e coerenza all’insieme, nonostante le scelte arcaicizzanti del fondo oro e della dimensione maggiore della Madonna, senz’altro imposte dai committenti.
Allo stesso periodo appartiene anche il Battesimo di Cristo (Londra, National Gallery) che costituisce il pannello centrale di un polittico eseguito per l’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Battista a Sansepolcro, completato verso il 1465 dal senese Matteo di Giovanni. Variamente datato dagli studiosi fra il 1440 e il 1450, secondo alcuni potrebbe addirittura precedere la commissione della pala della Misericordia. Conferma una datazione così precoce il chiarore della luce zenitale che fa risplendere i colori e descrive con nitida evidenza ogni particolare, sulla scia di Domenico Veneziano.
Nel 1447 l’artista è a Loreto, dove lavora ancora con Domenico Veneziano nella sacrestia della chiesa abbattuta poco dopo per lasciare posto alla basilica attuale. Forse nello stesso 1447 raggiunge Ferrara, chiamato da Leonello d’Este. Degli affreschi eseguiti durante questo soggiorno, fondamentale per la ricchezza culturale di quella corte, non sopravvive nulla se non testimonianze indirette nell’attività degli artisti estensi contemporanei.
Questi anni sono caratterizzati da viaggi frequenti ricordati dalle fonti ma non confermati da documenti. È certa invece la sua presenza ad Ancona nel 1450, comprovata dalla sua firma in un atto testamentario.
Nel 1451 Piero è a Rimini chiamato da Sigismondo Pandolfo Malatesta, grande condottiero, politico all’apice della carriera, amante delle humanae litterae, della storia e della filosofia. Nella piccola sacrestia o cella delle reliquie della chiesa di San Francesco, che proprio in questi anni Leon Battista Alberti trasforma nel Tempio Malatestiano, Piero immortala il signore di Rimini inginocchiato di fronte al suo santo protettore, il re san Sigismondo, in un affresco denso di significati celebrativi e politici. Staccato e conservato in loco, gravemente impoverito nei suoi valori cromatici e luministici, l’affresco tuttavia si impone per l’invenzione e la magnificenza dell’impaginato architettonico che riecheggia le costruzioni albertiane e preannuncia le soluzioni adottate dal pittore ad Arezzo.
Forse già alla fine del 1451 Piero si sposta ad Arezzo. Qui affresca l’abside della chiesa di San Francesco, iniziata nel 1447-1448 dal fiorentino Bicci di Lorenzo, morto dopo avere dipinto la facciata della cappella e parte della volta e del sottarco.
La cronologia dell’intervento di Piero è problematica. In un documento gli affreschi sono indicati come già terminati nel 1466, ma la loro conclusione risale probabilmente alla fine degli anni Cinquanta.
Sugli ampi spazi delle pareti maggiori e su quelli minori ai lati della bifora del coro Piero sintetizza in dieci episodi il complesso ciclo narrativo con la Leggenda della vera Croce. Il soggetto è tratto dalla Legenda aurea di Iacopo da Varazze, famoso testo duecentesco assunto come fonte iconografica per le arti figurative fino al Settecento. La storia prende il via dalla lunetta di destra con la Morte di Adamo e si conclude sulla lunetta opposta con l’Esaltazione della Croce, secondo una sequenza non rigorosamente cronologica ma spesso dettata da ragioni di tipo compositivo. Dentro una griglia prospettica inflessibile, la forma tende alla regolarità della geometria, i volumi si semplificano, illuminati da una luce chiara e felice, e il disegno quasi scompare: le ampie campiture cromatiche si accostano per contrasto a creare le relazioni spaziali e la scansione fra i piani.
Il rimando alla scultura classica nei nudi della lunetta destra e l’eco dei rilievi romani nelle due scene di battaglia presuppongono l’esperienza di uno o più viaggi a Roma, forse per il giubileo del 1450 e di nuovo nel 1455. Il solo viaggio documentato è però quello del biennio 1458-1459, sotto il papato di Pio II, quando Piero realizza nel Palazzo del Vaticano gli affreschi distrutti dal rinnovamento promosso da Giulio II.
