BENINTENDI, Piero
Nacque a Tobbiana, presso Prato, fra il 1342 e il 1343, da un Giusto di Busto, agricoltore nullatenente. Fra i sei e i sette anni, certo al seguito di qualche mercante pratese, si trasferì a Genova, ove apprese le prime cognizioni d'abaco e di grammatica necessarie a esercitare il commercio, e dove si dedicò all'arte del cambio, impiantando un banco a suo nome. Onesto, scrupoloso, e nello stesso tempo avveduto uomo d'affari, il B. riuscì in breve tempo a costituirsi una notevole fortuna che investì, fra il 1371 e il 1376, nell'acquisto di terre a Tobbiana, affidate dapprima al padre, e poi, dopo la morte di questo (prima del 1393), al fratello Tendi. Ma qualche anno dopo il 1374 rilevò da un notaio pratese trafficone e intrigante, Maffeo di ser Simone, alcuni diritti sull'eredità di Giovanni Mazzamunti, altro mercante suo concittadino morto a Genova. Intentata causa contro un genovese per ottenere soddisfazione di quanto riteneva dovesse per questo spettargli, fu condannato con grave perdita di danaro; egli stesso parecchi anni dopo narrava così a Francesco Datini il rovescio subito: "per mio piato maladeto, che fexi per ser Maffeo condam ser Simone de la heredità di Giovani de meser Macingo con uno citadino genovese, me ne pigioray più de fiorini mile, siché... ne restai disfato" (Piattoli, pp. 12, 61).
Nello stesso periodo di tempo, secondo quanto egli stesso ricorda nella medesima lettera al Datini, "per fidarme tropo de autri, me lasai trare lo mio de le mani, e perdei più de mile secento fiorini mei proprii" (p. 61). Queste disavventure lo condussero sull'orlo del fallimento e lo costrinsero a chiudere il banco, anche se riuscì a soddisfare tutti i creditori ("anti pagai ogni persona fino a uno picholo, e no a tempo...": p. 61). Ciononostante, il prestigio e l'influenza che gli aveva procurato la passata fortuna ("ogni genovese", egli stesso affermava, "me reputa e tene genovese": p - 62) e la protezione della potente famiglia dei Fieschi di Lavagna, tradizionalmente amici di Firenze e guelfì accesi, gli permisero di trovare un'onorevole occupazione nell'appatto delle gabelle del porto di Genova.
Tale nuova funzione, nell'esercizio della quale era molto temuto - (il B., scriveva nel 1392 Andrea di Bonanno socio del Datini, "à forza di fare del male asai a chi e' volesse": p. 4) - lo pose in più diretto contatto con molti commercianti fiorentini e pratesi allora stabiliti in Genova o che con Genova mantenevano rapporti daffari: fra essi il principale fu Francesco di Marco Datini, il grande mercante pratese, che nel 1392 gli si rivolse al molteplice fine di ottenere protezione per l'attività del fondaco che aveva aperto in Genova, sorveglianza sui suoi lontani dipendenti e informazioni sicure sulle vicende politiche e sulle prospettive economiche della Riviera ligure. Cominciò così un fitto scambio di epistole fra i due concittadini che durò ininterrottamente sino quasi alla morte del Datini (16 ag. 1410: l'ultima lettera a lui diretta reca la data del 6 nov. 1409), di cui il B. approfittò per seguire le sorti dei beni che venivano amministrati nel paese natio - con assai scarsa cura - da suo fratello Tendi.
Nel 1399 pare che l'industrioso uomo d'affari pratese abbia ottenuto per mezzo dei Fieschi, suoi protettori, la carica di podestà di Recco, che, comunque. esercitò con scarsa soddisfazione ("e sto qui et sum stato in Recho con grande despiaxere et no sono obedito": p - 66), rientrando allo scadere del mandato a Genova. Quivi, abbandonate le gabelle, riaprì con tutta probabilità a proprio nome un banco di cambio, continuando peraltro ad adoperarsi in favore del fondaco dell'amico Datini. Nell'estate del 1405, infine, tornò a visitare il paese natale, conducendo con sé la figlia Orsetta, che diede in moglie ad Andrea di Matteo Verzoni, di ottima famiglia pratese, e riappacificandosi col fratello Tendi. Rientrato a Genova, esercitò dal novembre del 1406 ai primi del 1408 l'ufficio di podestà di Diano (Imperia), nel quale pensava d'"averne aquistato honore, Idio laudato" (p. 117)
Dopo il 1409 non si hanno di lui altre notizie.
La biografia del B. è quella tipica, di un rappresentante del ceto mercantile italiano del sec. XIV; e di tale ceto egli sposava anche la mentalità, gli orientamenti politici e quelli morali. Guelfo, e amante di un governo di tipo popolare capace di mantenere l'ordine e di garantire la tranquilla esplicazione delle attività economiche, il B. si scaglia frequentemente, nelle sue lettere al Datini, contro le "sete maledete biastemate da Dio", e formate prevalentemente di nobili (Adorno e Campofregoso) "tutì ghibelini" (p. 81) che, con i loro contrasti, mettevano la città a soqquadro: "questa nostra cità de Genova de' essere bruxiata et argarata, perzò che no ve regna salvo demonii de l'inferno" (p. 76). Il suo moralismo piuttosto ristretto - e frequentemente confortato da citazioni bibliche - non gli fa scorgere (dopo che l'illusione di una reazione positiva del ceto medio è miseramente dissipata) altra soluzione che quella rappresentata dalla dittatura dell'uomo forte: "dragone o serpente, lo quale abia possanza sopra tuti li autri e faza una rigida et aspra giustizia..." (p. 83). E l'uomo forte venne, nella persona del governatore francese Jean Le Meingre, detto Boucicaut, la cui entrata in Genova è descritta dal B. in una lettera vivacissima e piena di speranza (pp. 85-88). Con il governo del Boucicaut l'attività dei vari partiti genovesi venne soffocata, l'ordine interno ristabilito; il B., che tanto prima aveva sofferto (così si esprimeva nel 1393: "per le mutacioni de li stati, sono disfato, e così sono li autri chi avevano a fare in cabele de mercatantia, e più io ca li autri": p. 63), riprese tranquillamente i suoi affari e abbandonò ogni preoccupazione politica: dopo il 1401 (il Boucicaut entrò in Genova il 31 ottobre) nelle sue lettere al Datini manca ogni accenno alla situazione intema genovese.
Comunque, per quanto si è detto e forse ancor più per le preziose notizie sull'attività economica di un mondo di cui egli era, più che testimone, attiva parte, le lettere del B. al Datini, non prive qua e là di una certa vivacità narrativa, costituiscono per noi una fonte assai preziosa per una migliore conoscenza del Trecento genovese.
Bibl.: R. Piattoli, Lettere di P. B. mercante del Trecento, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, LX (1932), fasc. I.