Giambullari, Pier Francesco
Il letterato e storico fiorentino (1495 - 1555) inaugurò, con il suo programma di un commento alla Commedia (di cui parla già nel 1538, tre anni prima dell'esordio dell'Accademia Fiorentina), una stagione tra le più dense che l'esegesi dantesca abbia avuto: quella che si sviluppò nei circoli accademici fiorentini dal 1540 al 1580 circa, ed ebbe per carattere primo un totale abbandono alla lezione morale, dottrinale e formale della Commedia.
Nel G. " il pensiero di Dante torna quale guida, pur coi molti pregiudizi di un'età tramontata " (Toffanin). La difficoltà di intendere appieno il senso di un simile recupero risiede principalmente nell'evanescenza di una dimensione estetica che giustifichi uno sfruttamento tanto massiccio dei contenuti danteschi; la priorità della struttura dottrinaria risulta subito evidente (non solo nelle lezioni del G.): spesso basta lo spunto di una terzina, una breve digressione scientifica o una parentesi gnomica, e la ‛ lettura ' prende corpo attraverso l'amplificazione concettuale, l'addizione di altre autorità, la peregrinazione attraverso esempi biblici o classici, attraverso Aristotele e Platone: per tornare poi alla partenza, a una definitiva ratifica del verbo dantesco. Il quale (in un simile contesto critico e ideologico) tende a trasformarsi in una sorta di evangelo, rivelatore non solo di nuove realtà morali, ma di una nuova cosmografia e scienza della natura. Questo sovraccarico (respinto o almeno fortemente limitato in ambienti non fiorentini) si aggrava, o almeno si aggravò agli occhi della critica romantica e neo-romantica, perché sull'altro piatto della bilancia risultava appena embrionale la qualificazione estetica delle forme dantesche, del tutto carente poi una più generale filosofia dell'arte che servisse di retroscena e giustificazione a una così folta discendenza d'insegnamenti, derivati con apodittico abbandono da un testo di poesia. Si dimentica spesso il peso di una rilevante tradizione cittadina (inaugurata proprio dal Boccaccio) che a ogni livello, ma particolarmente a livello popolare e borghese, aveva diffuso a Firenze un mito dantesco, acritico, pragmatico e municipale quanto si voglia, che si fondava però proprio su di una presunzione preliminare di poesia, secondo l'antica prospettiva del ‛ poeta teologo ', che a ogni generazione si arricchiva di nuovi attributi, di nuove conferme. Per effetto di questo mito (fondato, com'è noto, su di un'estrema dilatazione dell'idea di poesia), la Commedia poteva riaffermarsi, nei circoli accademici del tempo, nelle classi borghesi e ‛ meccaniche ', con la funzione di un breviario accessibile' a ogni livello di lettura, e insieme inesauribile nell'offerta di paradigmi morali, di conoscenze dottrinarie, di realtà quotidiane e sentimentali esemplarizzate.
Dallo sfondo obnubilato di un'età già remota e arcaica (tipica dimora umanisticamente prefigurata del ‛ poeta teologo ') l'esperienza culturale di D. emerge in un alone di miracolo: " ché se elle (le Scienze) non si trovassero molto più antiche di lui, facilmente ne potrebbe egli essere stato tenuto autore ed inventore " (Lezione I). Da queste premesse discende la necessità di un continuo adeguamento culturale del lettore all'opera, che d'altra parte resta inesauribile, anche per le sequenze sempre più recondite dei sensi e dei segr i: ed è notevole, sotto questo profilo, la consapevolezza che il Giambullari mostra (fin dalle pagine del Commento al I Canto) dei sistemi dell'allegoria. Con le sue quattro lezioni accademiche (le ricordiamo in ordine: Del sito e forma del Purgatorio [1541], Della carità [1542], Degli influssi celesti [1543], Dell'ordine dell'universo [1548]) egli non aspirava che a sfiorare alcuni nodi esemplari di questa vicenda intellettuale, lasciandone indelibato il centro poetico, non per indifferenza né per superstizione orfica, ma per una sorta di abbandono quasi fideistico alla sua essenza misteriosamente divina e provvidenziale. Questo presupposto abilitava tanto lui quanto gran parte degli altri accademici a focalizzarsi su di un'attività esegetica destinata principalmente all'ermeneutica dottrinaria o morale, senza che con questo perdessero mai di vista (neppure nelle più larghe digressioni cosmografiche o teologiche) la collocazione mondana e sociale, il senso umanamente rigenerante di questa sapienza accumulata ai bordi del poema: come quando (parlando appunto di cosmografia e di astrologia) ricorda che " chiunque non si dimentica di essere nato e di viver uomo " (Lez. I, p. 6) deve fuggire il biasimo di non conoscere la propria dimora terrena. Accennavamo prima al tentativo (interrotto non si sa bene quando e a che punto) che il G. intraprese, di un commento alla Commedia: l'opera, iniziata intorno al '38, suscitò attese e qualche ironia; si era già scettici, evidentemente, circa la possibilità di vederne la fine. Solo il commento al I canto ha visto la luce per le cure di M. Barbi. Si deve aggiungere infine che il G. s'inserì nella tradizionale ricerca topografica, inaugurata da A. Manetti e G. Benivieni, non solo affrontando per primo il problema della collocazione geografica del Purgatorio (Lez. I) ma anche tornando, con un'operetta a sé stante, sulla topografia dell'Inferno.
Opere del G. pubblicate: Del sito, forma e misure dell'Inferno di D., Firenze 1544; Lezioni sopra alcuni luoghi di D., ibid. 1551 (ma le prime due avevano già visto la luce nella raccolta miscellanea curata dal Doni, Lettioni di Accademici fiorentini sopra D., ibid. 1547). Le Lezioni nel Settecento furono raccolte anche nelle Prose fiorentine e ristampate nell'Ottocento insieme al Gello (P.F. G., Le lezioni e il Gello, Milano 1827: è l'ediz. da cui citiamo). Nel Gello, qualche sfruttamento dell'esemplare dantesco, in una paradossale rinnegazione delle origini latine del fiorentino. Si deve aggiungere infine che al G. si deve la redazione di una parte dell'opera di C. Lenzoni, In difesa della lingua fiorentina e di D., Firenze 1556.
Bibl. - M. Barbi, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890 (che pubblica in appendice, pp. 365-407, il Commento inedito al I canto dell'Inferno); G. Toffanin, La fine dell'umanesimo, Torino 1920, 101; P. Fiorelli, P.F. G. e la riforma dell'alfabeto, in " Studi Filol. It. " XIV (1956); E. Bigi, La tradizione esegetica della Commedia nel Cinquecento, in Atti del convegno di studi su aspetti e problemi della critica dantesca, Roma 1967; G. Mazzacurati, D. nell'Accademia Fiorentina (1540-60), in " Filologia e Letteratura " XIII (1967); ID., Un itinerario della mente a D.: G.B. Gelli, ibid. XV (1969); A. Vallone, L'interpretazione di D. nel Cinquecento, Firenze 1969, 144-149.