GIAMBULLARI, Pierfrancesco
Nacque a Firenze nel 1495 da Bernardo e da Lucrezia degli Stefani.
Il padre, rimatore dell'ambiente laurenziano, avviò precocemente il figlio agli studi letterari (di latino e di greco, ma anche dell'ebraico e del caldeo) e si adoperò attivamente per ottenergli lucrosi uffici. Appena sedicenne, il G. era segretario di Alfonsina Orsini, vedova di Piero de' Medici, figlio del Magnifico; per intervento di lei ottenne nel 1515 il rettorato della chiesa di Careggi e probabilmente nello stesso anno la cappellania di S. Maria della Compagnia di Libbiano a Volterra (che gli garantiva un beneficio di 200 scudi annui). Da Leone X ebbe una pensione di 100 scudi all'anno in Spagna. Canonico soprannumerario della basilica di S. Lorenzo già prima del 1515, nel 1527 ne divenne canonico collegiale, ufficio che tenne fino alla morte. Il 25 dic. 1540 fu ammesso tra i primi nella neonata Accademia degli Umidi, il cenacolo letterario fondato da quella singolare figura di letterato popolare che fu Giovanni Mazzuoli da Strada, e che con l'ingresso del G., e insieme con lui di Cosimo Bartoli e di Giovanni Norchiati, vide una rapida trasformazione (già compiuta nel febbraio 1541) in Accademia Fiorentina, sotto gli auspici del duca Cosimo I. Di questa istituzionalizzazione, di importanza centrale nella politica culturale cosmiana, il G., legatissimo alla dinastia, fu protagonista di primo piano. Nell'Accademia rappresentò, insieme con Giovan Battista Gelli, Carlo Lenzoni, Cosimo Bartoli, il gruppo più vicino alle istanze cosmiane e più fedele alla tradizione fiorentina, sia linguistico-letteraria (culto di Dante e studi grammaticali), sia filosofica (continuazione del platonismo cristiano di ascendenza ficiniana), rispetto a letterati come Benedetto Varchi e Ugolino Martelli, che avevano studiato a Padova ed erano portatori di una cultura aristotelica, per vari aspetti inedita nell'orizzonte fiorentino. Nell'Accademia il G. rivestì le cariche di consolo nel 1546, censore nel 1541, 1543, 1544, 1546, "deputato a riformare le cose dell'Accademia" nel 1546 e nel 1550, consigliere nel 1551, riformatore della lingua nel 1550 e nel 1551. Vi tenne diverse letture su Dante, tra il 1541 e il 1548, e vide approvate le sue opere: il Commento sopra l'Inferno di Dante il 14 genn. 1542, il Gello il 24 marzo 1546. Almeno dal 1550 ebbe anche l'incarico di custode della Biblioteca Laurenziana.
Morì a Firenze il 24 ag. 1555 e ricevette solenni esequie dagli Accademici.
Fu sepolto in S. Maria Novella e il Bartoli, a lui legato da lunga e intensa amicizia, pronunciò una commossa orazione funebre. Utile per le notizie biografiche che contiene, tratteggia con toni di caldo encomio il carattere del G., persona mite e virtuosa, affabile e piacevole nel conversare, disponibile nell'insegnare a tutti i segreti delle sue ricerche, immune da ambizione e fame di onori. Tratti questi che, una volta tarati della iperbole celebrativa, possiamo ascrivere al canonico fiorentino, che fu circondato dalla benevolenza di colleghi e amici ed ebbe il sostanziale rispetto anche degli avversari.
