GRATAROL, Pierantonio
Nacque a Venezia nel 1738, unico figlio di Giuseppe di Andrea (1682-1750) e della seconda moglie Regina Lesilion, sposata nel luglio 1736. Fu battezzato nella parrocchia di S. Marziale coi nomi Pierantonio Andrea Giovanni.
La famiglia, originaria di Venezia, poi trasferitasi a Bergamo e a Padova e infine tornata nella Dominante, ebbe vari rami collaterali, esercitanti l'avvocatura, la medicina o attività mercantili in proprio. Il G. apparteneva al ramo - destinato a importanti funzioni nella Cancelleria ducale - che già all'inizio del XVII secolo (1605-12) aveva ottenuto dall'avogaria di Comun il riconoscimento della cittadinanza originaria. Un fratello del nonno Andrea, dal quale il G. prese il nome, aveva ricoperto l'ambita carica di segretario del Consiglio dei dieci. Morto il G. senza eredi maschi, il suo ramo si estinse nel 1792 alla scomparsa di un cugino, Andrea, pur sopravvivendo a costui quattro sorelle, Angela, Anna, Chiara e Teresa.
Il padre del G., cancelliere ordinario dal 1713, lo preparò presto alla futura carriera affidandone l'educazione a Natale Dalle Lastre, più volte consulente della Serenissima in delicati affari, e introducendolo presto nel mondo politico veneziano. Purtroppo all'età di dodici anni mancò al G. la guida prudente e severa del genitore, morto "da tubercoli" (21 sett. 1750). Il patrimonio di famiglia - comprendente immobili nella Dominante, "fabriche" coloniche e appezzamenti di terreno a Malamocco, Marghera, Carpenedo, Marcon, San Trovaso, Lovadina, Conegliano, Campolongo, Battaglia, Camposampiero, Gambarare, con una rendita dichiarata ai savi alle Decime, nel 1740, di 867 ducati annui - passò, pur rimanendone la madre usufruttuaria, interamente a lui, che sino al compimento del ventesimo anno di età fu sotto la tutela del padrino, Andrea Diedo di Marcantonio.
Approvato alla Cancelleria ducale, come estraordinario, il 21 marzo 1752, divenne effettivo il 6 genn. 1755. Tra 1758 e 1760 fu segretario del provveditore generale a Palmanova; il 1° apr. 1765 fu approvato, per quattro anni, segretario dei provveditori alle Artiglierie, carica che lasciò anzitempo perché eletto (1° febbr. 1767) alla segreteria degli uffici della Zecca; il 1° febbr. 1771 tornò alle Artiglierie.
Una svolta decisiva venne il 12 marzo 1772, quando fu scelto come uno dei segretari del Senato, carica che lo avrebbe messo a conoscenza diretta degli affari più delicati della Serenissima ma apriva anche la strada al segretariato del Consiglio dei dieci, a posti nella diplomazia veneziana - come residente presso corti minori - e all'ambito incarico vitalizio di cancelliere grande, massima dignità cui poteva aspirare un cittadino originario, magari in sostituzione di Giovanni Colombo, cui aveva dedicato una Gratulazione (edita a Venezia nel 1766) che, per i toni enfatici e adulatori, fu "malignata" negli ambienti cancellereschi.
Desideroso di emergere nel bel mondo, accanto ai doveri professionali il G. non disdegnò di frequentare teatri, casini da gioco, salotti alla moda, ricevendo a sua volta sontuosamente nel suo palazzo in stile rococò, con grande dispendio di denaro, attinto alla cospicua dote della moglie, Santina Olivieri, di origine modenese e già ballerina, sposata a soli ventidue anni e dalla quale ben presto si separò, senza figli, per condurre una vita più leggera e libertina. Di fisico minuto, capelli chiari, fronte spaziosa, lineamenti sottili e sguardo accattivante (come lo mostra un'incisione di V. Giaconi, 1797), vestito impeccabilmente di variopinte sete e rasi alla moda francese, di modi ricercati e manierosi ma non scevri di una certa arrogante presunzione di sé, il G. sembrò quasi voler attrarre una greve e quasi generale ilarità col suo stile effeminato.
