RICCIO, Pierfrancesco
RICCIO, Pierfrancesco. – Nacque a Prato il 10 dicembre 1501 da Clemente di Nese e da una certa Margherita in una famiglia di origini modeste, ma in grado di dargli un’istruzione che consentì a Pierfrancesco di diventare chierico e di entrare al servizio dei Medici.
Presente presso Giovanni delle Bande Nere e la moglie Maria Salviati almeno dal 1525, Riccio fu incaricato dapprima del governo della casa, poi dell’educazione del figlio Cosimo nato nel 1519. Sebbene le difficoltà finanziarie non permettessero loro la scelta di un precettore più illustre, egli seppe guadagnarsi la fiducia della Salviati, la quale, alla morte del marito (30 novembre 1526) e di fronte all’avanzata dell’esercito imperiale, mise in salvo il bambino a Venezia affidandolo alle sue cure. Vi giunsero il 10 dicembre 1526, seguiti nel maggio dalla Salviati. Riccio si occupò dell’istruzione di Cosimo privilegiando lo studio di Francesco Petrarca, piuttosto che del latino, e attese alla formazione del suo gusto estetico visitando i luoghi insigni della città e alla sua introduzione nel mondo politico, facendogli incontrare il doge e autorevoli membri del patriziato. Il soggiorno veneziano s’interruppe bruscamente nel settembre del 1527. Nel triennio successivo le guerre che sconvolsero la penisola obbligarono madre, figlio e precettore a spostarsi tra il Mugello, Bologna e Roma.
La restaurazione dei Medici li riportò in Toscana, tra la villa del Trebbio e la corte del duca Alessandro. Pur continuando a svolgere le mansioni di precettore, Riccio scortò il giovane nelle apparizioni ufficiali al fianco del duca: nel novembre del 1532 si recarono a Mantova all’incontro con Carlo V, nel dicembre a Bologna per l’abboccamento tra questi e Clemente VII, con il quale egli trattò, a nome della Salviati e senza successo, questioni patrimoniali e prospettive matrimoniali concernenti Cosimo. Di lì accompagnarono Carlo V a Genova, rientrando a Firenze nell’aprile del 1533 per trasferirsi nell’autunno allo Studio di Pisa per qualche mese.
All’indomani dell’assassinio di Alessandro (1537) e della successione di Cosimo la Salviati incluse Riccio in qualità di segretario nel ristretto gruppo di fidatissimi collaboratori di umili origini provinciali su cui il figlio poté contare per il consolidamento del proprio instabile potere. L’incertezza del titolo con cui ci si rivolgeva a lui – «primo» o «secreto» segretario, segretario «maior», «precipuo», «intimo», «particolare» – denota la natura personale del legame con l’antico discepolo quale emerge anche dal fitto carteggio intrattenuto da Firenze con il duca, spesso itinerante, per ragioni di sicurezza, tra le ville medicee o attraverso il ducato. I suoi compiti, ubbidienti a precisi mandati ducali, spaziavano, infatti, dalle cure a una tigre malata al soddisfacimento delle esigenze materiali dei principi (vestiario, biancheria, arredi, suppellettile), dall’accoglienza degli ospiti di rango a Firenze alla sorveglianza delle porte cittadine e dei lavori alle fortificazioni, dall’organizzazione di feste e tornei alla vigilanza sull’annona, dalla trasmissione e controllo del flusso continuo di notizie garantito da una rete capillare di informatori e spie a lui facenti capo, su cui poggiava la sicurezza dello Stato minacciata da nemici interni e dai fuorusciti, protetti da Paolo III e dalla Francia.
Assurto il 1° marzo 1545 al delicato ufficio di maggiordomo, che prevedeva la supervisione e la retribuzione del personale, nonché la cura degli approvvigionamenti, Riccio dovette destreggiarsi tra le rimostranze del parsimonioso duca per le eccessive spese nel governo di quella che non aveva ancora i tratti di una corte e quelle dei servitori e segretari per le irregolari retribuzioni e le insostenibili condizioni materiali della loro vita itinerante. Ma le sue funzioni si estesero ben al di là del settore domestico: egli amministrò per un certo periodo le numerose tenute medicee, fece da trait d’union tra Cosimo e il Consiglio segreto, eseguì la cacciata dei domenicani dal convento di S. Marco, organizzò gli spacci della corrispondenza in partenza e lo smistamento di quella in arrivo tra i vari segretari, provvide all’archiviazione di lettere e documenti, e svolse incarichi delicatissimi di controllo politico territoriale e militare, che testimoniano della perdurante fluidità dei compiti assegnatigli anche in anni di crescente distinzione e distribuzione di incarichi e competenze. Un ruolo di rilievo ebbe nella supervisione di pittori, scultori, architetti gravitanti intorno alla famiglia ducale, procurandosi l’astio di coloro che lo ritenevano responsabile di mancate committenze, accusandolo di aver creato «una setta […] e chi non era di quella non partecipava al favore della corte» (Vasari, 1881, p. 91).