L'attività del G. è scandita da due principali interessi: l'esegesi dantesca e gli studi grammaticali. Agli anni giovanili risale la produzione poetica, di carattere occasionale e rinnegata in età matura. Restano quindici sonetti, sei canzoni, tre sestine, tredici madrigali, sei canti carnascialeschi contenuti nella miscellanea Sonetti, canzoni, et madriali, di varii autori in lingua tosca segnati dei nomi loro (Firenze, Bibl. nazionale, ms. Magliabechiano VII.371). Il codice è quasi tutto autografo, non reca data e il cognome del G. è cancellato nella prima parte, così da leggersi "P. Lari". I canti carnascialeschi furono stampati postumi nella raccolta curata dal Lasca (A.F. Grazzini) Tutti i trionfi, carri, mascheaate [sic] o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del magnifico Lorenzo vecchio de Medici… infino a questo anno presente 1559 (Firenze, L. Torrentino, 1559). Senza tratti di originalità nell'insieme, le liriche si iscrivono nella coeva rimeria petrarchevole; i canti carnascialeschi sono di tono francamente osceno.
Il ruolo di primo piano rivestito dal G. nell'organigramma culturale cosmiano è testimoniato dall'Apparato et feste per le nozze dell'illustrissimo signor duca di Firenze e della duchessa sua consorte (Firenze, B. Giunti, 1539), in forma di epistola inviata a Giovanni Bandini, l'oratore fiorentino presso Carlo V. È la minutissima descrizione dei festeggiamenti per il matrimonio di Cosimo I con Eleonora di Toledo, l'8 ag. 1539, che rappresentava il coronamento della politica del nuovo duca mediante il legame con il casato imperiale. Il G. si fa interprete scrupoloso della simbologia politica messa in opera nell'occasione, di cui era stato incaricato, per la parte relativa ai motti delle imprese e alle iscrizioni, Giovan Battista Gelli e che miravano a trasmettere precisi messaggi politici: sovrapposizione della figura di Cosimo a quelle imperiali di Carlo V (da cui dipendeva l'esistenza stessa del Ducato) e di Augusto (restauratore della pace dopo un periodo di guerre intestine); eredità del casato mediceo confluito nella figura di Cosimo e suo collegamento con il ramo popolare della dinastia; motivo nazionalistico dell'antichità etrusca; motivo della pacificazione e della dedizione a Firenze delle altre città toscane.
Ma, molto più che semplice apologeta ufficiale del nuovo regime, il G. fu assertore convinto delle tesi esposte dal Gelli nel trattatello dell'Origine di Firenze. Vi è sostenuta una fantasiosa teoria della fondazione della prima civiltà postdiluviale in Toscana a opera di Giano, identificato sincreticamente con Noè o Noah, portatore di una cultura anteriore a quella greco-romana, che si credeva fosse quella etrusca, i cui manufatti andavano scoprendosi in quegli anni, e che offriva solida base propagandistica all'idea di uno Stato regionale toscano sotto l'egida dei Medici. Il trattato gelliano rimase manoscritto e sparì presto dalla scena culturale fiorentina, dove era introvabile già alla fine degli anni Settanta. Il compito di sostenere le tesi gelliane fu assunto dal G., che nel dialogo intitolato appunto Il Gello (composto probabilmente tra il 1542 e il 1545, pubblicato da A. Doni nel 1546 e, in una seconda edizione più elegante e corretta, da L. Torrentino nel 1549) dà risonanza alle tesi aramee specificamente in campo linguistico, postulando una derivazione del volgare toscano dall'etrusco e di questo dall'arameo. Senza pensare a una strategia editoriale concordata per le tesi condivise dai due letterati o a un assorbimento dell'Origine nel dialogo del G., che presenta un impianto molto più solido e articolato, non resta che constatare la solidarietà tra le posizioni dei due autori e l'imporsi dello scritto del G. come opera più autorevole della teoria aramea. Del mito gelliano il G. recepisce le linee generali, che tendevano a saltare l'antichità classica per risalire, attraverso la mediazione degli Etruschi, a uno stadio più antico e originario, costituito dalla cultura e dalla lingua di Noè, l'aramaico. L'approccio alla materia è però sensibilmente differente da quello del suo collega e amico, così come da quello dell'orientalista francese Guillaume Postel, che sostenne