Nel 1772 fondò la prima loggia massonica di Venezia, denominata L'Union, che ottenne dalla grande loggia inglese dei Moderns la patente n. 438; nel primo periodo ne fu il maestro venerabile. Posta nella parrocchia di S. Marcuola, in corte Ca' da Mosto, in un appartamento sopra il Canal Grande affittato da un "milord Blandir", vi appartenevano, come nella tradizione inglese, fratelli di diversa estrazione sociale, tra cui i nobili R. Sceriman e M. Dandolo, il conte G. Thiene, "un Marcello", ebrei, greci, associati stranieri ed esponenti dell'alta burocrazia ministeriale. Sebbene dal 1774 gli inquisitori di Stato fossero informati in dettaglio sulle attività della loggia dai confidenti G.B. Manuzzi e A. Andrioli, non presero provvedimenti sino al maggio 1777, quando giunse in visita a Venezia Federico Adolfo, fratello del re di Svezia ed esponente di spicco della massoneria svedese. In suo onore il G. allestì un pranzo sontuoso - ma "con tutta segretezza" - a palazzo Priuli in Cannaregio, cui parteciparono anche il duca di Gloucester con i suoi cavalieri e un conte Colonna, attirandosi una severa ammonizione da parte del Consiglio dei dieci. La loggia fu travolta nel settembre dello stesso anno dalla precipitosa partenza da Venezia del G., al quale comunque la fratellanza massonica valse non pochi appoggi nelle successive peregrinazioni.
La sua serietà nell'adempiere ai doveri di una carica così ambita quanto discrezionalmente impegnativa gli valse l'appoggio e l'amicizia di influenti esponenti del patriziato, quali Francesco Pesaro, Domenico Contarini, Angelo Emo.
Nel 1773, dopo aver sperato per breve tempo di seguire Pietro Contarini nell'ambasciata straordinaria a Torino per felicitare Vittorio Amedeo III per la salita al trono di Sardegna, soppressa per difficoltà di protocollo, giunse finalmente per il G. la desiderata nomina a residente presso la corte dei Savoia, in sostituzione di G.F. Zen (11 settembre).
Il successo fu però effimero, perché da esso iniziò una concatenazione di circostanze, politiche e personali, che portò il G. alla rovina. Egli infatti si era posto in concorrenza con un protetto del procuratore Andrea Tron di Nicolò, cavaliere della Stola d'oro e uomo di grande intelligenza, di profonda preparazione politica e diplomatica e d'indubbio carisma personale, giunto con una folgorante carriera ai vertici del potere veneziano. Per aggirare le ire del Tron per lo smacco subito e non vedersi negate le credenziali per Torino, il G. pensò di ingraziarsi la di lui giovane moglie Caterina Dolfin, già divorziata da Marcantonio Tiepolo, di grande bellezza e pari ingegno ma di scarse risorse economiche, che il matrimonio col maturo Tron (1772) aveva portato al centro della vita culturale e mondana di Venezia. Adulazione, servilismo e strenuo corteggiamento valsero al G. la conquista dei favori della donna e la sua intercessione positiva presso il marito. Certo del trionfo, egli spese 2400 zecchini anticipatigli dallo Stato e molti altri di tasca propria in banchetti, ricevimenti, abiti e domestici per celebrare la prossima partenza; questa però non avvenne, perché improvvisamente la corte sabauda ritirò il suo ambasciatore a Venezia e la Serenissima richiamò il proprio da Torino, decidendo la soppressione della sede diplomatica.
