PIER FRANCESCO di Bartolomeo, detto Pierino da Vinci
PIER FRANCESCO di Bartolomeo, detto Pierino da Vinci. – Nacque a Vinci nel 1529/30 da Bartolomeo di ser Piero d’Antonio e da «una delle prime giovani del Castello» di Vinci (Vasari, 1568, p. 416). In assenza di documenti, fu Giorgio Vasari (ibid., p. 421) che, dicendolo ventitreenne al momento della morte, correlata con il viaggio a Genova al seguito di Luca Martini, fissato poi dalla critica moderna al 1553 (docc. in Vandelli, 1933, p. 112), ne determinò gli estremi cronologici. Nel 1530 egli fu beneficiario dell’eredità di Benedetto di Piero, zio paterno (docc. in Vasari, 1568, VI, 1881, p. 131 n. 1; Kusch-Arnhold, 2008, p. 41 n. 113).
Sempre Vasari costruì il mito di un Pierino enfant prodige, nel quale si reincarnava l’eccellenza dello zio Leonardo da Vinci. Lo storiografo fissò anche i termini dell’apprendistato e dell’intera carriera dello scultore, assai parca di documenti: Baccio Bandinelli gli insegnò i primi rudimenti, ma il mestiere il giovane lo apprese da Niccolò Tribolo (Vasari, 1568, pp. 416 s.), per cui il giardino della villa medicea di Castello fu, a partire dai primi anni Quaranta, il teatro delle sue esperienze di studio. In questi anni Pierino appare attento a declinare i temi più cari al suo maestro, attraverso il quale risaliva a Jacopo Sansovino e ad Andrea del Sarto. Ne uscì il Puer mictans (Arezzo, Museo statale d’arte medievale e moderna), ordinatogli da Tribolo per una fontana di Cristofano Rinieri (Vasari, 1568, pp. 416 s.; Middeldorf, 1928, p. 305), in cui il promettente allievo esplicitava la propria vocazione leonardesca. Seguì il perduto stemma mediceo in pietra per il palazzo fiorentino in via Faenza del maggiordomo di Cosimo I, Pier Francesco Riccio, noto grazie al frammentario modello in terracotta raffigurante due putti dalle gambe intrecciate (Londra, Victoria and Albert Museum; Holderbaum, in Pope-Hennessy, 1964, II, pp. 440 s.). Nel ritmo concitato dei due bambini Pierino serrava quello più pacato esperito dal Tribolo nella perduta fontana con due putti e un delfino (ibid., pp. 438 s.), eseguita per la villa Caserotta di Matteo Strozzi a S. Casciano (Vasari, 1568, p. 396), e oggi nota attraverso una stampa (Carocci, 1892, pp. 70 s.). Lo stesso chiasmo nella posa delle gambe dei protagonisti venne reiterato dallo scultore nel sensuale rilievo marmoreo, sconosciuto a Vasari, di Pan e Olimpo (Firenze, Bargello; Middeldorf, 1928, pp. 305 s.).
Sebbene la sua datazione resti un problema aperto – mentre lo studioso tedesco lo considerava opera giovanile, Marco Cianchi lo ancorava al 1550 (in Pierino, 1995, p. 51) –, il rilievino rivela le riflessioni del Vinci su Bandinelli. Come in quest’ultimo, i corpi aggettano da un fondo che rifugge da ogni caratterizzazione, eccetto un nudo albero; ma rispetto ai piani levigati di Baccio, la lastra di Pierino presenta una gradinatura che modula la luce, mentre i volumi appaiono stemperati da effetti chiaroscurali che accarezzano il marmo.
Della prima tranche dei lavori del Vinci a Castello, che precedono un primo fugace viaggio romano compiuto certamente prima del 1547 (Vasari, 1568, p. 418), dovevano far parte anche alcuni putti, singoli e in coppie, recanti pesci o altri animali (ibid., p. 417; Kusch-Arnhold, 2008, pp. 97, 255, con bibl. precedente; Baudequin, in De Pierino, 2010, pp. 24 s., sulla base di un’attribuzione di Francesco Caglioti).