teorie analoghe in un De Etruriae originibus, pubblicato a Firenze nel 1551. Per le testimonianze storiche, i tre studiosi si rifacevano all'opera del letterato Giovanni Nanni (Annio da Viterbo), che nei suoi Commentaria super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium (Roma, E. Silver, 1498) aveva divulgato tra l'altro i frammenti del presunto storico caldeo Beroso, in realtà frutto di invenzione. Rispetto a queste fonti, il G. mantiene un atteggiamento prudente e relativista, e sposta la sua attenzione sul piano linguistico. Pur aderendo agli aspetti leggendari del mito, la prova decisiva della discendenza della civiltà toscana dall'aramaico proviene per lui in primo luogo dalla constatazione della quantità di parole volgari corradicali con parole aramaiche, come egli si sforza di dimostrare mediante ampie esemplificazioni. L'etimologia disvelata di toponimi toscani, come per esempio Firenze, Arno, Etruria o di "marzocco", in alternativa alla derivazione latina, diventa in questo contesto la prova di una filiazione storica, più forte ed evidente delle testimonianze degli autori, anche se il G. non disdegna di attingere alle fonti letterarie per supportare la veridicità delle sue intuizioni linguistiche. La divergenza di vedute rispetto al Postel - con il quale il G. carteggiò dopo la pubblicazione del Gello a proposito di un testo di Ateneo Naucratita scoperto dal G. nella Biblioteca Laurenziana, che sembrava confermare la tesi degli autori anniani sulla venuta di Noè in Toscana - non si limita peraltro a un problema di metodologia. Del Postel il G. non condivide la prospettiva utopico-profetica e le coloriture magico-mistiche del recupero della lingua santa noachica, che nello studioso francese tendevano a una rigenerazione generale della Cristianità in chiave spirituale. La ricostruzione giambullariana ha carattere prettamente laico e intende muovere da presupposti scientifici (rispetto al Gelli, che non conosceva l'ebraico, le nozioni linguistiche del G. sono molto più ampie: egli si spinge a comparazioni anche con il caldeo, l'arabo).
A parte la tesi aramea, gli interessi linguistici del G. si inquadrano nel programma dell'Accademia Fiorentina, che nel 1550 decise di dedicare le sue energie specificamente al problema della lingua volgare. Il 3 dic. 1550 fu creata una commissione di riformatori della lingua, composta, oltre che dal G., da Benedetto Varchi, Carlo Lenzoni, Lionardo Tanci e Francesco Torelli. Il 22 nov. 1551 a Lenzoni (defunto) e a Torelli subentrarono Francesco Guidetti e Francesco D'Ambra. L'iniziativa aveva la sua premessa nell'opera che il G. aveva composto negli anni precedenti e che si apprestava a dare alla luce: le Regole della lingua fiorentina, trasmesse da due manoscritti e dalla stampa fiorentina senza indicazione di tipografo e anno (ma L. Torrentino, 1552: a essa si deve il titolo vulgato, che ne riflette l'impostazione, De la lingua che si parla e si scrive in Firenze), unica edizione esistente dell'opera prima di quella critica. La composizione si colloca tra l'estate 1546 e il 1548; nel 1548 l'opera fu presentata in omaggio al futuro duca Francesco I, verosimilmente il giorno del suo compleanno, il 25 marzo. Si trattava della prima grammatica della lingua fiorentina, per la quale l'attesa negli ambienti letterari cittadini era vivissima, avendo la cultura toscana subito finora in campo grammaticale la supremazia di studiosi di altre aree, specialmente di quella veneta (Bembo, Fortunio, Trissino), che avevano fondato il prestigio del fiorentino sulla lingua letteraria, di fatto espropriandone la giurisdizione agli stessi Fiorentini, in possesso della sola lingua parlata e quindi inconsapevoli del livello estetico a cui si poteva esprimere il loro idioma. Da un punto di vista strutturale, le Regole, in otto libri, si distinguono parecchio dalle precedenti opere grammaticali, per l'ampio spazio che dedicano alla sintassi e allo stile (libri III-VIII); mentre ristretta ai primi due libri è l'esposizione della fonetica e della morfologia, non scevra di argomentazioni arbitrarie e bizzarre. L'impostazione del G. riflette le tendenza all'espansionismo culturale mediceo: la grammatica