Quasi a simbolico risarcimento il Senato assegnò al G. (22 genn. 1774), su richiesta del cassiere di Collegio e del cancelliere grande, un vitalizio mensile di 14 ducati "onde quest'atto di grazie dia stimolo maggiore alle accette ed utili di lui applicazioni". Egli sembrò comunque non risentire troppo della momentanea delusione e anzi colse occasione per espandere le proprie conoscenze e amicizie negli altri Stati della penisola. Ottenuta la licenza senatoriale per assentarsi dai territori della Serenissima, obbligatoria per i segretari, tra 1774 e 1775 compì brevi visite in Lombardia, Toscana, Calabria, Roma e Napoli, da cui sempre tornò, seppure con qualche ritardo sui termini delle licenze. Alla fine del 1775 riprese gli impegni cancellereschi, pur aspirando ancora all'elezione a residente, forte dell'appoggio di un nutrito numero di senatori. Con altrettanto impegno si dedicò alle frequentazioni mondane. In una di queste occasioni gli fu presentata, al teatro di S. Salvador, l'attrice Teodora Ricci, impegnata con la compagnia comica di A. Sacchi, da qualche tempo amante e protetta di Carlo Gozzi che per lei - e gratuitamente per la compagnia - scriveva commedie tali da esaltarne le qualità recitative. Tra il G. e la Ricci, donna non bella ma spregiudicata e ambiziosa, nacque subito un'infuocata relazione che scatenò la senile gelosia del Gozzi, il quale, mirando a una pubblica vendetta, si dette a rifare in chiave fortemente satirica una commedia di Tirso de Molina. Nell'opera, in tre atti e allusivamente titolata Le droghe d'amore, un personaggio secondario, denominato don Adone, poneva in caricatura le caratteristiche fisiche e comportamentali del vagheggino Gratarol. Tuttavia, al momento la commedia non fu rappresentata e la partenza della compagnia Sacchi da Venezia pose momentanea fine alla tresca amorosa, ai pettegolezzi e ai desideri di rivincita.
Nell'ottobre 1776 il G. ottenne finalmente l'atteso riconoscimento politico: la sua nomina alla corte di Napoli - svanita una elezione a Milano - fu comunicata dal Senato all'allora residente C. Vignola. Al momento nessun'ombra sembrò addensarsi sul G., ancora tra i protetti della Dolfin. Ma la ripresa della relazione con la Ricci, tornata a Venezia, fece precipitare gli eventi. Fu rispolverata la commedia, malgrado l'attrice si opponesse alla rappresentazione minacciando di rivolgersi alla censura in difesa dell'onore e della dignità dell'amante.
Il Sacchi, preoccupato per le sorti economiche della compagnia, tentò di ottenere l'appoggio della Dolfin, già oltremodo irritata col G. per essere stata messa in disparte per una semplice attrice. Il testo della commedia fu più volte letto nel salotto della nobildonna e gli autorevoli e influenti ascoltatori non vi trovarono nulla di chiaramente riferibile al G., mentre subdolamente fu fatta circolare voce che il personaggio di don Adone lo rispecchiasse interamente. Lo stesso Gozzi fu spaventato dalle possibili conseguenze di una pubblica recita ma le sue suppliche presso la Dolfin ebbero effetto contrario, poiché la vendicativa Caterina si prodigò personalmente non solo per avere il placet dagli esecutori contro la Bestemmia, ma suggerì anche al Sacchi di affidare la parte a un certo Vitalba, fisicamente simile al G., agghindato nelle vesti e istruito negli atteggiamenti in modo da non lasciare dubbio alcuno sull'identità del personaggio oggetto di sì feroce satira.
Preceduta dunque da tanta pubblicità, la commedia andò in scena la sera del 10 genn. 1777; il teatro di S. Luca, i cui biglietti avevano raggiunto prezzi esorbitanti, traboccava d'un pubblico di tutti i ceti; erano pure presenti lo stesso G., Gozzi e ovviamente Caterina Dolfin, con tutto il di lei seguito. Alla sedicesima scena l'entrata di don Adone fu accolta dall'irrefrenabile ilarità generale, che si ripeté a ogni suo intervento; ma la commedia, d'indiscutibile scarsa qualità e nonostante le scenografie fossero del valente architetto e pittore Domenico Fossati, figlio di Giorgio, fu forzatamente interrotta a metà dell'ultimo atto.