Dalle fonti, però, non risulta una sua influenza sulla politica culturale e artistica di Cosimo, mentre emerge il profilo di un esecutore efficiente e solerte degli ordini ducali quanto privo di qualsiasi autonomia. In un clima di forte competitività tra gli artisti, ciò contribuì a farne il capro espiatorio di ogni esclusione. Qualificato di «bestia» da Benvenuto Cellini, disprezzato da Baccio Bandinelli, Francesco Salviati e Giorgio Vasari, Riccio mantenne buoni rapporti con il Bronzino (Alessandro Allori), il Tribolo (Niccolò Pericoli), Giovanbattista Del Tasso, il Bachiacca (Francesco Ubertini), Michele Ghirlandaio e il Pontormo (Iacopo Carucci), ma non ebbe voce nella scelta del soggetto e nella definizione del programma iconografico degli affreschi di quest’ultimo nel coro di San Lorenzo, di cui fu ideatore Benedetto Varchi. Anche con alcuni membri dell’Accademia Fiorentina, nella quale entrò nel 1541, ebbe relazioni tese dovute a divergenze sugli orientamenti culturali imposti da Cosimo, per suo tramite, agli accademici.
Ammalatosi gravemente nel marzo del 1548 per le fatiche e i disagi patiti e assentatosi fino a maggio, venne sostituito da almeno sette persone a riprova della molteplicità dei compiti affidatigli. Malgrado la precaria salute e le nuove mansioni di precettore delle principesse Isabella e Lucrezia aggiuntesi alle vecchie, rimase in servizio fino all’estate del 1553 quando un’infermità mentale lo costrinse a ritirarsi definitivamente dalla corte e a vivere dei proventi dei benefici ecclesiastici di cui Cosimo lo aveva dotato, tra cui la pingue prepositura di Prato conferitagli nel febbraio del 1550.
La tesi secondo cui la nomina alla prepositura di Prato e l’infermità mentale, seguite dall’allontanamento dalla corte, servissero a mascherare le sue posizioni eterodosse in coincidenza con la repressione inquisitoriale del 1551-52 e con l’arresto o l’abiura, oltre che di numerosi anabattisti, anche di uomini vicinissimi al duca, appare del tutto infondata visto che l’assegnazione della prepositura risale al 1550 e la sua uscita di scena all’estate del 1553. Tutt’altro che pretestuosa fu, inoltre, la malattia sulla cui autenticità vi sono molteplici testimonianze. Tale tesi nasce dal possesso da parte di Riccio dell’unico manoscritto superstite del Beneficio di Cristo, inserito in una silloge di scritti che presenta divergenti posizioni sulla dottrina della giustificazione all’indomani della dieta di Ratisbona (1541): esso illustra la curiosità in area toscana per il dibattito dottrinale in corso, ma non costituisce una prova dell’adesione di Riccio ai contenuti eterodossi del Beneficio. Tuttavia, pur se figura marginale della dissidenza religiosa, non mancano indizi di un suo interesse per le tematiche religiose, di letture di opere eterodosse e di frequentazioni di personaggi attivamente coinvolti in forme di proselitismo ereticale, che, come lui, condivisero, nutrendone il proprio dissenso, l’aggressiva politica antifarnesiana e gli atteggiamenti fortemente anticlericali e anticuriali di Cosimo e che godettero a lungo della sua protezione.
Dopo nove anni di malattia, nel maggio del 1562 le condizioni mentali di Riccio migliorarono, consentendogli di riprendere l’affettuoso rapporto con il duca e la sua famiglia, ma a seguito della rottura del femore nel luglio del 1563 la sua salute peggiorò irrimediabilmente.
Ottenuta da Pio IV, grazie all’intervento di Cosimo, la facoltà di testare dei proventi dei beni ecclesiastici fino a 6000 ducati d’oro di Camera, il 5 febbraio 1564 fece testamento e il seguente 17 febbraio si spense in luogo imprecisato. Fu sepolto nella chiesa di S. Stefano a Prato.
Di Riccio rimangono alcuni ritratti: Bronzino lo effigiò come Giosuè nell’Attraversamento del mar Rosso nella cappella di Eleonora di Toledo a Palazzo Vecchio; a Prato si conservano due ritratti, uno nella sagrestia del duomo eseguito da Michele Ghirlandaio e l’altro nel Palazzo comunale attribuito a Salviati.
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