è diretta ai forestieri e ai fanciulli che desiderano parlare e scrivere in fiorentino, non già ai fiorentini adulti, che di ciò non hanno bisogno. Il richiamo alla lingua parlata, che è comunque per il G. quella delle classi colte, è costante di tutta l'operetta, rispetto a una lingua letteraria percepita sì come livello di elaborazione più elevato, non tale però da impedire aperture verso espressioni più popolari, autorizzate dall'uso e talora recepite dalla stessa tradizione scritta. Il ricorso agli autori (in primo luogo le tre corone, ma anche contemporanei come Ludovico Martelli, Luigi Alamanni) è elevato, così come cospicuo è l'uso dei latini (sono utilizzati i grammatici e i retori classici) e la frequenza di voci greche. Il carattere composito delle tesi giambullariane, la conciliazione in sostanza irrisolta tra tradizione e uso, spiega il modestissimo successo che arrise all'operetta, anche in ambiente fiorentino.
Il G. impiegò le sue cure anche nella preparazione dell'opera di Carlo Lenzoni In difesa della lingua fiorentina et di Dante, con le regole da far bella et numerosa la prosa. L'opera era compiuta e pronta per la stampa ed era stata approvata dall'Accademia il 20 febbr. 1547, ma in seguito era stata bruciata dall'autore, che però ne aveva lasciato una redazione incompleta e gli appunti al Giambullari. Questi, dopo la morte dell'amico, ne allestì un'edizione che vide la luce nel 1556-57 per interessamento del Bartoli, dopo la morte dello stesso Giambullari.
Insieme con il Bartoli, il Lenzoni e il Borghini, il G. eseguì infine la revisione formale delle Vite degli artisti di Giorgio Vasari, uscite presso il Torrentino nel 1550: l'intervento dei letterati, che si situa tra l'estate del 1549 e la stampa, nell'aprile 1550, riguardò ovviamente fatti di stile e la sua entità è testimoniata dal carteggio del Vasari.
Il nome del G. è stato posto in relazione a quello del misterioso Neri Dortelata, personaggio su cui non si hanno dati biografici, al quale sono ascritte le stampe, nel 1544, del commento di Marsilio Ficino Sopra lo amore o ver Convito di Platone nel volgarizzamento di Cosimo Bartoli, e dell'opera del G. De 'l sìto, fórma e mesúre dello Inférno di Dànte. I due volumetti hanno un particolare rilievo nella storia della letteratura cinquecentesca per la riforma ortografica ivi introdotta dall'editore, appunto il Dortelata, il quale nel Sopra lo amore alla dedica a Cosimo I, a firma del Bartoli, fa seguire delle Osservazioni per la pronunzia fiorentina, in cui illustra la sua proposta, mentre nel Del sito acclude in calce una postilla "A gli amatori della lingua fiorentina". La riforma (consistente in buona sostanza nella distinzione dei suoni omografi non omofoni: e e o aperte e chiuse, s e z sorde e sonore; eliminazione di k, x, y, accentazione di tutte le sillabe ecc.) non rappresenta tuttavia una novità assoluta, visto che il problema dell'ortografia del volgare era stato oggetto nei decenni precedenti dell'attenzione di letterati quali Giangiorgio Trissino e Claudio Tolomei, né incontrò successo tra i letterati fiorentini. Il cognome Dortelata, non attestato da alcun documento fiorentino coevo, è sicuramente uno pseudonimo. L'identificazione con il Bartoli (sostenuta per primo da S. Salvini, Fasti consolari dell'Accademia Fiorentina, Firenze 1717, p. 80), alla luce dell'indifferenza ai problemi ortografici che testimoniano i suoi manoscritti, è stata scartata. Quella con il G. è stata sostenuta sulla base del fatto che nel De la lingua che si parla e si scrive in Firenze egli sostiene una riforma ortografica moderata in tutto simile a quella propugnata dal Dortelata, utilizzando gran parte degli esempi forniti da quest'ultimo, cosa che sarebbe stata assai improbabile, se non impossibile, per un altro autore. G. Gatti ha visto addirittura in Neri Dortelata l'anagramma di "ordinalettera", parola che, come altre neoformazioni di imperativo + sostantivo create sul modello di analoghi tecnicismi latini e greci, ricorre nel De la lingua che si parla e si scrive. Il G. avrebbe emancipato il termine dal suo significato originario, prettamente grammaticale, per indicare la generale risistemazione dell'alfabeto.