L'insuccesso palese avrebbe potuto suggerire la sospensione delle recite, con grande sollievo di Gozzi, ma l'inconsulta ed esagerata reazione del G., ormai pubblicamente additato con scherno ovunque, ancora una volta capovolse gli eventi a suo sfavore. Una sua supplica al tribunale degli inquisitori di Stato (10 gennaio) perché lo difendesse da una "fama svantaggiosa" che avrebbe potuto precederlo nella residenza napoletana non fu accolta; gli inquisitori, per intervento del Tron, lo obbligarono a ritrattare, con un biglietto di scuse, le ingiurie rivolte a Gozzi.
La commedia, con lievi e ininfluenti ritocchi di trama - e malgrado un provvido incidente simulato dalla Ricci alla quinta recita, cui pose fine l'intervento del "fante" del Consiglio dei dieci obbligandola a riprendere le recite -, fu riproposta con sempre maggiore successo di pubblico per tutto il Carnevale; al G. non restò altro che chiudersi in casa, dandosi malato in Senato, covando ossessivamente l'odio nei confronti dei Tron e meditando cupe rivalse, ma ancora convinto di poter riprendere, con la carica di residente, una dignitosa posizione nella società e nella vita politica veneziana. Cessate le rappresentazioni, riapparve in pubblico non mancando occasione, seppur in toni contenuti, di infangare la reputazione della Dolfin e di indicare lei e il marito come uno dei "mali maggiori della Repubblica". Un tale esasperato atteggiamento nei confronti del potente procuratore lo portò ben presto all'isolamento e pose fine alla sua carriera: si giunse a suggerirgli "paternalmente" di presentare le proprie dimissioni da residente e riprendere le normali attività di Cancelleria.
Per il G. fu l'ultimo affronto, troppo grande da accettare per una dignità già vilipesa. Nella notte tra il 10 e l'11 sett. 1777 decise di abbandonare la Dominante, per non farvi più ritorno. Al Consiglio dei dieci risultò che già il 4 settembre, a Padova, aveva avuto un incontro segreto col barone K.E. von Wächter, emissario del duca Ferdinando di Brunswick ed esponente di spicco della massoneria, per predisporre i necessari appoggi al piano di fuga: ciò fu un'aggravante nel successivo processo, facendo apparire che aveva agito con premeditazione.
Riparò dapprima nella vicina Ceneda, presso l'amico d'infanzia conte Folco Lioni, da dove inviò alcune accorate missive agli amici ritenuti più fidati. Oltre al cugino Pietro Antonio Contarini, allora coadiutore presso l'avogaria di Comun, si rivolse ad A. Emo, al conte e massone R. Sceriman, ad Agostino Mocenigo e al semplice "pescador" Titta Pelai (attraverso il quale saldò numerosi debiti contratti a Venezia).
Spiegò i motivi del suo operare, che non aveva alternativa, chiedendo "compatimento e ragione". Alla moglie Santina inviò poche parole, solo per affermare di aver preso la decisione "che meglio conveniva alle mie vicende, alle ragioni mie, alla sensibilità e delicatezza del mio animo, alle ingiustizie sofferte, alla mia conservazione e alla mia stessa fortuna", augurandosi che in futuro avesse "giusta occasione di rallegrarvi del partito ch'io presi" e assicurandole di mantenere per lei "il più sincero e cordiale affetto".
Intanto la macchina della giustizia si mise attivamente sulle sue tracce, imputandogli l'illegale assenza in virtù di una legge del Consiglio dei dieci (gennaio 1665) che vietava a patrizi, segretari e notai di Cancelleria di allontanarsi dalla patria senza legittima "permissione". Di altro, obbiettivamente, il G. non si era macchiato; ma non sfuggirono agli inquisitori di Stato, nelle lettere intercettate o volontariamente consegnate dal pavido cugino Contarini, le pesanti accuse rivolte non solo a singole persone ma all'apparato statale veneziano, nonché l'aggravante, nella dinamica processuale, di una ben congegnata fuga.