Di problematica identificazione – si veda la classificazione, non sempre condivisibile, della Kusch-Arnhold (2008, pp. 97, 255, 267 s., 282) –, essi si disponevano in quella tradizione ellenistica rinnovata a Firenze nel tardo Quattrocento, e poi riletta da Jacopo Sansovino e dal Tribolo.
Nei giorni in cui faceva la spola tra il giardino mediceo e l’abitazione famigliare al Canto alla Briga (Firenze), per la quale il padre Benedetto aveva versato nel 1534 la decima granducale (Kusch-Arnhold, p. 42 n. 115), Pierino scolpiva un perduto Bacco e satiro in pietra alto due braccia e mezzo (Vasari, 1568, p. 417). Termine ante quem per la sua realizzazione è il maggio 1547, data di morte di Bongianni Capponi, che lo aveva acquistato forse per la sua villa di Montici (Firenze; Paolozzi Strozzi, 1998, p. 332).
Rintracciabile nel 1595 nel palazzo fiorentino Vettori-Capponi (Borghini, 1584, p. 475; docc. in Paolozzi Strozzi, 1998, p. 333), il Bacco è stato riconosciuto tramite il ‘modello’ visibile sullo sfondo del Ritratto di giovane – dietro cui si cela forse il medesimo Pierino – dipinto da Bronzino (Londra, National Gallery), collegabile a un bronzetto di Bacco (Venezia, Ca’ d’Oro) attribuito allo scultore (Meller, 1974, pp. 251 s.; Holderbaum, in Pierino, 1995, pp. 20 s., tav. XXII).
Ancora a Castello, con negli occhi gli stucchi raffaelleschi e memore della lezione di Perin del Vaga (Giannotti, 2007, pp. 96 s.), Pierino fu chiamato dal Tribolo a tradurre le sue invenzioni nel fuso della fontana di Fiorenza e nei putti bronzei della vasca della fonte di Ercole e Anteo. Le sibilline parole di Vasari, che riferiva allo scultore «lavori gentili non fatti da altri» (1568, p. 418), non aiutano a stabilire l’entità di tali interventi, a fronte della coesa progettazione tribolesca dell’intero arredo del giardino (Harris Wiles, 1933, pp. 24 s.; Acidini Luchinat in Ead. - Galletti, 1992, pp. 54, 93 s., 191 e ss.; Holderbaum, in Pierino, 1995, pp. 18 s.; Giannotti, 2007, pp. 96 s.). In ogni modo, proprio di traduzione dovette trattarsi, seppur virtuosistica, piuttosto che di originale contributo: lo dimostrano i maliziosi satiri che abitano le specchiature della candelabra di Fiorenza assegnati al Vinci (Harris Wiles, 1933, pp. 23 e ss.; Acidini Luchinat, in Fiorenza, 1987, p. 25; Ead., in Acidini Luchinat - Galletti, 1992, p. 194; Holderbaum, in Pierino, 1995, pp. 18 s.; Kusch-Arnhold, 2008, p. 115), assai prossimi alle delicate figure mitologiche della potente Dea della natura (Fontainebleau, Castello, 1528-29) e al Satiro fanciullo bronzeo di Niccolò (Firenze, Bargello, 1549). Nel 1545 il Tribolo datava e firmava il basamento e l’anello soprastante della fonte di Fiorenza, e nel maggio dello stesso anno ne elaborava il fusto – al quale si riferisce il disegno con il numero d’inventario 638 Orn., presso il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi (di attribuzione controversa, Kusch-Arnhold, 2008, p. 242) –, poi realizzato entro il 1546-47 con l’intervento di Pierino (Acidini Luchinat in Acidini Luchinat - Galletti, 1992, p. 194). Non meno problematica è la paternità dei putti bronzei della fontana di Ercole e Anteo, da Vasari lapidariamente assegnati al modellato del Vinci, che «per commessione del Tribolo gli fece di terra, quali furono poi gettati