Per quanto riguarda gli studi danteschi, il Comento all'Inferno di Dante del G. fu opera molto attesa dai contemporanei. L'autore vi si dedicò a partire almeno dal 1538 (data di uno dei due codici che tramandano l'unico frammento rimasto, il Marciano lat. XIV.50 [4238], autografo; l'altro è il Riccardiano 2115, forse autografo, successivo). L'intenzione ambiziosa era di commentare tutta la Commedia, ma dal Gelli (Letture, I, p. 318) sappiamo che l'opera era giunta ai primi canti del Purgatorio, quando l'autore si spense, e che il G. la affidò all'amico, ordinando di non pubblicarla. Il frammento marciano, sul I canto dell'Inferno, pubblicato dal Barbi, non consente che valutazioni limitate, né si può dire con esattezza se il "Comento sopra l'Inferno di Dante" approvato dall'Accademia Fiorentina il 14 genn. 1542 fosse in rapporto con l'opera generale, se da quella data alla morte del G. il lavoro poi proseguì solo di pochissimo, come attesta il Gelli. L'intenzione del G. è quella di illustrare soprattutto il livello letterale del testo dantesco, dando poco spazio all'interpretazione allegorica. Tuttavia l'orientamento della critica dantesca giambullariana dovette essere più composito di quanto è dato constatare nel Comento: le annotazioni su un esemplare dell'edizione aldina del 1502 della Commedia, di cui dà notizia il Barbi (p. 198) consisterebbero in un'illustrazione storica e allegorica tratta parola per parola dal commento del Landino e nel codice marciano è detto che il G. non intendeva premettere nulla all'interpretazione del testo, mentre nella copia di cui fu in possesso il Gelli era una vita di Dante e alcuni preamboli in cui si trattava dell'intenzione del poema, del suo titolo e di altre simili questioni.