Malgrado il G. stesso assicurasse a Giovanni Zon, segretario del Consiglio dei dieci, di non aver sottratto ed esportato atti ufficiali della Repubblica e che "l'onore, il quale fu la guida eterna delle mie azioni, per cambiamento di cielo in me non cambia di forza", la definizione della Dolfin quale "prostituta patricia soggiogatrice d'un semi-dittatore insigne per talenti, per ricchezza, per passioni, per tirannide" non lasciò dubbi sulle sue intenzioni di vendetta. Così il G. divenne vittima involontaria e fortuita quanto predestinata e necessaria di uno scontro politico ad alto livello: se il Tron non poté non reagire duramente alle ingiurie personali, i suoi avversari, tra cui F. Pesaro e ancor più P. Renier, futuro doge e preferito allo stesso Tron, seppero sfruttare adeguatamente le parole di un uomo disperato e perseguitato ingiustamente per sferrare un attacco decisivo al patriziato innovatore. Nell'ottobre gli inquisitori iniziarono una serrata caccia all'uomo, inviando con sollecitudine una lettera circolare agli ambasciatori e residenti di varie sedi, tra cui Firenze, Genova, Livorno, Napoli, Vienna, esortandoli a prendere informazioni su una presenza o passaggio del fuggitivo. Il 5 novembre il Consiglio dei dieci iniziò il processo inquisitorio contro il G., chiamato ripetutamente (10, 12 e 15 dicembre) a presentarsi nel termine di 24 ore per produrre le sue difese. Con l'imputato contumace la sentenza fu emessa all'unanimità il 22 dicembre: il G., privato di ogni ufficio, beneficio e salario, fu bandito in perpetuo con alternativa della forca; tutti i suoi beni furono dichiarati confiscati e su di lui fu posta una taglia di 2000 ducati.
La notizia della condanna pervenne al G. quand'era ormai al sicuro a Brunswick, raggiunta attraverso Monaco. Del suo caso andava interessandosi anche la stampa internazionale, attraverso le informazioni diramate da periodici (Staats- und Gelehrte-Zeitung des hamburgischen unpartheyischen Correspondenten, 1777, n. 182 del 17 novembre e suppl. al n. 189, del 26 novembre, e Journal de Bouillon, 1778, parte I, n. 3, p. 10). Il caso del segretario del Senato veneziano ingiustamente perseguitato fece clamore, permettendo al protagonista di uscire allo scoperto con una propria accorata autodifesa, la Narrazione apologetica di Pietro Antonio Gratarol nobile padovano, pubblicata a Stoccolma (dove si era trasferito dal marzo 1778) nel 1779, presso H. Fougt, cavaliere del Real Ordine Wasa.
L'opera, in seicento esemplari tutti donati dall'autore, ebbe subito uno straordinario successo di pubblico e a nulla valsero i tentativi della Serenissima di frenarne la diffusione: il libro, anche in una ristampa apparsa nel 1781 con titolo identico, senza luogo di pubblicazione e in copie manoscritte clandestine, dilagò per anni nei territori veneziani, come riferirono agli inquisitori di Stato i confidenti Giacomo Casanova (dicembre 1781) e Girolamo Lioni (ottobre 1785). Il G. denunciava senza mezzi termini l'esistenza a Venezia di uno Stato nello Stato, la concentrazione del potere decisionale nella mani d'una ristretta schiera di patrizi che, di fatto, manipolava le deliberazioni dei più importanti organi sovrani, quali il Senato e il Consiglio dei dieci. A queste macchinazioni di palazzo, cancro radicato che minava dall'interno lo Stato veneziano, il G. attribuiva totalmente la responsabilità della sua condanna.