di bronzo da Zanobi Lastricati» (1568, p. 418), confondendo così quest’ultimo con Zanobi di Pagno Portigiani, reale autore della fusione (Wright, I, 1979, pp. 176 s. e II, pp. 664 s.; Giannotti, in Vasari, 2011, pp. 128 s.). Un’attenta lettura degli scattanti bambini mette in discussione l’esclusiva paternità di Pierino evocata da Vasari, e rivela piuttosto tre diverse autografie: al Tribolo pertiene il putto prono e sgambettante, con il piede destro alzato; a Pierino toccano il bambino supino con un pesce in mano e quello volto di spalle; di Antonio Lorenzi è l’ultimo ragazzo, rimodellato a seguito di una rottura nell’aprile 1549 (Giannotti, in Vasari, 2011, pp. 128 s.). Fu ancora il Tribolo a garantire a Pierino la stima, poi diventata amicizia e affetto esclusivo, del notaio Luca Martini, animatore della vita culturale fiorentina e familiare di molti artisti e letterati (Heikamp, in Pierino, 1995, pp. 67 s.; Nelson, 1995; Giannotti, 2007, passim). Anche se Vasari fa risalire al 1546 la relazione tra i due (Vasari, 1568, VI, 1881, p. 124), non c’è ragione di escludere una pregressa conoscenza di Pierino e Luca, data l’amicizia di quest’ultimo con Tribolo almeno dal 1538. Proprio dal Martini il Vinci ricevette il marmo per un perduto bassorilievo con il Cristo alla colonna (Vasari, 1568, p. 418), in passato dubitativamente identificato con la Flagellazione di Vincenzo Danti del Nelson-Atkins Museum di Kansas City (Kusch-Arnhold, 2008, p. 261). Ultimato su ordine del Tribolo, e con l’aiuto di Lorenzo Marignolli, il mascherone in pietra forte per la raccolta delle acque piovane in piazza S. Maria Novella (smantellato a metà Settecento e poi disperso), Pierino non ancora diciassettenne, partì per un secondo soggiorno romano di circa un anno (Vasari, 1568, pp. 418 s.; Vasari, 1568, VI, 1881, pp. 124 s.).
La trasferta si svolse nella scia delle relazioni di Tribolo e Martini, che lo affidarono alla protezione di Francesco Bandini. Questi, dopo avergli ordinato a Firenze un modello in cera per la tomba, mai realizzata, da collocare nella cappella di famiglia in Santa Croce, lo condusse con sé a Roma. La contiguità del banchiere fiorentino con Michelangelo Buonarroti offrì al giovane l’occasione di rinsaldare i propri rapporti con l’artista, già incontrato durante il primo soggiorno romano, e tante volte studiato insieme a Tribolo. Dall’antico e da Michelangelo Pierino trasse spunto per una serie di invenzioni ancora oggi al centro di indagini (Schlegel, 1970, p. 151; Utz, 1972, pp. 101 s.; Pierino, 1995, pp. 53 s.; Kusch-Arnhold, 2008, pp. 261, 265): a un disegno del Buonarroti si ispirò per un rilievo con una Crocifissione, e al premuroso Martini donò una copia in cera del Mosè, dalla tomba di Giulio II. A Roma egli fu anche restauratore, integrando un Cavallo marmoreo per il Bandini, e dotando di un busto bronzeo una testa, di soggetto non precisato, per il cardinale Niccolò Ridolfi, al quale fornì inoltre una Venere in marmo (Vasari, 1568, p. 419). A tali interventi si è richiamata l’attribuzione all’artista del Bacco e Ampelo (Firenze, Galleria degli Uffizi) proposta da Pizzorusso e datata 1548-50, ma più pertinente alle risentite anatomie del Tribolo, forse supportato dal collaboratore (Pizzorusso, in Bronzino, 2010; Giannotti, 2014, pp. 13, 20).