Più semplice la situazione delle lezioni dantesche tenute nell'Accademia Fiorentina, nelle quali il metodo del G. emerge con chiarezza: il 20 nov. 1541 sul Luogo, l'altezza e la divisione del Purgatorio; il 12 nov. 1542 Sopra il XXVI del Paradiso nel luogo che comincia "non fu latente la santa intentione"; nel dicembre 1543 su Gli influssi celesti, a partire da un luogo del canto VIII del Paradiso; il 27 maggio 1548 su L'ordine dell'universo, sui versi 31-36 del XXIX del Paradiso. Le prime due videro la luce nelle Lettioni di Accademici Fiorentini sopra Dante, Firenze, A. Doni, 1547; tutte e quattro in Lezioni lette nell'Accademia Fiorentina, L. Torrentino, 1551. Una quinta lezione, di cui non si conserva il testo, fu tenuta dal G. il 25 nov. 1549, sulle prime quattro terzine del XXIV del Paradiso. L'indifferenza verso il nucleo poetico del poema dantesco fa sì che nelle lezioni emerga un'ermeneutica prevalentemente dottrinaria e morale. Il G. si inserisce nella prospettiva di leggere l'opera di Dante come poeta-teologo, che si arricchisce di valori a ogni nuova esegesi, alla luce di un enciclopedismo curioso e disponibile, uno dei tratti questo della cultura giambullariana. In essa potevano riconoscersi i neonati Accademici Fiorentini, ma anche un ceto di lettori borghesi e meccanici, i quali guardavano al sommo poeta più come fonte di insegnamenti etico-civili e scritturali, che come dispensatore di valori estetici o di impegnativi paradigmi metafisici. Interessi astronomici, scientifici, filosofici, topografici (il G. si inserisce nella tradizione di studi in questo settore inaugurata da Antonio Manetti e proseguita da Girolamo Benivieni con il Dialogo circa el sito, forma e mesure dello Inferno, nel 1506), cronologici (i Dialogi de' giorni che Dante consumò nel cercare l'Inferno e il Purgatorio di Donato Giannotti sono del 1546) si avvicendano nelle lezioni, senza che in sostanza si avverta la necessità di un quadro teorico complessivo, e predominante è l'andamento erudito, per cui l'esegesi si allarga nella serie diffusa dei riferimenti dotti, dell'esplorazione dei passi biblici e classici, della citazione di autorità, perdendo di vista un giudizio sintetico.
Il G. fu infine il primo a concepire il progetto di un'opera storica che varcasse i confini cittadini e nazionali. La Historia dell'Europa avrebbe dovuto, nelle intenzioni dell'autore, coprire il periodo 887-1200, ma restò incompiuta al 947, in sette libri (la pubblicazione, in una stampa molto scorretta, fu curata dal Bartoli: Venezia, F. Sanese, 1566). Il G. si dimostra storico documentato; l'elenco delle fonti accertate dagli studiosi è di oltre settanta e comprende autori medievali (soprattutto l'Antapodosis di Liutprando di Pavia), umanistici, nonché opere geografiche ed erudite. Il fine del G. come storico è quello di fornire un quadro chiaro degli avvenimenti che si svolsero in Europa dall'VIII al XII secolo, mediante una descrizione minuziosa dei fatti, che tende talora a disperdersi nell'abbondanza dei particolari illustrati per completezza. Alla frequenza delle digressioni, che sono per lo più artisticamente riuscite, epperò rendono faticosa la lettura, non corrisponde una scrupolosa esattezza nel vaglio delle fonti, dalle quali talvolta il G. accoglie notizie imprecise o inesatte, o con una cronologia scorretta, o altrimenti accetta resoconti leggendari o soprannaturali senza dar prova di grande senso critico. Il giudizio sulla Historia giambullariana non può dunque essere scevro da riserve, se si tiene presente la scientificità del lavoro, così come evidente è il distacco dagli interessi politici e civili tanto caratteristici della storiografia fiorentina di età repubblicana. Nei limiti dell'impostazione prettamente letteraria e nel tenore erudito ed enciclopedico che la caratterizza, andrà apprezzata l'ampiezza della documentazione e la sicurezza dello stile, che rivela nel G. un eccellente prosatore, più che nelle opere di esegesi dantesca e di teoria linguistica.
