MARTELLO (o, meno bene, Martelli), Pier Iacopo
Letterato, nato a Bologna il 28 aprile 1665, ivi morto il 10 maggio 1727. Cominciò con sonetti e canzoni per nozze, cardinalati, lauree, monacazioni, ispirati, secondo il gusto del tempo, alla dolcezza sensuale del Marino. Ma il suo ingresso in Arcadia (1698) col nome di Mirtilo Dianidio, e l'influenza di E. Manfredi, di F. A. Ghedini, di G. Zanotti, del Crescimbeni, del Leonio, lo condurranno gradatamente ad abbandonare, se pure non del tutto, il marinismo; e nel Canzoniere che raccoglierà nel 1710, il M. apparirà non solo indulgente alle artificiosità e al preziosismo dei secentisti, ma, pur tra reminiscenze petrarchesche e dantesche, ricco d'una sua propria vena. E il distacco dal marinismo sarà allora giustificato nel Comentario premesso al Canzoniere.
Entrato intanto in dimestichezza eon C. M. Maggi, il M. si dedicò per qualche tempo, per l'influsso e l'esempio di lui, alla poesia, lasciando incompiuti Gli occhi di Amarilli per attendere alla composizione di un "sogno" che avrebbe dovuto contrapporsi all'Adone: Gli occhi di Gesù (1707). Sincero il sentimento religioso che traspare in questi sei libri d'ottave, ma il farraginoso poema non meritava certo gli elogi che riscosse da L. A. Muratori. Con il 1708 il M. si trasferì a Roma con l'ambasceria inviata dal senato di Bologna a Clemente XI, e a Roma rimase fino al 1718, tranne i brevi intervalli delle gite a Bologna e i pochi mesi di un soggiorno a Parigi (1713) quale segretario del nunzio P. Aldrovandi. Fu durante il periodo romano che il M. partecipò più vivamente alla vita dell'Arcadia. Amato dal pontefice, frequentò letterati e salotti, si legò in stretta amicizia con G. V. Gravina, partecipò alle vane dispute dell'Accademia. Queste colpirà poi con sferza giocosa (ché il carattere bonario e il placido compiacimento di sé non gli consentiva più dura posizione) in Il secretario Cliternale al baron di Corvara, di satire libro (1717), ma all'Arcadia il M. appartenne completamente. E nei nove sermoni Della Poetica egli si mostra (Versi e Prose, Roma 1710) fedele interprete delle leggi pastorali, alle quali sacrificò anche quella libertà cui il suo spirito tendeva. Pubblicò allora il dialogo Del volo (1710), singolare anticipazione di dottrine aeronautiche, e il primo tomo del suo teatro (1710).
Autore già di melodrammi a intento moralistico (1697-1699), nei quali accettò di fatto le forme del melodramma secentesco che in teoria condannava, anche nelle sue manierate tragedie il M., che nel trattato Del verso tragico e nel dialogo L'impostore manifestò idee innovatrici, appare troppo spesso vincolato a ricordi del melodramma del Seicento. Ammirò, oltre i Greci, i grandi tragici francesi, ma senza entusiasmo, e non li studiò che per rendersi conto del loro successo e, giudicando che solo al verso alessandrino e alla prosaica lingua francese dovessero Corneille e Racine la loro gloria, introdusse nella tragedia italiana il verso che da lui prese il nome e che scrisse con voluta sciatteria. Il M. non ha un'anima tragica; i forti sentimenti non sono fatti per lui: la grandezza e la forza del mondo romano gli restano estranei; l'ispirazione biblica gli detta idillî; Ifigenia è una ninfa d'Arcadia. Ma per questo piacque ai contemporanei. Ribelle alle leggi delle tre unità, sostanzialmente originale, incline a mescolare comico e tragico, il M. portò nelle sue tragedie le usanze manierate, le cerimonie, i complimenti degli eleganti salotti romani, le manifestazioni languide d'amore dell'Arcadia, lo spirito faceto e talvolta volgare del placido e borghese ambiente di Bologna. ll suo tentativo teatrale, suggerito da quel sentimento d'italianità che ispirò a G. G. Orsi la polemica contro D. Bouhours (v. antichi e moderni, III, p. 467), alla quale anch'egli partecipò con i dialoghi Il Tasso o della vanagloria, Il parigino italiano, è il primo passo dal melodramma secentesco alla tragedia italiana.
Alle tragedie sono superiori artisticamente le commedie, nelle quali non stride troppo il contrasto tra il linguaggio lirico e il prosaico. Procedono esse pianamente, non prive di qualche bonaria volgarità, ma illuminate spesso da un placido sorriso. Gl'intenti satirici, palesi nel Piato dell'H, trionfano nel Femia sentenziato (Milano 1724), felice opera polemica in buoni endecasillabi contro S. Maffei, già prima toccato nell'altra commedia, la Rima vendicata. Nell'ultimo periodo del suo soggiorno a Roma, il M. compose un poema burlesco, il Radicone, benevola satira antimonastica. A Bologna, dove era tornato come segretario del senato nel 1718, pose mano a un grandioso poema romanzesco, il Carlo Magno, rimasto interrotto al XVII canto, poco dopo la morte della figlia, cui seguirà, a breve intervallo, la sua. Come già nel Femia, il M. si diverte, non scrive per commissione, per consiglio o per tesi, sì che il Carlo Magno è dopo quello, l'opera sua migliore; il sorriso delle Satire, che s'è allargato nella risata un po' sguaiata del Radicone, si ricompone garbato nel Carlo Magno. E questo sorriso, che ironico avviva il classicismo non altrimenti sentito del Femia, che arguto anima gli eroismi lontani e affiochiti degli antichi paladini, caratterizza il M. tra gl'innumerevoli poeti del primo Settecento.
Bibl.: A. Saviotti, L'imit. francese nel teatro ital. di P. J. M., Bologna 1887; A. Galletti, Le teorie dramm. e la tragedia in Italia nel sec. XVIII, Cremona 1901; E. Bertana, La tragedia, Milano 1906; M. Carmi, P. I. M., Firenze 1906; G. Natali, La vittima del verso martell., in Il Messaggero, 11 maggio 1927; id., Il Settecento, Milano 1929, II, pp. 944-947; M. Ghisalberti Minerbi, Un letterato della prima Arcadia (P. I. M.), in Altius, Roma 1932-1933.