Nel corso del 1547 Pierino rientrò in Toscana. Lo suggerisce la data impressa insieme allo stemma Martini, e alla firma dello stesso Pierino, nel basamento bronzeo della Venere/Pomona e del Bacco (Venezia, Ca’ d’Oro), esemplato su quello allestito da Michelangelo in Campidoglio per il Marco Aurelio (Meller, 1974, pp. 251 s.). Le due figurine celebravano la stagione di bonifiche inaugurata a Pisa da Cosimo I negli anni Quaranta, della quale proprio il Martini, eletto nell’aprile 1547 provveditore all’Ufficio delle Galee e dei Fossi, fu l’artefice principale (Nelson, 1995, p. 290). Si aprì così per l’artista una serie di impegni pisani condotti sotto l’egida dell’autorità ducale, di cui il primo fu forse la partecipazione alla tomba di Matteo Corte (Pisa, Camposanto). Ordinata dal duca in memoria del filosofo pavese, morto nel 1544, essa fu disegnata dal Tribolo e tradotta da Antonio Lorenzi, che ne realizzò il gisant (firmato) e i due putti apicali (Vasari, 1568, p. 879). Recentemente si è voluto riconoscere in alcune di queste parti, nelle decorazioni dei vasi e nelle figurazioni delle specchiature, anche il contributo di Pierino (Casini, in Ciardi - Casini - Tongiorgi Tomasi, 1987, p. 252 s.; Kusch-Arnhold, 2008, pp. 170 s.). Tre lettere dell’aprile 1548 relative all’elaborazione dell’epitaffio da parte di Francesco Robertelli (docc. in Casini, in Ciardi - Casini - Tongiorgi Tomasi, 1987, p. 270 n. 11; Kusch-Arnhold, 2008, pp. 170 s.) lasciano supporre che i lavori del complesso fossero già molto avanti. Intorno a questa data Pierino lavorò anche il bellissimo Dio fluviale (Parigi, Louvre; Middeldorf, 1928, pp. 300 s.). Vasari, che ricorda le vicissitudini del Vinci per un difetto del marmo procuratogli da Martini, descrisse la figura ponendola a giacere invece che in piedi. Essa riflette la nuova maturità dello scultore, che allestì l’efebico fanciullo, recante un vaso da cui doveva sgorgare l’acqua, a ridosso di una natura ubertosa, dove tre putti giocano con degli uccelli. Una lettera del 1° gennaio 1549 fissa l’ante quem della sua esecuzione: a tale data il Fiume risultava già trasferito, insieme ad alcune opere tribolesche, presso Livorno, per essere imbarcato sulle galee di don García di Toledo (docc. in Vandelli, 1933, p. 111 n. 5; Kusch-Arnhold, 2008, p. 185 n. 424). A Vasari rimonta infatti la notizia della ‘presentazione’ del marmo fatta da Martini alla duchessa Eleonora, sorella di García, che, approfittando della presenza del fratello a Pisa, gliene fece dono per il giardino napoletano di Chiaia (Vasari, 1568, p. 419). Dà ragione all’aretino il ritrovarsi del Fiume nel 1553 tra le proprietà di don Pedro de Toledo, a villa la Starza di Pozzuoli (docc. in Musella Guida, 2008/09, pp. 251 s.; Loffredo, 2011, pp. 100 s.). Più strettamente legato agli interessi letterari di Martini e dei suoi amici (Benedetto Varchi, Annibal Caro, Anton Francesco Grazzini, Pontormo, Tribolo, Bronzino, Giovan Battista del Tasso, Cellini: Nelson, 1995, pp. 283, 300; Heikamp, in Pierino, 1995, pp. 67 s.) è il rilievo con la Morte del Conte Ugolino e dei suoi figli. Noto in varie redazioni – bronzo, terracotta, stucco, marmo e cera (Kusch-Arnhold, 2008, pp. 124 s.), delle quali l’esemplare di Chatsworth House (Derbyshire) viene proposto come il più antico (Avery e Nelson, in Pierino, 1995, pp. 39 s., 57 s.) –, esso illustra la macabra storia di Ugolino della Gherardesca evocata da Dante nel XXXIII canto dell’Inferno. Sulla scorta delle indagini dantesche condotte dal provveditore dei Fossi e confluite nelle postille al suo esemplare aldino della Commedia (1548), sembra verosimile riconoscere proprio in Luca il committente del rilievo di gusto michelangiolesco.
Intorno al 1550 Pierino eseguì il ritratto all’antica del suo amato protettore entro un ovale marmoreo (collezione privata; Pizzorusso, in Vasari, 2011, pp. 134 s.). La gemmea precisione del profilo, di pelle setosa, richiama il volto di Martini posto da Pierino nella sfilata del corteo della Pisa restaurata (Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana), la targa marmorea con la quale l’artista celebrò le imprese ducali di riqualificazione della città (Collareta, in Pierino, 1995, pp. 35 s.).