Alla Narrazione, non priva di qualche valore letterario, in cui l'analisi politica si mescola ad aspetti romanzeschi e romanzati (come evidenziato in Capaci, 1997), fecero da contrappunto le astiose Riflessioni d'un imparziale sopra la Narrazione apologetica di P.A. Gratarol (Milano 1779), di un anonimo che il G. definì "un frate, cioè di quelli Fratacci veramente Frati" (il testo probabilmente era solo un'operazione commerciale ispirata dalla risonanza della Narrazione), una Lettera confutatoria del Gozzi (1780) e le Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà, edite a Venezia nel 1797 ma scritte, secondo lo stesso Gozzi, nel 1780 (nel volume III vi furono ristampati Le droghe d'amore e la Lettera confutatoria).
Nel dicembre 1779 (come da informazioni degli inquisitori di Stato) o nei primi mesi del 1780, il G. si trasferì in Inghilterra ove, pur in strettezze, riuscì a inserirsi negli ambienti mondani, ottenendo i favori di William Morton Pitt, cavaliere e membro del Parlamento, che lo ospitò nella propria tenuta di campagna e gli prestò ben 8000 zecchini, che gli permisero di saldare almeno in parte i debiti contratti a Venezia: con un pubblico "avviso" (1° giugno 1781) invitò i creditori a rivolgersi entro un mese per il rimborso a Pier Francesco Tini, negoziante di Genova. Le somme non riscosse entro un anno sarebbero state devolute ai poveri o a qualche "fraterna" od "ospitale" della città.
Le aspirazioni a un riscatto personale portavano il G. a desiderare un pubblico impiego e una residenza a Londra, cosa non possibile in un paese ove "la Costituzione vieta agli stranieri l'entrata alle cariche, ed il pregiudizio nazionale è un ostacolo di più a superarsi", come ebbe modo di rammaricarsi lo stesso Morton Pitt in una lettera. Amareggiato, il G. si trasferì a Lisbona (giugno 1782), mentre a Venezia si diffuse la voce, subito riportata agli inquisitori di Stato dai confidenti G.B. Manuzzi e G. Marcoleoni, che vi fosse inviato ufficialmente dalla corte inglese come console o soprintendente alla mercanzia "nella piazza di Portogallo". In realtà così non era e ben presto egli meditò di inseguire nuove opportunità, abbandonando l'Europa con la speranza di "ritornarci quando la fortuna mi si spieghi in favore", come comunicò alle cugine Teresa, Chiara e Anna in una lettera (25 febbr. 1783).
Partì dunque per l'America del Nord; il 29 ag. 1784, da Baltimora, rassicurò sulla propria salute l'amico milanese G. Viazzoli. Nell'ottobre, in compagnia di Marianna ed Enrico, baroni d'Adelsheim, e dell'avventuriero conte M.A. Benjowski s'imbarcò per il Brasile, dove giunse (5 genn. 1785) dopo un tragitto non facile. Il gruppo vi si trattenne il tempo strettamente necessario per riparazioni alla nave e scorte alimentari; il 7 marzo ripartì per raggiungere l'India circumnavigando l'Africa. Dopo brevi e fortuiti scali, però, nel luglio il viaggio si concluse infelicemente sulle coste del Madagascar, dove il capitano del vascello abbandonò poco dopo (4 o 5 agosto) gli incauti passeggeri, non prima di averli derubati del carico e degli averi che, nel caso del G., ammontavano a ben 800 sterline.
Soli in un ambiente ostile e primitivo, duramente provati anche psicologicamente, il G. e gli amici furono colpiti da una epidemia di "febbre violenta", su cui aleggiò il sospetto di un avvelenamento a opera degli indigeni. Il G. spirò nei primi giorni di ottobre del 1785, in un villaggio a poche miglia dal luogo di sbarco, raccomandando sino all'ultimo al barone d'Adelsheim la piena soddisfazione dei suoi creditori.