Potrebbe risalire al soggiorno romano del 1455 la Flagellazione, firmata sul gradino del trono di Pilato (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche). A partire dal secolo scorso l’interpretazione della tavola, in cui sono accostati due eventi diversi, la flagellazione di Cristo sullo sfondo e il dialogo di tre personaggi di incerta identificazione in primo piano, di cui due in abiti contemporanei, ha dato adito a un complesso dibattito. Le molte spiegazioni di tipo sia teologico che politico (Silvia Ronchey, L’enigma di Piero, 2006) nulla aggiungono, in verità, al fascino sprigionato dall’immoto silenzio della scena, di una luminosità quasi senza ombre, e dall’intarsio perfetto di forme dove anche i vuoti e gli intervalli hanno un preciso valore.
Segnano invece un rapporto mai interrotto con Sansepolcro l’affresco con la Resurrezione di Cristo eseguito per la Sala dei Conservatori nel Palazzo della Residenza cittadina, oggi sede del Museo Civico, e quello con la Madonna del parto per la chiesa di Santa Maria di Momentana a Monterchi: opere scalabili fra la fine del sesto e l’inizio del decennio seguente, non troppo distanti dall’attività aretina per la solenne monumentalità delle figure campite per ampie zone cromatiche e per la gamma ridotta dei colori.
L’ultimo tempo dell’artista si svolge tra Sansepolcro e Urbino.
Il soggiorno presso i Montefeltro è documentato per l’anno 1469, ma è probabile che Piero sia stato a Urbino già verso il 1464-1465 e che i contatti si siano mantenuti anche in seguito. Presso la corte l’artista trova in Federico un mecenate intelligente e aperto e frequenta umanisti e architetti, fra cui Leon Battista Alberti e Luciano Laurana.
Nasce dalla committenza ducale, con destinazione funeraria, la pala con la Madonna con Bambino, angeli, santi e Federico da Montefeltro passata dalla chiesa di San Bernardino, appena fuori Urbino, alla Pinacoteca di Brera nel 1811. L’unica giunta fino a noi così monumentale e unitaria, presenta un ampio vano absidato, impensabile, per la razionalità e la coerenza spaziale, senza la frequentazione degli architetti di corte. Qui, inoltre, l’artista esibisce la sua conoscenza dell’arte fiamminga. Una conoscenza che va oltre il dato iconografico della Madonna col Bambino in grembo adorata da un donatore in un interno, e investe le tecniche esecutive: l’uso della pittura a olio e la preparazione a vista lungo i profili delle figure che appaiono appena circonfuse di un riflesso luminoso.
Per la corte di Urbino viene anche eseguito il dittico oggi agli Uffizi. Costituito da due valve unite da una cerniera, si chiudeva a libro a denotare un oggetto d’uso privato coi ritratti di Federico da Montefeltro e della moglie Battista Sforza all’interno e i rispettivi Trionfi all’esterno, celebrazioni simboliche e umanistiche delle loro virtù. Databile ai primi anni Settanta del Quattrocento, il dittico rivela un’attenzione per i particolari di origine fiamminga, che non intacca l’ampio e astraente espandersi dei volumi. L’iconografia del ritratto di profilo, derivata dalle monete imperiali romane, è variata e insieme arricchita dalla presenza del paesaggio, descritto con precisione quasi topografica, e dal rapporto che le due figure instaurano con esso, allusivo del loro pacifico dominio su un territorio che si estende a perdita d’occhio.
A questi anni risale anche la Madonna con Bambino e due angeli , o Madonna di Senigallia (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), richiesta dal duca verso il 1474-1478 per essere donata alla figlia Giovanna sposa di Giovanni della Rovere. Qui Piero si cimenta di nuovo nella descrizione di un interno equidistante fra le architetture reali del Palazzo Ducale e quelle ideali evocate nei dibattiti teorici intrattenuti a corte. Oltre al tema devozionale portato in auge da Hans Memling, anche la scrittura analitica e i caratteri tecnici confermano il rapporto con l’arte fiamminga, che suggerisce l’idea della finestra attraversata da un fascio di luce pulviscolare.
Negli ultimi anni di vita, Piero, spesso documentato nella città natale, continua la sua attività di artista e trattatista fino al 1490 circa, quando viene colpito da cecità. Muore a Sansepolcro nel 1492.