Come in un trionfo imperiale, teorie di figuranti accompagnano Cosimo I vittorioso e Minerva con lo scudo pisano. Mentre incedono sulla sinistra i protagonisti della rinascita (Guido Guidi, Luca Martini, Tribolo, Michelangelo e lo stesso Pierino), sovrastati dal Genio della Vittoria che reca la corona ducale, escono di scena sulla destra, in una calca scomposta, i Vizi (Holderbaum, in Pierino, 1995, p. 22). La fragile marina graffiata sul fondo in uno stiacciato donatelliano, e l’Arno sdraiato in primo piano, ne qualificano la topografia.
L’opera, che all’eleganza grafica tosco-romana unisce un’impronta emiliana chiaramente appresa a Roma (Cianchi, in Pierino, 1995, p. 53), rimase incompleta (Vasari, 1568, pp. 420 s.), e fu forse ultimata da Stoldo Lorenzi, artista tribolesco della cerchia di Martini, mentre era all’opera sull’Omaggio delle province toscane a Cosimo I (Norfolk, Holkham Hall, collezione Earl of Leicester). In assenza di notizie sicure sulla destinazione delle due targhe encomiastiche medicee e sul loro committente, si può solo rilevare il coinvolgimento nella loro elaborazione del solito Provveditore. Mentre la paternità di Pierino per la Pisa restaurata è stata proposta da Nagler (1850, p. 347), la sua gestazione fu esaminata da Middeldorf, che ne rintracciò due prove grafiche (Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, inv. n. 13371 F.; Chatsworth, Derbyshire, inv. n. 707) (Middeldorf, 1928, p. 300; Id., 1938/1939, pp. 9 s.). Se induce alla prudenza l’attribuzione a Pierino del Profilo femminile in ovale (Lawrence, Spencer Museum of art, The University of Kansas; Maser, 1960, pp. 46 s.; Kusch-Arnhold, 2008, pp. 272 s.), più freddo e astratto rispetto ai marmi del Vinci, è stata recepita come autografa la Sacra famiglia con s. Giovannino e s. Elisabetta (già Firenze, Museo nazionale del Bargello: Utz, 1972, pp. 104 s.; Kusch-Arnhold, 2008, pp. 148 s.), sebbene anche su questa gravi qualche riserva. A Vasari (1568, p. 420) rimonta, con alcune omissioni nella descrizione, il primo riferimento a questo soggetto, eseguito dal Vinci a Pisa, e appartenuto a Eleonora di Toledo, poi passato allo scrittoio ducale. Si tratta verosimilmente della stessa scultura presente nel 1559 nella Guardaroba medicea (doc. in Utz, 1972, p. 122). Hildegard Utz, che ne ha ripercorso le vicende collezionistiche fino al suo trafugamento nell’agosto del 1944, ne ha colto la dipendenza da una stampa di Luca di Leida e le molte contaminazioni michelangiolesche (Ead., pp. 103 s.). Le vicende occorse al rilievo s’intrecciano con l’esecuzione, intorno al 1550, del Sansone col filisteo (Firenze, Palazzo Vecchio), allestito da Martini dirimpetto alla propria residenza sul Lungarno pisano (Tolaini, 1996, p. 12). Il gigante rivela l’attenzione ossessiva di Pierino per gli incastri dei gruppi del Buonarroti, che talora ha indotto ad attribuirgli alcuni bronzetti con Sansone e il filisteo derivati da un modello michelangiolesco (Schmidt, 1996, pp. 81, 120 n. 16, con bibl. precedente). L’opera, non finita alla morte di Pierino, fu traslata a Firenze tra il 1570 e il 1579, e fu sistemata da Bartolomeo Ammannati in Palazzo Vecchio nel gennaio del 1592 (Gaye, 1840, p. 514). La Dovizia di piazza dei Cavoli, oggi Cairoli, svettante su un’alta colonna (Vasari, 1568, p. 420), uno stemma Medici-Toledo con aquila e diamante nella medesima piazza, e un altro stemma ducale posto all’ingresso meridionale della Sapienza, forse realizzato in collaborazione con il Tribolo, furono le ultime opere pisane dello scultore (Ciardi, in Ciardi - Casini - Tongiorgi Tomasi, 1987, pp. 122 ss.; Id., 1991, pp. 38 ss.). La celebrazione della prosperità ritrovata grazie ai favori del duca fu per Martini, e di riflesso per Pierino, l’occasione della vita. Al centro della piazza del mercato pisano egli replicò lo schema del mercato del pesce fiorentino accompagnato dalla Dovizia di Donatello: nell’interpretazione offertane da Pierino, l’avvitamento della Leda stante di Leonardo risulta potenziato di un nuovo vigore michelangiolesco.