La notizia della morte trapelò, seppur con particolari confusi e discordanti, solo negli anni seguenti (1786-88), attraverso la corrispondenza di Morton Pitt e dei testimoni oculari d'Adelsheim con amici e connazionali dello sfortunato segretario. Per un certo tempo, quindi, fu ritenuta "ipotetica", e questo fu motivo per Andrea, cugino del G. e suo erede (essendo già mancata la moglie Santina a Treviso, il 13 nov. 1786), di reclamare dallo Stato la restituzione, almeno parziale, dei beni confiscati al G. e venduti tra 1778 e 1779, tra cui il lascito fedecommesso Fantini, la cui metà era legittima possessione di Andrea. Ma le sue istanze, presentate il 24 sett. 1788, furono rigettate con sprezzo dal Fisco. Una comunicazione ufficiale al governo veneziano venne solo il 4 giugno 1792, con una lettera di Morton Pitt all'allora residente a Londra O. Lavezzani, che assicurava di poter fornire, al bisogno, "certificati più autentici". Ciò diede motivo all'avogaria di Comun di reclamare anche i beni di Andrea, nel frattempo defunto, quali "spettanti ed appartenenti" al G.; confiscati il 13 luglio 1792, furono venduti in pochi mesi ignorando una sentenza dei giudici del Procurator a favore delle sorelle Teresa, Chiara e Anna Gratarol per la restituzione della loro porzione del fedecommesso Fantini.
Solo la caduta del senescente governo oligarchico della Serenissima rese possibile una riabilitazione del Gratarol. Già nel 1797 si ebbero a Venezia due nuove edizioni della Narrazione: una in tre volumi (Memorie ultime di P.A. Gratarol coi documenti della di lui morte e dell'ingiustizia del Fisco veneto verso la di lui famiglia, per servire di supplemento alla Narrazione apologetica), in appoggio alle istanze presentate alla Municipalità provvisoria dalle eredi, già supportate dalla "Carta A. Revendin" e dal "rapporto del cittadino Dandolo" (7 giugno), nonché da una memoria inviata a Napoleone Bonaparte, "Eroe Liberatore d'Italia", perché intervenisse a ripristinare i lesi diritti e la memoria del G.; l'altra, in due volumi (Narrazione apologetica… con l'aggiunta de le Riflessioni d'un imparziale, preceduta da una lettera del medesimo sig. Gratarol). Ma, mentre il Gozzi replicava ancora, con la citata edizione delle Memorie inutili e con un Manifesto del cittadino C. Gozzi (Venezia 1797), neppure dalla Municipalità provvisoria le sorelle Gratarol ottennero piena soddisfazione, poiché, attraverso il segretario S. Marconi, essa si dichiarò "dispensata" dall'ordinare la restituzione dei beni e usufrutti venduti all'incanto, secondo le norme di legge "che in quei tempi doveano essere osservate", del precedente regime politico, per quanto iniquo e corrotto.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., Storia veneta, serie I, reg. 2: T. Toderini, Genealogie delle famiglie venete ascritte alla cittadinanza originaria, ad vocem; reg. 6, c. 1019; reg. 12: G. Tassini, Cittadini veneti, c. 1071; Cancellier grande, Elezioni, 1702-63, reg. 3, cc. 2 e 53; Catastico delle Segretarie de' magistrati, reg. unico, ad voces "artigliarie" e "provveditori in Cecca"; b. 13, Libretto didisposizioni delle Secretarie de' magistrati, reg. unico, cc. 2 e 23v; Segretario alle Voci, Elezioni in Pregadi, reg. 25, c. 110r; Collegio, Notatorio, reg. 183, 8 ott. 