Opere: L'edizione critica delle Regole della lingua fiorentina è stata procurata da I. Bonomi, Firenze 1986, a cui si rinvia per la bibliografia. Le poesie giovanili sono pubblicate in Saggio di poesie inedite, a cura di D. Moreni, Nozze Arrighi-Ricasoli, Firenze 1820 (contiene anche l'orazione funebre scritta dal Bartoli); il Commento inedito al canto I dell'Inferno in M. Barbi, Della fortuna di Dante nel sec. XVI, Pisa 1890, pp. 363-404 (cfr. anche pp. 195-202, 217 s., 220, 223); la Historia dell'Europa, più volte stampata nel XIX e XX secolo, si legge nelle edizioni di A. Gotti, Firenze 1856, e di G. Marangoni, Milano 1910 (utili anche le ricche introduzioni); cinque componimenti del G. sono nei Canti carnascialeschi del Rinascimento, a cura di C. Singleton, Bari 1936, pp. 334-343. L'edizione anastatica del Sopra lo Amore è in Trattati di fonetica del Cinquecento, a cura di N. Maraschio, Firenze 1992, pp. 411-499. Resta anche un Poeticae compendium (Firenze, Bibl. nazionale, ms. Magliabechiano VII.487, autografo), riduzione latina, incompleta, della Poetica d'Aristotele, eseguita sull'edizione Basilea 1537.
Fonti e Bibl.: G.B. Gelli, Letture edite e inedite sopra la Commedia di Dante, a cura di C. Negroni, Firenze 1887, I, pp. 31 s., 39, 43, 94, 108 s., 113, 118, 207, 243, 249, 258, 291, 297, 318, 320, 422, 474, 494, 529, 543; II, pp. 16, 27, 297, 429, 510; Id., Dell'origine di Firenze, a cura di A. D'Alessandro, in Atti e memorie dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", XLIV (1980), pp. 61-70; G. Kirner, Sulla Storia dell'Europa di P. G., Pisa 1889; C. Valacca, La vita e le opere di messer P. G. Parte prima (1495-1541), Bitonto 1898; E. Mele, Le fonti spagnuole della Storia dell'Europa del G., in Giorn. stor. della letteratura italiana, LIX (1912), pp. 359-374; G.L. Luzzatto, L'arte di P.F. G., in Convivium, VI (1934), pp. 284-291; L. Consortini, Curiosità archeologiche. P.F. G. e le monete etrusche volterrane, in Rassegna volterrana, XIV-XVI (1942), pp. 251-253; B. Croce, P.F. G., in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, II, Bari 1945, pp. 56-64; P. Fiorelli, P. G. e la riforma dell'alfabeto, in Studi di filologia italiana, XIV (1956), pp. 177-210; F. Secret, Notes sur Guillaume Postel, in Bibl. d'Humanisme et Renaissance, XXI (1959), pp. 461-463; E. Coseriu, Las etimologìas de G., in Homenaje a Antonio Trovar, Madrid 1972, pp. 103-116; M. Plaisance, Culture et politique à Florence de 1542 à 1551: Lasca et les Humidi aux prises avec l'Académie Florentine, in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l'époque de la Renaissance, Paris 1974, pp. 149-242; A. D'Alessandro, Il Gello di P.F. Giambullari. Mito e ideologia nel principato di Cosimo I, in La nascita della Toscana. Dal Convegno di studi per il IV centenario della morte di Cosimo I de' Medici, Firenze 1980, pp. 73-104; G. Gatti, "Quest'è quel goffo e quel malvagio Neri", in Lingua nostra, XLI (1980), 1, pp. 19 s.; I. Bonomi, La grammatica di P. G.: saggio di un'analisi delle forme verbali del fiorentino vivo, in Il Rinascimento. Aspetti e problemi attuali, Atti del X Congresso dell'Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, a cura di V. Branca, Firenze 1982, pp. 231-242; J. Bryce, Cosimo Bartoli (1503-72). The career of a Florentine polymath, Genève 1983, ad indicem; D.E. Rhodes, La stampa a Firenze, Firenze 1984, p. 51 fig. 39; I. Bonomi, G. e Varchi grammatici nell'ambiente linguistico fiorentino, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana. Atti del Convegno internazionale per il IV centenario dell'Accademia della Crusca… 1983, Firenze 1985, pp. 65-79; C. Vasoli, A proposito della Storia d'Europa del G., in Nuova Rivista storica, LXXVII (1993), pp. 624-639; O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad indices.