Il 30 maggio 1552 Pierino stilò un contratto con i fratelli Turino e Giulio Turini per l’esecuzione nel duomo di Pescia, entro diciotto mesi, del sepolcro di Baldassarre Turini il Giovane, datario di Leone X, segretario di Clemente VII e chierico di camera di Paolo III, morto a Roma nel 1543 (docc. in Nesi, 2011, p. 67). Non è escluso che Pierino possa aver usufruito per questo incarico delle buone entrature del Tribolo. Questi frequentò infatti Pescia tra il 1542 e il 1543, lavorando al corso del suo fiume.
La tomba, per la quale si conoscono alcuni disegni (Kusch-Arnhold, 2008, pp. 224 s.), forse ultimata da Antonio e Stoldo Lorenzi (Nesi, 2011, pp. 61 s.), è una summa di topoi triboleschi: il giovane genio funebre sulla sinistra, attribuito a Pierino, adatta lo schema del Fiume Corsini del vecchio maestro, mentre i mascheroni grotteschi e le monumentali mensole del sarcofago evocano il repertorio della tomba Corte.
Pierino continuò nel frattempo a vivere a Pisa, dove nel settembre 1552 dettò una procura per dei terreni a favore del cugino Benedetto di Guglielmo (testimone l’orefice fiorentino Pietro di Domenico; docc. in Kusch-Arnhold, 2008, p. 337).
Almeno dal 1547 Pierino si dedicò a bronzi e oreficerie. Lo accertano una Base di candeliere (Londra, British Museum), identificata da Middeldorf grazie a un disegno preparatorio con l’iscrizione antica «Pierino da Vinci» (Londra, British Museum, inv. n. 1947-7-13-63; Middeldorf, 1938, pp. 204 s.), e la notizia dell’esecuzione a Genova, nel novembre del 1552, di un vaso e due bicchieri in argento per l’abate Tommaso di Negro (docc. in Vandelli, 1933, p. 112; Vasari, 1568, p. 421). Martini si era recato in quella città, in compagnia di Pierino, dall’ottobre 1552, su richiesta del duca, per reperire fondi presso il banchiere Adamo Centurioni. Ai versi composti da Luca nel 1553, dopo il rientro a Pisa, dobbiamo la notizia della visita fatta dai due alla villa del Centurioni a Pegli (Il secondo libro, 1724, pp. 280 s.). Durante il soggiorno ligure Pierino eseguì proprio per lui il modello di un S. Giovanni Battista, oggi perduto (Vasari, 1568, p. 421), talora identificato con la statua in marmo (Washington, National Gallery of Art) ora correttamente restituita a Giovanfrancesco Susini (Caglioti, 2012, pp. 6, 58 n. 36). Nel dicembre del 1552, mentre Martini era richiamato dal duca, Pierino, ammalatosi, si trattenne presso il Di Negro, per rientrare a Pisa, via mare da Livorno, il mese seguente.
Morì a Pisa nei primi mesi del 1553 (Vandelli, 1933, pp. 112 s.). La sua scomparsa venne celebrata con accorate parole da Benedetto Varchi (1859) e Bronzino (1823).
La prodigiosa, anche per la sua brevità, carriera di Pierino ha sollecitato altre attribuzioni, spesso rivelatesi problematiche o non pertinenti (per esse si rinvia a Kusch-Arnhold, 2008, pp. 267 e ss.).
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