1774, 10 giugno e 7 ott. 1775 (concessioni di assenza); Senato, Terra, reg. 385, c. 537v (22 genn. 1774: pensione vitalizia); Corti, regg. 150, c. 155 (11 sett. 1773, elezione alla residenza di Torino); 153, c. 182 (5 ott. 1776, elezione alla residenza di Napoli); Avogaria di Comun, b. 366, ff. 81-83 (concessioni di cittadinanza originaria alla famiglia); reg. 440, c. 22v (indice prove di cittadinanza); Fisco, bb. 2984, ff. 258, 321; 2998, f. 159 (1779, confisca e vendite beni); Miscellanea civile, bb. 3762/15, f. 5; 4137/389, f. 6 (1777, beni confiscati); 4144/397, f. 22 (1778, inventario beni mobili); Consiglio dei dieci, Deliberazioni, Criminal, reg. 194, cc. 27r, 30r-31r, 32r-34r; Diari (alle date 10, 12 e 15 dic. 1777); Processi criminali, Dogado, b. 22, 5 novembre - 9 dic. 1777 (processo intentato dal Consiglio dei dieci contro il G.); Notarile, Testamenti, Notaio P. Bracchi, b. 76, test. n. 137, 20 maggio 1744 (test. di Giuseppe Gratarol); Atti, Notaio G.M. Maderni, reg. 10299, c. 7797v, 18 giugno 1797 (costituto e consegna atti delle sorelle Chiara, Anna e Teresa Gratarol di Ventura, cugine del G.); Dieci savi sopra le Decime in Rialto, Redecima 1740, b. 321, Cannaregio, n. 787 (dichiarazione di Giuseppe Gratarol); Miscellanea atti diversi manoscritti, b. 67, f. E, Segretario Grattarol, sua apologia e sua cifra (lettere autografe ad amici e copia ms. della Narrazione apologetica); Inquisitori di Stato, bb. 152, n. 76, 10 ott. e 22 nov. 1777 (richiesta informazioni al console a Firenze sul G.); 156, nn. 164, 175-176 e inserti (4 dic. 1779, 15 e 30 giugno 1782, dicembre 1783); 163, n. 377 (22 nov. 1777, richiesta informazioni al residente a Napoli); 176, nn. 799, 800-803, 808-809 (15 dic. 1777; 5 febbraio, 18 marzo, 9 maggio, 15 luglio 1778; 10 nov. 1779; 19 febbr. 1780: richiesta di informazioni all'ambasciatore a Vienna); 179, n. 135 (10 ott. 1777, richiesta informazioni ai consoli di Genova e Livorno); 195, n. 315 (5 nov. 1777); 223, n. 937 (9 febbr. 1780); 444 (dicembre 1779); 544 ("riferta" del confidente A. Andrioli, 31 maggio 1777); 614 ("riferte" del confidente G.B. Manuzzi, 20 aprile, 9, 23 e 25 maggio, 4-6 giugno 1774); Provveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 938 (21 sett. 1750, morte di Giuseppe Gratarol); Municipalità provvisoria, b. 182, f. 10 (14 e 22 giugno 1797, petizioni per riscatto eredità del G.); Venezia, Biblioteca naz. Marciana: Mss. it., cl. VII, 90: Arbori et croniche delli cittadini veneti, c. 8098; cl. VII, 341; cl. VII, 202 (= 7771); Ibid., Biblioteca del Civico Museo Correr, Codd. Cicogna, 1366/XXXIII (1777, bando del Consiglio dei dieci contro il G.); 1439/32, c. 282 (1° giugno 1781, avviso ai creditori per riscossione); 2225/ XXIII, cc. 83-85 (supplica agli inquisitori di Stato contro C. Gozzi); 2225/XXIV, cc. 87-91 (1777, bando del Consiglio dei dieci); 2995, f. 16, c. 32 (epitaffio funebre latino, anonimo e non datato, in onore del G.); 3284/XXXVIII; Mss. Dolcetti, 101/61, 119 (1773-77, carte d'affari del G.); Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Venezia, 240, c. 96v (7 giugno 1777); Livorno, Biblioteca comunale Labronica, Autografoteca Bastogi, 30120 (marzo-giugno 1777, lettere del G. a uno sconosciuto).
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